l’ uomo è il passato della donna
un’educazione che ha represso con punizioni e divieti o eliminando dal linguaggio e dalla vita stessa ogni espressione che poteva riferirsi alla sessualità, è presente in ognuna di noi, iniziata subito o con la pubertà. Ciò che si nega è la ricerca del piacere e della comunicazione attraverso il corpo. Infatti non solo è stato represso e con violenza ogni tentativo di conoscersi e di conoscere gli altri toccandosi, ma è stato quasi inesistente un autentico rapporto corpo a corpo con i genitori, portando così alcune di noi a non avere per nulla l’esperienza del piacere che si può raggiungere attraverso la masturbazione, a vivere nell’infanzia la sessualità come un’esperienza carica di sensi di colpa, vissuta di nascosto e, dopo le prime repressioni, da sole.
Di conseguenza tutte, non c’è di fatto una gran differenza fra chi si è masturbata e chi no, abbiamo dovuto imparare a non vivere il nostro corpo come una cosa intera, ma tutte dovevamo dimenticare i nostri desideri, far finta che le sensazioni che col nostro corpo provavamo non esistessero, perché gli adulti avevano già deciso cosa dovevamo diventare, e la possibilità di scoprire il piacere derivato dalla scoperta del nostro corpo e di goderne come cosa anche fine a se stessa avrebbe infranto i loro piani. Perché?
La nostra sessualità (queste grosso modo le cose che ci hanno dato ad intendere) ci sarebbe venuta in altro modo, non attraverso una nostra scoperta autonoma o di gioco con altri bambini; noi non dovevamo fare niente altro che aspettare, perché un uomo, l’uomo della nostra vita, ci avrebbe insegnato tutto e insieme avremmo fatto cose rese stupende dall’amore. Un’unione completa, anima e corpo, ci avrebbe fatto vivere l’esperienza del piacere più intensa che si possa immaginare, e soprattutto ci avrebbe pienamente realizzate come donne, ci avrebbe dato cioè quell’essere che come donne non abbiamo. E nel sottofondo più o meno chiara l’idea del figlio che avrebbe coronato la nostra realizzazione. Tutto questo anche se intorno a noi la pubblicità, i cartelloni dei films, i libri, le riviste; i discorsi degli uomini, i commenti che ci fanno per strada ci facevano capire con violenza che la donna è l’oggetto sessuale per eccellenza; di più: è lei stessa sesso. I nostri ricordi più lontani a proposito di sesso li abbiamo sempre vissuti con angoscia e senso di colpa; erano un qualcosa che non dovevamo dire perché rappresentavano una parte di noi che non volevamo accettare, o meglio che non volevano farci accettare.
«Da una parte mia madre non perdeva tempo a costruirmi a sua immagine e somiglianza, ad educarmi nella direzione marito-casa-figli; quindi il sesso finalizzato alla maternità. «Dall’altra parte gli uomini e tutto il mondo maschile mi costringevano ogni istante senza attimo di tregua a farmi entrare bene in testa che avevo soltanto un corpo, che servivo solo per quello scopo e che a loro interessavo solo per quello che rappresentavo di femminilità, di dolcezza, di pazienza.
«Adesso capisco con chiarezza come questi due modi di vedere la donna, anche se sembrano molto differenti perché uno molto più spirituale, moglie, e l’altro più volgare, puttana, combacino perché mirano entrambi a farmi accettare il mio ruolo di oggetto passivo.
«Comincio anche a capire che all’interno del mio ruolo che è stato senza alcuna ombra di dubbio quello di moglie abbia giocato molto bene il ruolo di puttana anche rimanendo con un uomo solo.
«Mi sono sempre considerata una merda, dentro di me era così radicata la convinzione di essere niente che pensavo che l’unica cosa che potevo dare, che avesse valore, era la fica. (Lo capisco ora dopo mesi di presa di coscienza). Di conseguenza tutti gli atteggiamenti che assumevo in presenza di uomini erano falsi, costruiti, modellati. «lo ho sempre pensato che il mio modo di essere a letto fosse l’unica cosa nella quale potevo esprimermi senza essere la perdente, cioè l’unico momento in cui anch’io potevo dare qualcosa, In cui potermi sentire utile a qualcuno, soprattutto lo capisco adesso, perché per fare l’amore bisogna essere in due». «Poi mi sono resa conto che proprio a letto, forse, vivevo la mistificazione più grossa, nel senso che la sessualità la vivevo come una cosa bella, intoccabile, l’unica cosa che sapevo fare. Per esempio, quando litigavo col mio uomo per un qualsiasi motivo reale che sentivo (perché c’erano tante cose che non andavano nel nostro rapporto) per fare la pace assumevo un altro modo di essere, anche perché sapevo che non sarei riuscita a farmi capire in nessun’altra maniera, mi mettevo in un’altra sfera, dimenticavo una parte di me, mi dividevo, passavo sopra a tutto. E avevo bisogno di farlo, se no cosa ci stavo a fare al mondo? Cercavo di giustificare la mia vita, di dargli un significato. Come potevo essere accettata da lui così bravo così intelligente così compagno se non mi mettevo nella dimensione che lui anche voleva perché così è tutto più facile, meno impegnativo, crea meno problemi, segue il corso naturale. Tutto questo mio modo di essere falsato era l’unica arma che avevo per farlo stare con me. In poche parole mi vendevo, ero una puttana e non vedo quale differenza sostanziale ci sia tra l’essere moglie come lo sono stata io e essere una puttana». «Quando non si ha una benché minima immagine di se stesse, che rapporto si può avere con gli altri? Quando in un rapporto ci si sente come se l’altro ci facesse l’elemosina, si può chiamare rapporto?». «Adesso e via via che vado sempre più avanti so che anch’io valgo qualcosa e che anche nel rapporto con gli uomini ho da metterci e di molto importante. Ho capito che il mio mondo privato, quel mondo a cui mi hanno relegato per farmi diventare donna, non devo rinnegarlo, disprezzarlo come molte donne fanno (e lo possono fare nella misura in cui negano se stesse, mettono al primo posto nell’ordine di valori quelli maschili). Ma devo prenderne atto sino in fondo, assumerlo e di lì partire per buttarlo giù insieme alle altre donne».
«lo invece questa contraddizione fra un’educazione fatta di rinunce alla nostra sessualità e una società maschile che ci considera degli oggetti sessuali, delle puttane, l’ho ‘ vissuta attraverso l’esperienza diretta della violenza. Ero appena ragazzina e con gli stessi gesti che chiamano gesti d’amore sono stata usata come uno straccetto, si può dire violentata perché è stato un vero shock per me, da un uomo maturo, che mi avevano insegnato a rispettare e stimare. Tuttavia era così radicato in me l’ideale del “grande amore” che, sotto la mia rabbia e la mia rivolta, non ero riuscita a non crederci più del tutto; forse perché, me ne rendo conto adesso, non avevo allora la possibilità di costruirmi una diversa immagine di me, un’altra prospettiva di rapporti».
«Ma nella mentalità che ci circonda anche la violenza dell’uomo sulla donna trova una sua spiegazione logica, una sua giustificazione, che è senz’altro riuscita a rafforzarci nel nostro ruolo di donne: mogli stimate e insieme oggetti sessuali, mogli-puttane per l’uomo. Ci dicevano che esistono uomini e uomini e sta a noi avere la fortuna di trovare quello giusto; e non solo, in un certo senso sta a noi non tentare gli uomini (la ‘responsabilità, lo sappiamo, è pur sempre della donna) perché in fin dei conti gli uomini sono un po’ tutti uguali, hanno bisogno di sfogarsi, e anche il migliore, di fronte . a una donna che mostra di starci, ha il diritto di non resistere. Quindi occorre non cedere fino a quando non si trova l’uomo giusto». Anche se tutte noi abbiamo prima o poi rifiutato, in opposizione ai genitori, il discorso della verginità da conservare per l’uomo che ci sposerà, non per questo la nostra vita sessuale si è liberata, è diventata nostra e non per questo si è cancellato quel rapporto di subordinazione all’uomo così evidente nella vita delle nostre madri. Abbiamo per questo cercato di tirare fuori in presa di coscienza che cosa realmente proviamo nel fare all’amore, come lo viviamo, quanto vi partecipiamo. «E’ incredibile, ma succede a un gran numero di donne, come le esperienze sessuali precedenti al coito vengano considerate esperienze parziali, incomplete, un po’ sporche.
Dovevamo solo aspettare perché credevamo che un uomo
l’uomo della nostra vita ci avrebbe insegnato tutto
I miei ricordi dei 15-16 anni sono carezze, baci, timidi approcci col corpo dell’uomo che io vivevo senza nessuna finalizzazione, mi davano emozioni intense che non avevano come epicentro la zona genitale; ci si stringeva per ore e ore, erano certo le mani di un uomo che svelavano a me stessa il mio corpo, ma senza affanno e urgenza, senza l’ansia di arrivare. Il primo orgasmo lo ebbi proprio in questa atmosfera; non capivo bene cosa mi stava succedendo, era venuto spontaneamente questo battito convulso della mia vagina, non cercato, non provocato; ma era un fatto grosso, importante che si era insinuato definitivamente nei rapporti fra me e l’uomo. Da quel giorno sapevo che quella cosa esisteva, che era l’approdo del nostro stare insieme. Le carezze, i baci continuavano a esserci, ma non nella stessa maniera; venivano concentrati e prolungati in certe zone (il seno e là clitoride), servivano a sollecitare quella cosa nascosta dentro il mio sesso per farla esplodere. Scoperto il mio orgasmo, scoprii anche quello dell’uomo, un sesso che si gonfiava sotto le mie carezze, da quel giorno in poi concentrate su di lui. Continuava ad essere un gioco, in cui si erano però introdotte delle regole, in cui contavano le volte che si veniva».
«Contemporaneamente si ingigantiva dentro di me il mito del coito; mi veniva descritto come un tipo di piacere assolutamente non commensurabile a quello che provavo con la «masturbazione». Così io lo immaginavo come una cosa pulita, in cui il mio corpo non avrebbe avuto più bisogno di carezze e di baci bagnati; lì il piacere mi sarebbe venuto dall’uomo in maniera diretta, il mio corpo si sarebbe annullato: era l’estasi, il mito rivissuto dell’androgino. Verso i 18 anni lo desideravo profondamente e avevo un po’ di disprezzo per quell’uomo che non aveva il coraggio di “farmi sua”, che ricorreva, per farmi godere, a carezze un po’ sporche e appiccicose, quando gli sarebbe bastato un gesto preciso, di vera virilità». «Mi portavo dietro la mia verginità come una vergogna, come il sintomo di una femminilità acerba, ma anche, me ne rendo conto adesso, come un regalo che avrei fatto ad un uomo che ne sarebbe stato degno. E un giorno un altro uomo mi ” iniziò “. Credo che il mio primo coito sia stata una cosa da manuale: violenza, indifferenza, dolore; c’era finalmente un uomo sopra di me, sentivo la pesantezza delle sue spalle, le mani che mi stringevano in maniera affannosa, i denti che premevano sulle mie spalle, ma io non c’ero, ero un manichino;
non c’erano occhi che mi guardavano, ma un respiro sempre più affannoso nelle mie orecchie; non c’era l’estasi, ma una completa presenza a me stessa, un dolore acuto alla fica, una cosa che si faceva su di me usando il mio corpo, senza che io c’entrassi niente. Per un anno intero ho vissuto questo mito (cercandolo in maniera morbosa, come la prova del desiderio che l’uomo aveva di me) dolorosamente con un senso di colpa per non riuscire a “entrare” in quella dimensione, pensando che la cosa sporca, la masturbazione, avesse come sviluppato solo la sessualità infantile in me, atrofizzando la mia fica, rendendola impreparata a ricevere il cazzo e a sapere godere di questa penetrazione».
Questa l’esperienza di una donna. Altre donne hanno vissuto le loro esperienze prima del coito in maniera più tormentata: molte di noi hanno dovuto fare i conti con un sistema di valori più «arretrati» (moralismo, senso del peccato, paura del giudizio degli altri); molte di noi sono state rifiutate o hanno temuto di esserlo perché non erano più vergini. «Sono stata sverginata pochi giorni prima di subire un aborto. Ero rimasta incinta vergine: tutta la mia religiosità, l’angusto moralismo che stritolavano la mia vita mi crollavano addosso. Avrei preferito morire piuttosto di dover dire alla mia famiglia quello che mi era successo. Dopo questa bella iniziazione i nostri rapporti sessuali continuarono per diverso tempo con tutta la violenza, la tristezza e la solitudine che è possibile immaginare fra due persone. Prima non mi ero mai masturbata e non conoscevo l’esistenza dell’orgasmo, per cui subivo con un certo fatalismo rinunciatario la delusione di scoprire che fare l’amore fosse quella povera e triste cosa. Il ragazzo che ho avuto dopo non aveva mai fatto l’amore ed era ancora più represso ed inibito di me. Comunque io uscivo da un periodo nero della mia vita, pieno di dolore, di sensi di colpa e di peccato, di repressione e di rifiuto da parte degli altri, avevo una gran voglia di vivere, di scrollarmi di dosso tutti i tabù che mi avevano soffocata fino allora: questo ragazzo mi piaceva molto e ricordo i miei primi rapporti sessuali con lui come una cosa molto dolce e desiderabile, anche se — a causa della sua e della mia ignoranza e del suo «puritanesimo» — questi erano limitati al coito nella maniera più assoluta.
Però, il fatto che io non fossi più vergine scatenò ben presto — man mano che il nostro rapporto diventava più «serio» — un mucchio di problemi:
stavamo molto bene insieme, ma lui non poteva pensare a me come ad una moglie visto che ormai non avrei potuto più offrirgli quello che lui giudicava un pegno indispensabile. Un’altra esperienza. Questo nuovo uomo — mi accorsi ben presto — viveva il suo rapporto con il sesso in un modo molto poco gioioso e spontaneo. Forse mi sbaglio, ma è come se fuori dagli schemi del ragazzo un po’ «piegone» che passa la sua vita a collezionare donne come se fossero trofei di caccia, il suo rapporto con il sesso (apparentemente vincente e «felice») si fosse spezzato nel passare dal vecchio tipo di rapporto a carte coperte, dove niente della sua vita era messo in discussione, dove insomma la donna non aveva diritto di entrare, ad un rapporto diverso, come noi avevamo, di «compagnanza» profonda e dolorosamente sincera. Mi sembrava di veder affiorare sempre più la vecchia divisione maschile fra la donna puttana-corpo e la donna moglie e madre-cervello e anima. Man mano che io scoprivo cose nuove (con il femminismo) e cercavo di criticare un certo modo di stare insieme, man mano che cadevano gli schemi, in quell’uomo venivano fuori le paure ancestrali che loro hanno di noi donne, i tabù, la schizofrenia fra cervello e corpo, fra tenerezza e desiderio sessuale».
Comunque queste esperienze corrispondono sempre a degli schemi «maschili» esterni a noi donne, che ci vogliono, a seconda delle situazioni culturali, donna sessualmente emancipata (la cui vera sessualità le può venire comunque sempre e soltanto dal sesso dell’uomo), donna illibata che si offre intatta al «sacrificio» (pensiamo ad esempio ai rituali della prima notte di nozze nel sud — e non solo —}. Mai siamo considerate persone che hanno coscienza della loro sessualità, che hanno dei bisogni e degli autonomi modi di essere ‘ e di rapportarsi all’uomo. Veniamo di volta in volta incatenate a un ruolo: gli uomini possono avere disprezzo per te (come quando ti toccano il sedere per la strada o ti pagano per fare l’amore) oppure un estremo rispetto (certe cose con te non posso farle, ho troppa stima), ma in entrambi i casi rivelano un atteggiamento di profonda estraneità per te che sei la moglie o la puttana che loro si costruiscono, ma non vieni mai assunta per intero come un individuo con cui loro devono fare i conti per quello che è e non per quello che loro credono sia».
Quando ci si sente come se l’altro ci facesse l’elemosina si può chiamare questo un rapporto?
«Le mie esperienze sessuali all’inizio coincidono con le aspettative fattemi. Non a caso è il periodo della tenerezza, del corteggiamento, delle lunghe discussioni. Poi con il coito arrivano le prime delusioni. Non che abbia vissuto cose violente e traumatiche, solo una cocente delusione, perché quel tanto sperato orgasmo paradisiaco e magari simultaneo, non solo non c’era stato, ma il piacere era molto inferiore a quello che provavo con lo sfregamento della clitoride; eppure lui mi aveva assicurato che con il coito avrei provato un piacere molto più intenso e bello che’ con la masturbazione (anche se lui non aveva la clitoride e neppure mai avuto rapporti «completi»). Incominciano così le lunghe serie di giustificazioni che vanno dalla frigidità alla paura di rimanere incinta ecc. Ma superate le cause il problema rimane, direi anzi il suo problema, perché in effetti non gli piaceva poi molto masturbarmi e non perché non volesse farmi provare piacere, ma perché era convinto e lo è tutt’ora, che quello è un palliativo, che la sessualità non si può esternare completamente attraverso una pratica masturbatoria, che è anche un termine bruttino e un po’ volgarotto, che niente ha da spartire con l’atto sessuale vero che è il coito. Questa mentalità, tipica di molti uomini, si è accentuata nel matrimonio. Pur essendo la nostra una coppia giovane e con idee «progressiste» in campo sessuale, abbiamo assunto ruoli veramente tradizionali. Naturalmente è stato lui a manovrare la situazione, passando da rapporti «passionali» a rapporti affettuosi, non facendo più certe cose che considerava «sporche», ma avendo con me atteggiamenti affettuosi, cioè abitudinari. Rapporti brevi, condizionati anche dalla stanchezza del lavoro e dalla routine che ci offre questa società, senza giochi amorosi o tenerezze, ma concentrati sul coito, non certo violento, ma molto educato e discreto e sulla masturbazione della mia clitoride fatta più che altro per scusarsi della sua sessualità» . Tutto questo pur essendo in contraddizione con un tipo di sessualità chiamata «violenta», dimostra tuttavia che a manovrare il rapporto sessuale in tutte le sue manifestazioni è sempre l’uomo e loo decide a seconda della sua educazione, degli schemi culturali che si è fatto: moglie pura e intoccabile, madre dei suoi figli, oppure amante tipo Cosmopolitan. Il punto sta quasi certamente nel fatto che noi non abbiamo mai avuto una nostra sessualità, ma semplicemente «partecipiamo» a quella degli uomini, di uno o di cento non ha importanza.
«lo ho dovuto rendermi conto di non avere fino ad ora espresso la mia sessualità, ma di avere solo partecipato a quella del mio uomo. L’ignoranza mia sul mio corpo aveva fatto accettare un rapporto sessuale guidato solo dal ritmo dell’uomo, che culminava e si concludeva con il raggiungimento del suo orgasmo che raggiungeva sempre attraverso il coito, lo molto spesso credevo veramente di provare piacere perché non mancava mai una certa tenerezza e perché facevo un grosso-sforzo per coinvolgermi emotivamente nel rapporto: ma era una partecipazione psicologica ed emotiva all’orgasmo di un’altro, io non lo raggiungevo mai. A volte tuttavia non riuscivo a starci bene, lo dicevo e non si continuava; ma io mi sentivo in colpa per questo, oppure non lo dicevo e vivevo fino alla fine con un senso di fastidio il rapporto, oppressa dal peso del corpo sul mio, dai gesti che mi attanagliavano e dal cazzo che mi faceva male entrando nella mia vagina asciutta e non dilatata. Alla fine non riuscivo certo a fingere di aver goduto, il mio uomo si rattristava e io mi sentivo mezza incazzata e mezza in colpa (è il colmo) per non averglielo detto. Quando ho cominciato a non volere che mi infilasse dentro il cazzo, perlomeno quando mi dava fastidio o mi faceva male, e gli ho chiesto di accarezzarmi la clitoride e ho attivamente cercato forme di contatto e sfregamento, quando ho cercato di guidare anche io il ritmo rallentandolo e raddolcendolo, quando ho preteso di continuare e di andare oltre al momento del suo orgasmo per raggiungere anche il mio, per continuare perché mi piaceva, allora ho sentito che il mito del coito come momento centrale di un vero rapporto completo nascondeva la violenza dell’uomo sulla donna e l’oppressione della donna che non può esprimere e vivere la sua sessualità se non maschera e non contrasta questa violenza. Mi sono resa conto che avevo a lungo creduto al discorso dell’amore e che proprio la speranza che il rapporto da me vissuto ,su cui poggia e riposa la mia vita privata, sarebbe stato diverso, esente dalla violenza, dalle contraddizioni e dalla logica del potere che caratterizza la società; non mi faceva vedere l’oppressione che vivevo. Il desiderio di vivere la mia sessualità a letto ha infatti aperto e reso evidenti tantissimi problemi, tutta la mia vita ne è stata coinvolta. Mi si è liberata una grande energia, una voglia di vivere e di rapportarmi più direttamente con le cose e le persone, una voglia di possedere pienamente ogni mio desiderio. Ho sentito che, riuscendo a superare il dispendio enorme di energie incanalate per far capire il desiderio di uscire dal ruolo assegnato trovavo dentro di me la possibilità di rivalutare l’amore, la sessualità, i rapporti fra le persone così ipocriti, impoveriti e sempre condizionati dalla logica del potere e determinati da falsi modelli e ruoli rigidi e inadeguati». Non ci sembra di avere cavato fuori da questi discorsi comuni un modello di «comportamento sessuale femminista»; questo può nascere solo nella globalità della nostra espansione come individui; il tratto comune a tutte noi, non immediato, ma faticosamente riscoperto insieme, è questo desiderio di attiva partecipazione, di riscoprire per esempio che a tutte noi pesa lo stacco tra uno stare insieme tenero in cui ci si guarda, si parla, si deve fare i conti con la persona che ti sta di fronte, e poi il «dover essere» del far l’amore, un meccanismo che tu, come donna, non controlli più, dove il ritmo non è più anche tuo, ma diventa una spirale in cui la donna parzialmente si annulla, viene risucchiata, rimane (anche fisicamente) schiacciata. I baci che a noi piacciono (non solo una lingua che penetra nella tua bocca, ma labbra che premono, che si muovono, giocano), le carezze che si attardano su tutto il corpo, che lo esplorano, sono a volte vissute dall’uomo con fastidio, come un’oscura minaccia verso un primato, quello del coito, che li mette in un rapporto di potere verso di noi. Eppure ci pare di capire che questa è una sessualità più adeguata a noi, più rispondente alle nostre esigenze. La presa di coscienza sulla sessualità ha fatto registrare un salto di qualità, credo, nel nostro collettivo. Per la prima volta non ci siamo limitate a «registrare» le esperienze di ciascuna di noi, come era avvenuto per altri argomenti (cosa del resto tutt’altro che trascurabile per una verifica di un comune stato di oppressione). Siamo andate oltre; hanno cominciato a prendere forma e consistenza i nostri bisogni; il desiderio di vivere una sessualità in cui questi possano trovare posto si è manifestato apertamente.
Questo discorso ha conosciuto delle tappe: i valori e i limiti della masturbazione, l’orgasmo femminile, i modi del suo raggiungimento, fino a scoprire che le cose che più ci piacciono, che più profondamente son legate alla nostra sessualità sono spesso escluse dal rapporto sessuale che abbiamo con l’uomo o che vengono spesso relegate al ruolo di «preparativi», senza assumere un valore positivo «in sé».
Mai siamo considerate persone che hanno coscienza della loro sessualità con bisogni e modi di essere
Capire che il nostro corpo nella sua interezza (un corpo vivo quindi, animato da ragione, desideri, trasporti, consapevolezza, linguaggio) può essere fonte di piacere; che nella sua interezza deve essere coinvolto nel rapporto con l’uomo significa porre una grossa domanda, una rivendicazione esplosiva. Stare insieme senza ansia, uscire dalla dimensione strettamente genitale, lasciare veramente emergere le nostre pulsioni, viverle con consapevolezza, non essere estraniate nei rapporti sessuali, vivere quella che abbiamo definito una «sessualità diffusa», che ha tempi e forme di espressione diversi da quelli del semplice coito, che significa gioco ed espansione della nostra autonomia di persone, vuol dire cominciare a rovesciare (a partire dal letto 0 dal prato) una logica che è la logica dominante, «del sistema». Voglio dire che man mano che un nostro discorso sulla sessualità si sviluppa, viene sperimentato, tenta di realizzarsi e di trovare un riscontro nei rapporti concreti che abbiamo con gli uomini, urta violentemente con il modo in cui è organizzata la società, in cui la gente entra in rapporto tra di loro. Come si fa a spezzare il modo produttivistico in cui è inteso l’amore (uno due tre coiti o «venute» comunque). Come si fa ad abbandonarsi ai tempi che il piacere richiede per espandersi, quando la nostra vita di ogni giorno è scandita da tempi strettissimi, è tutta una serie di cartellini da timbrare? Come si fa ad entrare in rapporto vero con il partner, ad accettarlo come persona, ad avere piena considerazione della sua coscienza senza ritenerla superiore alla nostra, e, d’altra parte a metterci noi stesse in ballo interamente in questo rapporto, senza riserve mentali, senza remore, e senza subirlo, quando la generalità dei rapporti sociali è mercificata, sono rapporti di potere, sono rapporti di possesso? Quando sono improntati alla necessità (la famiglia, il lavoro) e non alla libertà? Eppure la nostra (di noi donne) domanda rispetto alla sessualità ha queste caratteristiche. Semplificando: il tipo di sessualità che viene fuori dai nostri bisogni di donne( non da astratte teorizzazioni su nuovi modelli di rapporti: interpersonali, ma per la prima volta dalla materialità della nostra condizione nel senso che altrimenti la nostra vita sessuale è profondamente insoddisfacente, i nostri orgasmi, quando ci sono, tirati per i capelli) è rivoluzionaria proprio perché urta violentemente, nega, ha una logica profondamente diversa da quella del sistema. Solo noi donne possiamo concretamente portarla avanti. E nella misura in cui prefigura rapporti umani diversi, può avere un forte valore di stimolo, di incentivo, di sollecitazione alla volontà di cambiare la società, può diventare un altro fronte, un allargamento della sfera politica di cui noi come donne femministe ci facciamo portatrici. Se è vero, come crediamo, che la gente vuole cambiare la qualità della propria vita a tutti i livelli, sia quella cosiddetta «privata», che quella sociale pubblica, ogni discorso che va al di là di una visione minimalistica della rivoluzione, può trovare un riscontro, può trasformarsi in un motivo in più autonomi per cambiare le cose.