corsi 150 ore

con le donne, non sulle donne

a marzo comincia a Torino un corso monografico delle 150 ore, per iniziativa dell’Intercategoriale donne. Si sono iscritte più di 600 donne, lavoratrici, casalinghe, studentesse. Questa è una riflessione sui nodi politici di una scelta come questa.

marzo 1978

l’iniziativa di un corso monografico delle 150 ore sulla salute della donna è partita dall’Intercategoriale donne di Torino. Questa struttura raccoglie donne di vari settori dell’industria e del terziario ed è forse in Italia l’unico movimento riconosciuto all’interno del sindacato, dove le donne possono, in quanto donne lavoratrici, affrontare separatamente e in piena autonomia i problemi legati alla condizione della donna, sul posto di lavoro e fuori, con l’obiettivo di creare aggregazione tra le donne e di far assumere al sindacato la difesa di quei diritti e la conduzione di quelle lotte che intacchino la funzione di manodopera di riserva che la donna svolge. Quest’anno si è deciso di utilizzare un corso monografico delle 150 ore per cercare di affrontare con le donne interessate (occupate e disoccupate, casalinghe a tempo pieno, studentesse, ecc.) l’approfondimento di un tema specifico della condizione della donna e precisamente il problema della salute, in fabbrica, in casa, ecc., ponendosi tre obiettivi: offrire l’opportunità per una presa di coscienza della propria condizione; socializzare ciò che i collettivi femministi hanno elaborato in merito alla riappropriazione del corpo e al controllo effettivo sulla propria salute (a partire dalla sessualità); e fornire una conoscenza (anche tecnica) di tali problemi (utilizzando perciò una struttura quale la facoltà di medicina). Non mi dilungo sul programma e sui contenuti specifici del corso (che d’altronde potranno essere soggetti a variazioni e cambiamenti durante l’effettivo svolgimento) in quanto essi sono espressi chiaramente nella bozza pubblicata a fianco. Mi interessa invece approfondire alcuni problemi che sono usciti fuori durante le discussioni preparatorie (il corso partirà a marzo) e che possono servire di spunto per una discussione rispetto ai nodi politici che sono sottesi ad una scelta di questo tipo.
Bisogna prima di tutto osservare che il soggetto politico di un’esperienza di questo genere non è il «movimento» (intendo qui per movimento quell’insieme di collettivi che costituiscono da tempo aggregazioni stabili di donne e che avranno solo rapporti frammentari con questo corso) né l’Intercategoriale (che svolge una funzione di impostazione e di coordinamento), bensì quei gruppi di donne (non ancora formati) ai quali vengono offerti un metodo di lavoro e un materiale perché possano utilizzarli come meglio credono. Infatti, nel momento in cui si rifiuta un corso di puro apprendimento tecnico-culturale — che permetterebbe di determinare abbastanza precisamente i contenuti che si vogliono trasmettere — ma si propone alle donne di passare ‘attraverso i tre momenti: autocoscienza, socializzazione, apprendimento delle nozioni scientifiche «ufficiali», diventa impossibile controllare politicamente in tutti i suoi aspetti la direzione che il corso assumerà e predeterminare le scelte che le donne coinvolte faranno. Il problema del controllo politico di un corso di questo genere non può che esprimersi nella creazione di momenti di incontro e di confronto tra chi tale esperienza ha proposto o alla quale si trova a collaborare (l’Intercategoriale e i collettivi della città che verranno coinvolti ad esempio per i momenti decentrati nei consultori pubblici) e i gruppi di donne soggetti dell’esperienza.
In sintesi, noi non facciamo che riproporre alle donne il modo in cui noi siamo arrivate a prendere coscienza della nostra condizione subordinata, incominciando ad aggregarci per lottare contro di essa. È altrettanto evidente che è impossibile delegare al docente — compagno o no — la conduzione di un processo di questo genere, in quanto esso non può che essere vissuto in prima persona da tutte coloro che vi partecipano. Mi sembra che questo indirizzo sia sostanzialmente corretto se si vuole evitare il rischio di fare a nostra volta dell’interventismo «sulle» altre donne, di fronte alle quali noi finiremmo col porci come le «tecniche del femminismo» Il problema cruciale che i collettivi si trovano a dover affrontare (a meno che scelgano il separatismo totale), ad un certo punto della loro storia, è quello della socializzazione con altre donne del patrimonio che è stato accumulato e capita spesso di sperimentare una oscillazione tra due soluzioni opposte di questo nodo: il rinchiudersi del gruppo su se stesso — con il rifiuto del rapporto con l’ «esterno» — oppure il ritrovarsi a «trasmettere» con la presenza fisica le proprie esperienze (come spesso si verifica ad esempio nei consultori pubblici). Perché parlo di problema «cruciale»? Perché io credo che una socializzazione di ciò che abbiamo elaborato sia indispensabile e che nel momento stesso in cui noi cessiamo di allargare ad altre donne il nostro patrimonio (quando cioè smettiamo di lottare nel «pubblico») i nostri bisogni vengono immediatamente dimenticati ed addirittura viene rimossa la nostra esistenza in quanto movimento (direi che il caso dell’aborto è esemplare). Ma cosa vuol dire «socializzare”? Due cose, io credo:
1) creare collettivi di donne ovunque, moltiplicare i momenti di aggregazione e le occasioni di incontro;
2) utilizzare delle strutture attraverso le quali diffondere e far conoscere la nostra pratica.
Il primo è stato da sempre un obiettivo del movimento ed è chiaro a tutti che cosa voglia dire. Ma il secondo? Vuol forse dire strutturare il movimento, organizzarsi secondo schemi di tipo partitico o sindacale? Io penso proprio di no. Vuol dire, ancora una volta, dare battaglia perché si tenga conto di noi, perché i partiti, i sindacati, i maschi in generale, non possano impostare un progetto, realizzare un programma (che sia di breve, medio o lungo periodo), senza che in essi non siano inseriti i problemi inerenti alla condizione della donna.
Torniamo al corso delle 150 ore: esso prevede l’utilizzo di — e lo scontro con — tre tipi di strutture: il sindacato, l’università e la struttura sanitaria (ospedali e consultori pubblici). Il rapporto tra movimento (e quindi anche delle donne dell’Intercategoriale in quanto parte di esso) e questi tre momenti istituzionali fa nascere dei problemi, ma può aprire anche delle possibilità. Con il sindacato, ad esempio, si può avere una relazione puramente strumentale: è attraverso di esso che si passa per i contatti con l’università, per raggiungere le donne sul posto di lavoro, ecc. Ma noi potremmo fare del sindacato anche un referente per le lotte che i vari gruppi decidessero di mettere in piedi riguardo ad aspetti particolari della condizione in cui le donne coinvolte si trovano (ad esempio la nocività in una fabbrica, i ritmi di lavoro e così via). D’altra parte, il sindacato potrebbe non volersi assumere tali iniziative, oppure le donne potrebbero scegliere di condurre in prima persona le proprie battaglie individuando altri modi di organizzazione (che possono essere i gruppi stessi formatisi durante il corso). Con la facoltà di medicina il rapporto è più immediatamente conflittuale, visto che uno degli obiettivi del corso è proprio quello di mettere in discussione la scienza che viene proposta (per non dire imposta). Ed è conflittuale anche perché un corso delle 150 ore che rifiuti il meccanismo tradizionale dell’apprendimento ed i suoi contenuti tende anche a riproporre uno degli obiettivi per i quali questi corsi erano stati lanciati: arrivare cioè ad una ridefinizione del concetto di «cultura» inserendo degli elementi (come la comunicazione delle proprie esperienze o ad esempio) acquisizioni raggiunte dai collettivi che mettano in crisi il carattere «oggettivo», «autonomo» e «astratto» della scienza borghese. Non molto diverso è il tipo di rapporto che si può ipotizzare con le strutture sanitarie intervenendo oltretutto sul dibattito (almeno in forma di protesta) a proposito della riforma sanitaria in via di discussione alle Camere. Che obiettivi si possono raggiungere in sintesi attraverso questa esperienza? Far nascere prima di tutto, un processo di riappropriazione della propria vita, del diritto a vedere soddisfatti i propri bisogni e, in secondo luogo, iniziare ad esercitare quel controllo sulle istituzioni della cultura e della salute che sin dall’inizio ci siamo proposte: e questo non da parte di quelle donne che più o meno casualmente arrivano ad un collettivo ma da un numero molto più ampio, già aggregato e che si trova a vivere collettivamente per un certo periodo di tempo le stesse esperienze. Ma c’è anche la possibilità — per quei collettivi di quartiere che operano in un consultorio pubblico coinvolto nel corso — di riprendere il discorso della creazione di una medicina alternativa che spesso per tante ragioni non è stato approfondito: come c’è la possibilità di fare veramente del consultorio un, momento di aggregazione delle donne propagandando l’iniziativa nel quartiere, concretizzando finalmente l’aspirazione a fare di questa struttura non solo un servizio sanitario, ma un momento di crescita collettiva.
A questo punto direi che resta nell’aria un interrogativo, che è in definitiva quello fondamentale. Quante di noi si identificano in un progetto di questo genere? Quante lo sentono «esterno» alla loro pratica? La socializzazione . che abbiamo realizzato nel piccolo gruppo è veramente allargatile e dilatabile, oppure ogni tentativo di entrare in contatto con altre donne viene vissuto sempre e comunque come un’intrusione e una violenza? Questo corso sulla salute della donna ambirebbe essere, in positivo, una prima risposta a questo problema.