quando adamo vangava ed eva filava…chi era l’oppressore e chi l’oppresso…
Un panorama del dibattito tra antropologhe femministe inglesi e americane sull’origine della disuguaglianza fra i sessi.
l’origine delle differenze sociali e della diseguaglianza fra i sessi ha suscitato non uno, ma molti dibattiti. Tali discussioni sono strettamente legate all’immagine che ci facciamo dei tempi antichi. Riteniamo che sia esistita una barbarie feroce e belluina, oppure crediamo a una Età dell’Oro egualitaria? Gli schieramenti al riguardo sono alquanto strani: alcune femministe e anti-femministe sono convinte che gli uomini abbiano sempre avuto il predominio; altre femministe credono all’esistenza di un’antica supremazia delle donne; gli “egualitaristi”, fra i quali possiamo annoverare Engels, sostengono l’idea di una complementarietà di poteri fra i sessi.
Non varrebbe la pena di intraprendere la ricerca, rischiosa e aleatoria, su “come tutto ciò ebbe inizio”, se le teorie sull’origine dell’oppressione non avessero uno stretto legame con le idee sulle cause della diseguaglianza attuale. La nostra analisi delle cause incide sulle strategie di mutamento. Le nostre idee riguardo al modo in cui andarono le cose si intromettono costantemente nelle discussioni sul modo in cui sarà possibile rendere la società meno oppressiva sul piano sessuale.
Il mio interesse personale per queste baruffe sulle origini è venuto fuori dalle discussioni d’interesse immediato, e si è trasformato in uno di quegli irresistibili impulsi a riordinare e dipanare che caratterizzano certe pulizie pasquali. La ragione per cui voglio liberare dalla polvere e sbrogliare queste controversie di vecchia data non è la speranza illusoria di potervi trovare nascosta l’origine di tutte le cose. 11 mio scopo è piuttosto chiarire cosa si possa o non si possa trovare, e cosa si potrebbe o non si potrebbe immaginare.
Il nostro fine non è quello di raggiungere uno scetticismo diffuso, ma quello di distinguere la realtà dalle ombre. Possiamo cominciare a toccare la complessità delle forme in cui si sono manifestati i rapporti fra i sessi. Visti in questa prospettiva, i meandri della discussione sulle cause della diseguaglianza fra i sessi acquistano un fascino nuovo.
In passato era consuetudine risalire ad Adamo ed Eva. Quando tutto il dibattito su separazione, alienazione, autorità e scarsità poteva essere espresso nei termini del mito del Peccato Originale, era importante fornire la propria versione di quanto era accadute ai primordi. Le autrici di un pamphlet edito nel 1640, intitolato La sottile vendetta delle donne, sostenevano che Dio aveva voluto la donna eguale all’uomo, visto che l’aveva tratta dal suo fianco e non dal suo piede. Mary Ciarlabene e Joan Colpiscilonelvivo credevano che ciò provasse che Dio aveva destinato Eva ad essere “la compagna e amica, l’eguale” di Adamo. Questo argomento torna a essere agitato due secoli dopo, fra gli Oweniti radicali degli anni trenta del secolo scorso.
Ancor oggi l’interesse per Adamo ed Eva non si è completamente estinto. Quanto meno, una scrittrice femminista” contemporanea, Merlin Stone, nel suo Paradise Papers (edito da Virago, 1976) ha ritenuto importante reinterpretare il mito del Peccato Originale. Tuttavia, dalla metà del secolo scorso l’asse del dibattito si è spostato dalla Bibbia ai tentativi storici di ricostruire le forme della famiglia e la posizione delle donne. Miti dell’antichità, scoperte archeologiche, esempi tratti dall’etnografia contemporanea, argomenti desunti dallo studio del comportamento animale, vennero utilizzati da studiosi che miravano a stabilire un modello universale dell’evoluzione umana. Nel 1861 lo storico tedesco T. J. Bachofen, interpretando alla lettera i miti, pervenne all’idea che un tempo fosse esistito un matriarcato, sviluppatosi in seguito a una sconfitta militare degli uomini. Ma il dominio delle donne era legato al mondo fisico della fecondità, secondo Bachofen; e fu seguito dal predominio del “padre divino”, che era necessario per lo sviluppo delle facoltà spirituali. Nell’impostazione evoluzionistica, il passato era concepito come un movimento lineare che tendeva al presente. Chi dissentiva forniva, a sua volta, una propria versione. Le femministe, alla ricerca di una prova del fatto che le donne dovevano essere rispettate spiritualmente ed elevate intellettualmente, posero l’accento sia sulla responsabilità delle madri per il futuro morale e culturale della società intera sia sull’idea di una sorellanza militante. Il che da un canto ribadiva e idealizzava le differenze biologiche della donna, dall’altro le minimizzava e le rifiutava,
Engels formulò una spiegazione materiale del predominio maschile in V origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, L’ anarchico Kropotkin, in Il mutuo appoggio, fattore della evoluzione (1902), addusse argomenti contro la competizione “naturale” portando esempi di animali che sopravvivevano grazie alla cooperazione. Gli echi di queste controversie persistettero a lungo anche dopo che la paletnologia e l’antropologia avevano rigettato sia i metodi sia gli interessi centrali degli evoluzionisti.
Simone de Beauvoir, in uno dei libri che hanno maggiormente influito sul movimento delle donne moderne, Il secondo sesso (1949), ruppe decisamente con l’idea di un matriarcato, collocato in un passato lontano. Ella considerava la stessa idea di una Età dell’Oro della Donna una creazione culturale del potere maschile. La Dea Madre era una concezione tipica del “mondo maschile”. Di qui prese le mosse la nascente antropologia femminista, che si è basata principalmente sullo studio delle donne nelle società contemporanee, anziché sulla ricerca delle origini. Come la de Beauvoir, queste antropologhe si domandano perché «il mondo è sempre appartenuto agli uomini». L’opinione di Margaret Mead era che, mentre le società possono dividere le attività fra i sessi nei modi più diversi, le occupazioni degli uomini sono sempre maggiormente apprezzate, mentre quelle delle donne sono considerate meno significative. Ciò ha contribuito alla convinzione che gli uomini abbiano sempre avuto il predominio.
Questi approcci antropologici, però, sono piuttosto malaccorti sul piano politico. Quelle stesse femministe che rigettavano l’inferiorità biologica delle donne fornivano un’ampia documentazione di una universale inferiorità sociale delle donne rispetto agli uomini, Precludevano ogni possibilità di un’alternativa, non solo per quanto riguarda le società note ma per tutte quelle esistite dall’inizio dei tempi. Ad un certo livello aveva senso dire che la complessità della divisione del lavoro in altre società ci consentiva di vedere come i nostri ordinamenti fossero storici, anziché naturali; anche se il predominio maschile fosse sempre esistito, e fosse tuttora universale, non sarebbe per questo né desiderabile né inevitabile. Ma è forse ingenuo presumere di poter seppellire in modo così sbrigativo le età morte, specialmente quando ci si prefigge di sradicare le discriminazioni sessuali. Vi era uno sfasamento fra la teoria antropologica e l’impresa immane di legittimare l’assalto femminista alla fortezza dell'”E’ sempre, stato così”. Paula Webster descrive l’effetto che tutto ciò ha avuto sulle antropologhe americane, nei primi anni Settanta, in Toward an Anthropology of Women, una raccolta di saggi a cura di Rayna R. Reiter (1975); «Le donne nel movimento ci chiedevano perché le donne non avevano avuto mai un potere effettivo, perché gli uomini avevano sempre avuto uno status più elevato e perché un matriarcato era impossibile. Insinuavano che ci eravamo fatte lavare il cervello dall’establishment accademico maschile e, a furia di pensarci, cominciammo a chiederci se non avessero ragione».
Questo anelito verso le potenzialità di un lontano passato sussiste ancora; un’alternativa idealizzata e congelata viene proiettata in tempi remoti, vagamente definiti. La situazione attuale, che offre scarse possibilità alle donne, viene rovesciata, e le si contrappone uno stato astratto di potere, che misteriosamente andò perduto. Naturalmente, “provare” se sia esistito un matriarcato originario o se gli uomini abbiano sempre dominato è un problema immenso. Tanto per cominciare, si è molto vaghi nell’indica-re quando, eventualmente, ciò si sarebbe verificato, e lo stesso termine “matriarcato” è oscuro: significa il dominio delle donne, come sostiene Elizabeth Gould Davis in The First Sex (1971), oppure significa che le donne avevano una “posizione di prestigio”, come asserisce Evelyn Reed in Wo-man’s Evolution (1975): «Sistemi di parentela matrilineari, moduli di residenza familiare matrilocali e culto di divinità femminili vengono tuttora, a volte, confusi con il matriarcato». I “fatti” archeologici devono essere collocati nel loro contesto storico e sociale. Per esempio, non si possono collezionare ocre rosse tombali, templi con rilievi di mammelle femminili e statuette antropomorfiche come se sì trattasse di farfalle, per poi mettere tutto insieme in modo forzato per “provare” il matriarcato. Boadicea guidava un cocchio, la Principessa Anna di Inghilterra va spesso a cavallo; però ci sono stati alcuni mutamenti, dal tempo della Britannia romana. La presenza del medesimo simbolo non indica necessariamente che i valori ad esso attribuiti siano rimasti immutati; il simbolo della Vergine Maria ha avuto differenti interpretazioni storiche. La supposizione che gli uomini abbiano sempre dominato, in realtà, è altrettanto discutibile quanto quella di uno stadio universale di supremazia femminile; ha un’aria più realistica perché corrisponde a quanto osserviamo nelle società note, ma l’esigenza di distinguere fra congettura e realtà effettiva permane. L’affermazione di Simone de Beauvoir secondo cui «la sorte delle donne nell’orda primitiva era molto dura» è il frutto di un’impressione opinabile, tanto quanto l’asserzione della Reed secondo la quale le donne furono i primi vasai.
Una risposta data a questi problemi da parte di alcune femministe è stata quella di abbandonare del tutto il tentativo di fare storia.’ L’esperienza delle donne è negata dalla cultura maschile; la nostra percezione della realtà storica è troppo immersa nelle definizioni maschili del sapere. Le donne hanno bisogno soltanto di rivendicare un passato immaginario: prove e dati guastano la purezza del mito matriarcale.
Ma non c’è bisogno di negare la possibilità della ricerca per riconoscere che il confine tra mito e storia può essere indistinto. Accade che anche i più prudenti studiosi della preistoria escano momentaneamente dal loro scetticismo, quando affrontano l’origine della divisione sessuale del lavoro. Per esempio, Graham Clark e Stuart Piggott si lanciano sui rapporti fra i sessi e sul problema di biologia e cultura, nel capitolo su “Il posto dell’uomo nella natura” del loro libro Prehistoric Societies (1965):
«Poiché la caccia premia le qualità maschili, quest’attività divenne l’ambito particolare dei maschi, e si instaurò una divisione sessuale del lavoro, in cui le donne continuavano a raccogliere piante, insetti e cibi analoghi, mentre gli uomini sviluppavano le attitudini necessarie per seguire le tracce della selvaggina e ucciderla». Essi suppongono che l’uomo primordiale fosse monogamo, perché la sua assenza durante la caccia avrebbe reso impossibile mantenere un harem o procurare carne sufficiente per una famiglia poligamica.
Sally Slocum, nel libro di Rayna R. Reiter già citato, scrive sul tema «La donna raccoglitrice: pregiudizi maschili nella antropologia». Ella rileva che «questa ricostruzione… dà nettamente l’impressione che solo metà della specie — la metà maschile — si sia evoluta»; tale ricostruzione inoltre sottovaluta l’importanza della raccolta. Anche nell’habitat marginale dei cacciatori-raccoglitori attuali, il contributo delle donne alle provvigioni alimentari è cruciale: le lunghe spedizioni di caccia, esclusivamente maschili, integrano la dieta, ma l’apporto principale proviene dalla raccolta e dalla caccia di piccoli animali. Sally Slocum sostiene che, se pensiamo in termini di invenzioni culturali anziché in termini di utensili e armi, i contenitori per la raccolta del cibo e certi tipi di cinghie o di reti per portare i bambini acquistano un’estrema importanza: «Si è prestata un’attenzione eccessiva alle capacità richieste dalla caccia e troppo poca, invece, alle capacità necessarie per la raccolta e per l’allevamento dei piccoli privi di autonomia». Ella osserva inoltre che «la monogamia è abbastanza rara anche fra gli umani moderni»; l’ipotesi ch’essa fosse consuetudine fra i proto-umani rappresenta un grosso salto nell’ignoto. Le antropologhe femministe hanno utilizzato le conoscenze ricavate dall’indagine sulle società contemporanee per mettere in discussione altre teorie sull’origine della divisione sessuale del lavoro. Un corollario di quegli approcci che vedono nella caccia, e quindi nell’uomo, il motore dell’evoluzione, è l’ ipotesi di un conflitto, anziché di una distribuzione armoniosa delle mansioni; in altre parole, si afferma che le donne, in uno stadio non meglio precisato dell’evoluzione, vennero soggiogate col ratto e la violenza e che, da allora in poi, rimasero sempre sottomesse. Ma le ricerche antropologiche rivelano sistemi complessi di resistenza e di mediazione e inducono a pensare che anche questa sia una visione semplicistica dei rapporti fra i sessi. Un incentivo più raffinato è stato offerto dalle teorie di Engels e di Lévi-Strauss. Engels sostenne che il rapporto fra uomini e donne fu di dipendenza reciproca fino a che gli uomini non arrivarono, con l’addomesticamento degli animali e l’espansione del commercio, a dominare; essi rovesciarono il diritto materno per poter trasmettere il patrimonio ai propri figli. Lévi-Strauss (che influenzò la de Beauvoir) considera lo scambio delle donne da parte degli uomini come un fatto che si situa non entro un rapporto sociale storicamente determinato, bensì entro la facoltà di concettualizzare della psiche umana. Le femministe, rivisitando le idee evoluzionistiche di Engels e inerpicandosi fra le strutture di Lévi-Strauss, hanno acquisito elementi di conoscenza e intuizioni preziose riguardo all’interrelazione fra riproduzione biologica e produzione, parentela e “sposarsi fuori dal gruppo” come mezzo per stabilire legami sociali. Hanno anche suggerito alcuni spunti critici: per esempio, l’ipotesi engelsiana che gli uomini fossero sempre i gestori o i produttori della sussistenza è messa in discussione dai dati sulle attuali società di cacciatori-raccoglitori e orticoltori, e le ricerche moderne hanno dimostrato che coltivazione e pastorizia si svilupparono nello stesso periodo, in seguito a differenti processi di adattamento. Engels ipotizza un periodo di divisione del lavoro non oppressiva, anteriore all’esistenza della proprietà privata. Sebbene riconosca l’importanza della riproduzione biologica, egli la equipara alla produzione economica; pone l’accento sul possesso e sulla riproduzione della forza-lavoro, anziché sui rapporti sociali che s’incentrano sul sesso, sulla procreazione e sull’allevamento dei bambini. La concezione di Lévi-Strauss dello scambio delle donne come fenomeno pre-culturale ha indotto a esaminare cosa si intenda con “natura” e “cultura”. Le femministe hanno cominciato a demolire la sua idea dello scambio delle donne come struttura universale, per riconoscerlo invece come fenomeno sociale, che può essere compreso solo in riferimento a particolari circostanze materiali.
Queste critiche svelano forme di pregiudizio maschile che, pur non essendo coscientemente anti-femministe, si manifestano nei momenti in cui la vigilanza dello studioso s’allenta, affidandosi comodamente a cose “scontate”, secondo opinioni preconcette di impronta maschilista. Mi sembra che questi tipi di tranelli indichino le vere conseguenze politiche del dibattito sulla posizione delle donne nelle società non capitalistiche, assai meglio che non le congetture astratte sulla possibilità che il matriarcato prenda il sopravvento o che il patriarcato continui a reggere.
In un recente articolo [che comparirà nel numero 9 di “Nuova DWF”] Felicity Edholm, Olivia Harris e Kate Young mettono in discussione l’intera interpretazione teorica della posizione delle donne in base a una «spiegazione universale di quella che viene considerata — a torto o a ragione — una subordinazione universale delle donne», In sostituzione della definizione biologica della categoria “donne”, esse propongono di distinguere tra le diverse “attività” delle donne, procreazione, allevamento dei bambini, lavoro domestico, partecipazione alla produzione sociale. La biologia non è una definizione eterna, ma una condizione materiale che acquista un differente significato all’interno di diversi rapporti storici.
Le critiche femministe si sono sviluppate nel contesto dell’antropologia, anziché occuparsi direttamente delle scoperte recenti in campo preistorico. Ma, contemporaneamente a tali critiche, si è prodotto un rivolgimento radicale nell’intera impostazione degli studi sulla preistoria. A partire dagli anni venti, i paletnologi inglesi hanno largamente dominato il campo con le loro teorie della diffusione culturale e della migrazione di popolazioni. Si riteneva che le antiche civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia e della Grecia avessero influenzato l’Europa preistorica. Ma le nuove tecniche di datazione basate sul radiocarbonio e sugli anelli degli alberi hanno dissolto l’ipotesi di una propagazione graduale della cultura e della tecnologia dal Vicino Oriente. Tali tecniche rivelano che le tombe a camera megalitiche dell’Europa occidentale, i templi di Malta e Stonehenge si svilupparono molto più anticamente di quanto si pensasse in precedenza. Oggi risulta che popoli i quali non vivevano in città e non tenevano documentazioni scritte erano in grado di erigere monumenti di pietra assai complessi, di fondere il rame e di installare osservatori astronomici.
Ciò ha costretto gli archeologi a mettere in discussione le loro definizioni di ‘civiltà” e di “barbarie” e a ricercare spiegazioni nuove delle trasformazioni delle società.
Colin Renfrew, in Before Civilisation (1973) sintetizza questo nuovo approccio definendolo come uno «spostamento… dal discorso sui manufatti al discorso sulle società, dagli oggetti ai rapporti fra differenti classi di dati». Gli interrogativi riguardo ad habitat, sussistenza, tecnologia, organizzazione sociale, tipi di abitazione e densità di popolazione vengono affrontati dagli archeologi con campioni di terreno, schegge d’ossa e conchiglie e stime della densità di popolazione compatibile con la coltivazione su terreno debbiato.
Ciò solleva, e complica, il problema di come si possa evitare di attribuire i valori del ventesimo secolo a società immensamente diverse dalla nostra. Marshall Sahlins, per esempio, in Stone Age Economics (1972) sostiene che le fosche ipotesi circa la dura vita delle società che traggono il loro sostentamento dalla caccia sono, in realtà, un’espressione dei nostri preconcetti riguardo alle caratteristiche di uno standard di vita “buono”. Non è possibile stabilire un raffronto diretto fra l’esistenza di gruppi che vivono isolati come gli aborigeni australiani e le condizioni ambientali più ricche dei popoli dell’età della pietra. L’accento posto sullo sviluppo interno delle società preistoriche, anziché sulla diffusione della cultura e della tecnologia, ha riaperto il dibattito sui rapporti fra antropologia e paletnologia. Peter Ucko ha sostenuto che l’antropologia è un mezzo per allargare «gli orizzonti dell’interprete», perché è inevitabile che i paletnologi traspongano alcune convinzioni inconsce dalle loro vite e dai loro tempi al passato, Questa possibilità è illustrata dal suo stesso studio, Anthropomorphic Figurines (1968). Nelle società contemporanee ci sono esempi di statuette che vengono utilizzate in rituali di magia omeopatica contro l’aborto spontaneo, per la cura di malattie, per nuocere a un nemico, per impartire insegnamenti sessuali al momento della pubertà e dei rituali di iniziazione, o come bambole. Tali statuette possono essere sepolte per commemorare i capi, o accompagnare mariti (e mogli) morti, per fungere da intermediari con gli spiriti. Possono essere usate per esprimere disapprovazione all’interno di una comunità; Ucko riporta l’esempio di statuette d’argilla lasciate nell’orto di un uomo, il quale aveva abbandonato moglie e figli per andare a vivere con un’altra donna. La conoscenza di queste usanze contemporanee non basta da sola ad accertare il significato preistorico delle statuette. Ma poteva indurre a un momento di pausa e di riflessione fra uno scavo e l’altro, mettendo in dubbio l’ipotesi, formulata da studiosi della seconda metà dell’Ottocento la cui formazione era avvenuta nel campo dell’archeologia classica, che la scoperta di statuette dimostri necessariamente il culto di una divinità femminile.
Ucko fa notare che una spiegazione univoca di tutte le statuette antropomorfiche provenienti da una medesima area o da un unico sito maschererebbe i diversi usi cui potevano essere destinate. Il tipo di materiale con cui sono fatte, i tratti umani o animali, maschili o femminili, con o senza caratteristiche sessuali — tutto ciò dev’essere preso in considerazione; ed è importante anche il contesto in cui sono state scoperte. Una statuetta in una tomba poteva avere un significato sociale molto diverso da una statuetta trovata fra i detriti di un nucleo familiare o all’esterno di un edificio. Il quadro che sembra emergere dagli studi recenti sulla preistoria è quello di diverse forme di culto localizzate, anziché quello della sostituzione di un sistema religioso maschile ad uno femminile.
Colin Renfrew ha dato l’annunzio di una nuova archeologia sociale nella sua lezione inaugurale alla Southampton University, nel 1973. Fa piacere sentir dire che «l’archeologia non nutre più alcun disprezzo per gli annali brevi e semplici della gente povera». Il quadro ch’egli dà degli archeologi, intenti a zappettare alla ricerca di chicchi carbonizzati e che non scartano «i rifiuti del povero» è in armonia con l’impostazione dell’antropologia e della storia sociale moderna. Sarebbe davvero una disgrazia se le donne venissero di nuovo dimenticate tra questi «detriti poco impressionanti» e se le intuizioni e acquisizioni dell’antropologia femminista venissero ignorate. Per la verità, devo essere sincera e confessare che ciò che mi ha allettato inducendomi a tornare alle origini è stata una visione molto più maliziosa che non quella di una sorta di “pulizia pasquale”. Mi è venuta l’idea di una nuova serie televisiva sul tipo di “Orizzonti della Scienza e della Tecnica”, ambientata in un deposito di rifiuti preistorico: qualcosa che stia a metà fra il Paradise Lost e L’origine della specie. Sto lì ad ascoltare mentre una chimera infuriata, metà leone metà serpente, discute con un esperto sulla datazione col radiocarbonio e un gruppo di dee madri disserta sul problema dell’appropriazione del plus-lavoro. Mentre la controversia cresce di tono, io me ne scappo via svignandomela, lungo i margini spogli per ritornare ai tempi moderni.
Traduzione di Donata Lodi
© The New Society