compagno padrone

aprile 1975

Quando diciamo «compagno padrone» non vogliamo certamente porre sullo stesso piano — da un punto di vista politico — il padrone capitalista e l’uomo di sinistra che si comporta da padrone con la moglie. Il primo è consapevole del suo potere e lo vuole; il secondo ne è inconsapevole, essendovi condizionato da sempre. Ci rivolgiamo al «compagno» perché pensiamo che la condizione della donna sia una discriminante decisiva nell’evoluzione al socialismo.

La vittoria del referendum ha dimostrato, è vero, che essere politicamente orientati significa anche possedere una generale maturità civile. Ma la paura di come si sarebbe comportata la classe operaia, prima del referendum, c’era stata, ed era dovuta alla consapevolezza delle insufficienze della sinistra su tutto quello che riguarda i problemi della famiglia e del «privato». Come scrive la sociologa Lucia Grasso nel libro di cui parliamo qui, il problema della liberazione della donna non sta soltanto nel fatto che la donna oggi deve rimanere a casa a guardare i bambini .anche quando vive con un «compagno», né nell’insufficiente accesso al lavoro, normalmente non qualificato e mal remunerato: sta soprattutto nel fatto che mentre vogliamo trasformare il sistema capitalistico e creare una società socialista, non mettiamo neppure in discussione il perno del sistema capitalistico, che è appunto la famiglia.

Sappiamo che il processo attraverso cui noi veniamo socializzati per il nostro futuro inserimento nella società è tipicamente borghese e che il luogo dove avviene questo processo è l’istituto familiare.’ «Fino dalla suddivisione della società in proprietari dei mezzi di produzione e proprietari della merce forza lavoro — ha scritto Wilhelm Reich — ogni ordinamento sociale è stato determinato dai primi, indipendentemente dalla volontà dei secondi, anzi nella maggior parte dei casi contro la loro volontà. Questo ordinamento però forma le strutture della psiche in tutti i membri della società e si riproduce negli uomini; e il suo principale luogo di riproduzione è la famiglia patriarcale, che crea nei figli il terreno caratteriale adatto ad assorbire le successive influenze dell’ordine autoritario». La borghesia ha scisso sempre più nettamente vita pubblica da vita privata. L’ideologia borghese classica divideva l’individuo in due: il lato professionale e politico, che doveva funzionare senza far trapelare alcuna debolezza umana, e quello umano, fatto di emotività, aggressività, sessualità, il cui spazio circoscritto di realizzazione è la famiglia. Questa famiglia-rifugio dei bisogni «umani» dell’individuo è, sempre più necessaria via via che si restringe il giro di vite della società capitalistica, con le sue costrizioni, alienazioni, condizionamenti. Spesso la famiglia è vista come difesa, come luogo rassicurante, dove si celebrano i riti della affermazione di sé frustrata dalla società. Dall’inchiesta condotta da Lucia Grasso nel libro «Compagno padrone», il compagno appare normalmente inconsapevole delle condizioni di vita della propria moglie e comunque tende a rinviare la possibilità di risolvere i problemi della famiglia a dopo che sarà avvenuto il «totale cambiamento dei rapporti di produzione», cioè a dopo la creazione di una società socialista.

La famiglia continua a non essere messa in discussione perché non si mette in discussione il ruolo tradizionalmente attribuito alla donna di essere solo moglie, madre e delegata speciale alla sfera dell’emotività e degli affetti.

I militanti intervistati da Lucia Grasso sono in buona parte persuasi che anche la donna vive una condizione alienante («non sopporterei di fare la vita di mia moglie neanche un giorno»: infatti, a scanso di guai, non ci si provano nemmeno), ma a quella alienazione contrappongono subito la propria e affermano che tutto si risolverà con la liberazione del proletariato. Ma si sente, appena mascherata, che esiste l’idea della discriminazione. E’ già discriminante — come scrive la Grasso — la semplice distribuzione dei ruoli, che differenzia nettamente quello maschile da quello femminile, dal momento che, fra i due ruoli, quello maschile è notoriamente privilegiato e detentore di poteri (carismatico, decisionale, economico, sessuale, tanto per citarne alcuni). E allora alla base di questa discriminazione occulta può stare l’ancora più occulta convinzione di una superiorità del sesso maschile o, se vogliamo, di un’inferiorità di quello femminile. Naturalmente, non si parla in termini così netti di superiorità e inferiorità.

Si parla, accanto alla divisione dei ruoli, di diverso livello dei compiti. Cioè la gerarchia si fonda sulla funzione, secondo una valutazione tipicamente borghese.

Affiora dalle interviste il concetto della inadeguatezza della donna, o della sua «fragilità» emotiva, e perfino intellettuale. Non che la moglie sia meno intelligente, per carità. Semplicemente ha una intelligenza diversa.

O magari anche uguale, e forse anche superiore, soltanto non è capace di esprimerla. All’uomo resta attribuita la logica, alla donna l’irrazionale. «Credimi che mi trovo in difficoltà quando torno a casa dopo una riunione politica, dopo ore di esercizio di logica, a dover affrontare con mia moglie un discorso sul piano dell’illogico, dell’emotivo, dell’istintivo», dice un compagno intervistato dalla Grasso. La moglie del militante deve quindi accontentarsi di vivere «di luce riflessa» ascoltando i racconti che lui fa della sua vita politica e di lavoro e considerando magari come ideale di uscire dalla casa e lavorare nella stessa fabbrica del marito. Da parte degli extraparlamentari in particolare — dice la Grasso — esiste un tentativo, a scopo esclusivamente utilitaristico, di sganciare la donna dal ruolo di moglie e madre, intendendo per moglie la compagna fedele legata da un rapporto monogamico; l’extraparlamentare teorizza la necessità di rapporti liberi, non vincolati ad un unico partner e la mette in pratica, chiedendo alla moglie di [ fare altrettanto, solo perché tale libertà rappresenta per lui un «piacevole riammodernamento». Che questa operazione apparentemente «aperta» e «libertaria» sia in effetti un’operazione di potere, è evidente nei casi in cui la donna si rifiuta di fare l’emancipata, non se la sente, non vuole accettare quello che le viene chiesto: di fronte ad un rifiuto la donna che fino ad un momento prima era considerata «compagna», viene tacciata di bigottismo, moralismo, mentalità borghese, arretratezza. La libertà sessuale della donna viene quindi intesa come libertà per l’uomo di andare a letto con chi vuole, e l’uomo non si rende conto, anche quando si oppone allo sfruttamento e all’oppressione, di essere il più diretto oppressore della donna.

Cambiare la famiglia significa quindi rovesciare i rapporti esistenti tra uomo e donna, rifiutare i ruoli prefissati, rompere quelle migliaia di cellule contrabbandate come oasi di sicurezza e di felicità. Oasi di felicità non lo sono certamente, come ci insegnano gli psichiatri; ma sicuramente sono una fabbrica di individui condizionati e rassegnati che più difficilmente manterranno una volontà di lotta contro il sistema che li opprime. Ora, se la carica rivoluzionaria della liberazione della donna sfugge ai compagni pur impegnati, la borghesia, che di questa spinta rivoluzionaria subirebbe le maggiori conseguenze, sembra invece rendersene conto molto più chiaramente. Mi è capitato, parlando con un amico, intellettuale «illuminato» secondo le migliori tradizioni del liberalismo europeo, di toccare con mano il limite massimo che la borghesia concede al femminismo.

Questo mio amico, e non è certo l’unico tra i borghesi ‘ illuminati ‘, lamentava che ila spinta alle conquiste sociali fosse venuta ‘troppo presto’ in Italia, quando ancora avevamo bisogno di assimilare, anzi di assaporare, conquiste di costume e di benessere già acquisite, ad esempio, nei paesi del nordeuropa; e tra queste conquiste egli citava in particolare l’evoluzione della donna. Detto per inciso, è tipico di questi borghesi illuminati vedere nel sindacato la causa di ‘tutte, le crisi, con il conseguente arresto — secondo loro — delle conquiste di civiltà. Leggi più evolute, parità di salario e di status giuridico per le donne e loro diritto all’educazione vanno bene (quale marito infatti desidera oggi avere una moglie illetterata?): purché, naturalmente, tutto resti immutato. Non c’è bisogno che le donne lavorino, dicono, perché il lavoro non è necessariamente liberatorio, anzi spesso è un fattore di alienazione. Quando gli si fa notare che il lavoro è tuttavia il primo modo per uscire dall’isolamento, e che la coscienza femminile è sempre stata storicamente più alta quando la donna ha partecipato alla vita sociale, la risposta è: ma se io e mia moglie andiamo tutti e due a lavorare, e se teniamo conto della impossibilità di controllare la socializzazione sul posto di lavoro (incontri, esperienze, etc.) la famiglia finisce. E con la famiglia si disgrega il sistema. E così, si fa rapidamente marcia indietro sulle conquiste del femminismo. Credo si possa dire che questo è lo spartiacque decisivo tra femminismo e ideologia borghese. Il borghese, che ha l’aria di capire meglio del compagno l’enorme significato dell’affermazione femminista «il personale è politico», sarà sempre contrario alla liberazione della donna perché questa conduce ad una radicale trasformazione in senso socialista della società.
a cura di Vanna Vannuccini

Se aiuto, mi sento fuori posto
Marito: (37 anni, operaio metalmeccanico, viene dal Veneto, militante in un gruppo autonomo sia dal PCI sia dal sindacato, un figlio di 7 anni). Quando capita che do una mano in casa io faccio con un certo malessere, e a volte è anche mia moglie che mi dice: «va bene, stai là, ci penso io». Mi sento fuori posto, temerei il ridicolo se fossi osservato. A volte anche a livello di scherzo capita che mia moglie parlando con altri dica: «ah, sai, si è messo a lavare i piatti» e io sorrido e faccio il superficiale, però ne risento. So che se riuscissimo a instaurare un rapporto paritario tra me e mia moglie sarebbe più difficile accettarlo da parte mia che non da parte di mia moglie; insomma, c’è ancora l’abitudine che condiziona. E’ l’influenza dell’ambiente perché in certe situazioni tipo campeggio, montagna, siamo in parità assoluta perché non c’è più il sorrisino dell’amico che mi condiziona.

Della casa non vuol sentir parlare
Moglie: (32 anni, impiegata, 3a commerciale, viene dal medesimo paese del marito, un figlio di 7 anni). Mio marito dei problemi di casa non vuole sentire parlare. Lui torna a casa, si siede e si mette a leggere il giornale senza dire una sola parola e si lamenta che il pranzo non è ancora pronto perché io, magari, ho fatto il bagno e mi sono seduta un po’ a riposare. Oggi poteva andare a prendere suo figlio a scuola, e invece è andato al cinema, lasciando che andasse sua madre che soffre di cuore e che così si è fatta tre piani a piedi.

L’aiuterei ma lei non vuole
Marito: (33 anni, operaio grafico, militante extraparlamentare, viene da un paese vicino Bergamo, diploma di perito grafico).

In casa l’aiuto poco, ma non per mancanza di disponibilità da parte mia, quanto per il fatto che lei in casa fa tutto e io ho difficoltà a inserirmi in questo lavoro. Lei il lavoro di casa tende ad avocarlo a se completamente, è un fatto di proprietà: dovendo tenere la casa e non avendo altro, è l’unico ruolo che ha e se lo vuol tenere. Se capita poi che non ce la fa, le do una mano, ma è un aiuto secondario quello che mi permette di darle.

Soltanto se mi ammalo
Moglie: (32 anni, casalinga, 5a elementare, un figlio di 5 anni). La vita della casalinga per me è tremenda, forse perché non c’ero abituata, ma è una vita che svuota proprio, e poi anche per il bambino non va bene, perché sta sempre con me. In casa faccio tutto io, lui mi aiuta solo se mi ammalo, allora fa saltar fuori quell’oretta in cui fa le cose indispensabili: fa da mangiare, scopa per terra, etc. Ma non è che non lo faccia di solito perché gli dia fastidio, è che non ha il tempo materiale. Comunque non esigo che mi aiuti, non ho questo bisogno, mi piacerebbe solo che stesse più tempo in casa per parlarci un po’, perché il lavoro non è neanche tanto.

Dopo la figlia, niente politica
Marito: (28 anni, operaio metalmeccanico, militante, 3a commerciale, due anni di perito elettronico). Mia moglie alle riunioni politiche partecipava prima d avere la bambina, ora non partecipa più. Naturalmente se lei domani avesse una attività politica, e io la possibilità di tenere la bambina, non vedo la cosa impossibile, però sta il fatto che io ho una attività politica importante, e in futuro si dovrà vedere secondo gli impegni di tutti e due, chi dovrà sacrificarsi e chi no.

La aiuterei volentieri
Moglie: (28 anni, origine spagnola, non ha studiato, casalinga, una figlia di 18 mesi).

Se non avessi la bambina farei molto volentieri del lavoro politico, aiuterei mio marito in quello che fa. Ho cominciato a leggere i libri della Comune, di Dario Fo: mio marito voleva che leggessi Mao e Che Guevara, ma io volevo andare per gradi. Le donne che venivano alle riunioni in cui sono andata erano molto preparate, facevano molta attività politica, avevano molto studiato, tutte quante e io ascoltavo solo.