movimento per quale vita?

dopo la presentazione del progetto di legge del famigerato Movimento per la vita alcune donne giuriste hanno intrapreso un’analisi critica di questa aberrante proposta: questo è il testo integrale del loro documento.

marzo 1978

la parte centrale e più importante della proposta di legge del movimento per la vita, che ne rivela e chiarisce il significato e la finalità, è contenuta nelle norme formulate negli articoli dal 15 al 18.
L’art. 15 prevede un controllo capillare su tutte le donne in stato di gravidanza e sui loro propositi di portare a termine o di interrompere la maternità. Chi svolga professioni assistenziali o sanitarie e venga a conoscenza del proposito di una gestante di non voler dare il suo nome al nascituro «deve darne immediatamente notizia al tribunale per i minorenni». La previsione, quindi, non riguarda solo la ipotesi della donna che si rechi presso un’organizzazione sanitaria ed assistenziale e dichiari di non voler tenere il bambino, ma introduce il principio che, chiunque, venuto a conoscenza di un semplice proposito della donna (che non sarà quello indicato dall’articolo bensì piuttosto quello di abortire) possa effettuare a sua insaputa una segnalazione (con tutte le caratteristiche della delazione) che porterà quest’ultima a subire un procedimento di tipo prettamente inquisitorio condotto dall’autorità giudiziaria. È evidente come tale norma esponga la donna ad ogni genere di ricatto! «Il Tribunale, appena ricevuta la notizia del proposito della donna, nomina un giudice Delegato perché disponga d’urgenza a mezzo dei servizi sociali ed eventualmente anche ascoltando la donna, gli opportuni e discreti accertamenti sulla condizione personale o familiare della gestante al fine di chiarire le motivazioni del suo proposto». Dopo la segnalazione, sempre ad insaputa della donna (non è infatti obbligatorio informarla che a suo carico è stata aperta un’indagine, bensì solo facoltativo) si svolge tutta un’inchiesta sulla sua vita presente e passata. Appare evidente che tutto il procedimento è improntato a uno stile poliziesco e inquisitorio che da un lato ricorda da vicino quello dell’inquisizione alle streghe, dall’altro lato si ‘riallaccia a una moderna tendenza alla schedatura e al controllo dei cittadini in tutti gli aspetti della loro vita.
Terminata l’indagine, la donna e, se ha un marito, anche quest’ultimo, vengono convocati dinanzi al ‘tribunale. A questo punto si chiede loro se confermano la decisione non voler dare il nome al nascituro e di volerlo dare in adozione. L’espressione usata dalla legge «Qualora risulti confermata la decisione della gestante» appare sorprendente, visto che la donna mai ha espresso tale volontà ma è stata sostanzialmente trascinata davanti al tribunale per iniziativa di altri e per la prima volta si trova di fronte alla richiesta di effettuare una dichiarazione.

Quale può essere la situazione della donna così inquisita?
Ormai è stata schedata come gravida e non desiderosa di tenere il bambino; la maternità diviene una coazione. Se dichiara di non voler tenere il bambino viene immediatamente emesso il decreto di adottabilità prenatale; dopo questo provvedimento può andarsene a casa, ma sarà certamente tenuta sotto controllo; e se deciderà di abortire sarà subito denunciata. Lo stesso accadrà se, per sfuggire il detto procedimento, dichiarerà che vuole tenere il bambino. La schedatura è stata comunque effettuata e qualcuno si occuperà di vedere se essa porta veramente a termine la maternità. In ogni caso (art. 5) per meglio controllarla è stato previsto un particolare istituto denominato «residenza per gestanti» dove la donna può essere ricoverata con decreto del Tribunale dei minorenni.
Questa casa è concepita come un luogo per «gestanti che vogliono tenere nascosta la loro maternità”! Una specie di organizzazione di tipo ospedaliero (si parla significativamente di ricovero) o carcerario (per tenere nascosta la gravidanza non si può evidentemente uscire e tanto meno lavorare all’esterno). È bensì vero che per emettere il decreto di ricovero si chiede il consenso della donna, ma per valutare il significato di questo provvedimento di internamento, bisogna tener conto di tutto il procedimento che lo precede e che può avere profondamente scosso la donna. L’art. 15 prevede che il decreto di adozione prenatale perda efficacia, se, subito dopo la nascita, la donna dichiari di voler tenere ‘il bambino. Ma anche qui, al di là della lettera della legge, va verificato che cosa avviene nei fatti quando, immediatamente dopo la nascita, trovandosi ancora la donna nello stato di prostrazione conseguente al parto, con notevole crudeltà, la si interroga se vuole o non vuole il bambino. Certo essa non è nelle migliori , condizioni per prendere una decisione serena. Che tutta la procedura si svolga in un clima di fretta e di pressioni è segnalato dall’ultimo comma del successivo art. 16, dove si prevede addirittura che colui che ha posto l’anzidetta domanda alla donna dia notizia al tribunale dei minorenni della conferma della donna di non voler tenere il figlio, a mezzo telefono.
L’art. 18 prevede che subito dopo la telefonata il tribunale dei minorenni provveda subito alla scelta dei coniugi affidatari ed emetta decreto di affidamento del bambino. Segue la consegna Immediata del bambino agli affidatari i quali provvedono a denunciarlo entro quindici giorni allo stato civile come figlio di genitori ignoti. L’ufficiale civile deve dare il nome degli affidatari. Contrariamente alle vigenti norme dell’adozione, non è stabilita alcuna garanzia giurisdizionale per la madre (o per i genitori), ai quali il figlio viene sottratto con la massima rapidità. Vengono sancite deroghe alle norme sull’ordinamento dello stato civile, la cui violazione è ora prevista come reato di alterazione di stato: infatti il bambino appare figlio di ignoti e come se fosse figlio naturale dei genitori adottivi.
Se però il bambino non è sano, il decreto di affidamento viene ritardato con l’ipocrita motivazione dell’interesse del bambino. In realtà egli viene dichiarato allo stato civile come figlio di ignoti e sarà destinato, proprio per le sue condizioni menomate, a rimanere in un istituto.

Quindi c’è una chiara discriminazione tra bambini sani e malati: i primi hanno diritto a una famiglia? gli altri no!
Ciò svela crudelmente l’ideologia che sottostà alla proposta che è quella di reperire bambini per l’adozione, cioè di soddisfare una domanda che, naturalmente, richiede un prodotto sano.

Si adombra la legalizzazione del mercato dei bambini.
E vero che l’art. 17 prevede una pena per chi offre denaro o altra utilità economica alle persone che debbono rendere la dichiarazione di non volere il bambino, ma curiosamente non prevede alcuna pena per chi offra denaro <a tutte le altre persone che gravitano intorno alla donna gravida. Tutto il sistema del progetto ruota attorno all’intervento dell’autorità giudiziaria, coarta la donna alla maternità, He fa un contenitore, una macchina per dare un prodotto: «il bambino sano». A fianco di questa organizzazione repressiva, la proposta prevede anche una organizzazione assistenziale. L’apparato assistenziale è però anche esso dominato dalle stesse autorità che presiedono al procedimento innanzi descritto. L’art. 6 istituisce dei Centri di Accoglienza e Difesa della Vita Umana, ma il personale professionale, medici psicologi, assistenti sociali, sono nominati dal presidente del Tribunale dei Minorenni; la nomina dei medici è proposta dal Consiglio dell’Ordine.

Non v’è traccia di partecipazione popolare!
Il centro serve anch’esso per segnalare le madri che non vogliono tenere il bambino e dare inizio alla procedura di adozione prenatale. Serve anche per redigere una completa scheda su tutti i problemi e le difficoltà prospettate dalla donna in relazione alla sua maternità, scheda che potrà essere inviata all’autorietà giudiziaria, qualora sia iniziato un processo per aborto contro la donna, perché la stessa possa fruire dell’attenuante di pena di cui all’art. 22 n. 4.
Va rilevato che tale attenuante è proprio prevista: «se la donna, prima di commettere reato, si sia presentata ad uno dei Centri di accoglienza e difesa della vita ed abbia prestato ogni possibile collaborazione per la soluzione dei problemi esposti». I Centri svolgono quindi anche una curiosa funzione nell’ipotesi di aborto clandestino. Se la donna si è presentata al Centro potrà avere l’attenuante ovvero qualora il giudice lo decida discrezionalmente, il perdono giudiziale (vedi oltre l’art. 25); se invece non si è presentata al Centro, non ne potrà fruire. Da un lato pertanto vi è la coazione alla maternità, dall’altro lato si concede una specie di lasciapassare per l’aborto clandestino se la donna si assoggetta al controllo del Centro, aborto clandestino che viene quindi riconosciuto come una realtà ineliminabile.

Ciòche appare prevalente su tutto è il controllo sulla danna e sulle sue funzioni vitali.
I fondi per tali fini sono gestiti da un Fondo Nazionale per la tutela della vita, anch’esso rigidamente centralizzato e dipendente dall’esecutivo. Per tale fondo viene previsto uno stanziamento di cinquanta miliardi annui, esattamente corrispondente a quello stabilito dalla proposta di legge sull’aborto per i consultori (da notarsi che il Tesoro ha dichiarato che tale somma non è disponibile, con ciò tentando di silurare la legge ora al Parlamento). Va quindi ora esaminato il rapporto tra questo progetto e la legge di istituzione dei consultori. I consultori pubblici sono resi totalmente inutili; è chiaro che si prevede che ad essi non vada più neppure una lira. I compiti per essi previsti sono tutti assorbiti dai Centri per la vita; i consultori servirebbero solo come canale per indirizzare le donne ai centri.
Art. 14: «I medici, le ostetriche e gli operatori dei consultori familiari invitano le donne che abbiano prospettato difficoltà attinenti alla loro gravidanza, a prendere contatto con i centri e consegnano loro un apposito stampato redatto dalla Regione, contenente un’illustrazione dei compiti attribuiti ai centri…».
In compenso (art. 2) vengono istituite nuove cattedre universitarie per tutti i problemi inerenti alla maternità.

Evidente appare l’intento di creare una serie di ulteriori centri di potere medico.
Il potenziamento e la tutela del potere medico appare anche dalle previsioni penali per l’aborto e in particolare dal gruppo di articoli illustrati qui di seguito (19, 23, 28, 21). L’art. 19 prevede la punizione, così come il codice Rocco attualmente in vigore, per chi cagiona l’aborto di donna non consenziente. Il codice Rocco però per l’aborto su donna non consenziente stabiliva una pena da dodici anni di reclusione, la proposta di legge del movimento per la vita, diminuisce per lo stesso .reato la pena da quattro a otto anni. Questa rilevante diminuzione di pena è una scelta ideologica del tutto conforme allo spirito reazionario di questa legge che considera evidentemente in modo molto più benevolo del codice attuale un fatto che lede nella maniera più grave il diritto alla maternità (l’aborto di donna non consenziente è considerato da tutta la dottrina tradizionale la forma più grave di aborto). L’art. 23 stabilisce pene di gran lunga inferiori- a quelle attuali anche per i casi in cui dall’aborto praticato contro il consenso della donna derivino morte e lesioni personali della donna stessa: la nuova pena prevista è quella della reclusione da otto a sedici anni invece della reclusione da dodici a venti anni stabilita dal codice Rocco nel caso di morte, e della reclusione minima di sette-sei-cinque anni (nel caso di lesioni gravissime, gravi e lievi) invece che una reclusione minima di dieci anni stabilita sempre dal codice Rocco senza alcuna distinzione fra la diversa gravità delle lesioni. La nuova legge introduce infime, nell’ultimo comma dell’art. 23, una pesante discriminazione nelle pene a favore della categoria dei medici: questo trattamento particolare, del tutto sconosciuto alla legge penale oggi in vigore è non solo illegittimo, perché viola l’art. 3 della Costituzione, ma si risolve in una vera e propria licenza per il medico chirurgo di attentare, nelle pratiche di aborto, all’integrità fisica della donna, in quanto le sanzioni previste a suo carico in caso di lesioni personali o di morte, sono minime.
Così in base all’art. 586 cod. penale che viene richiamato espressamente dall’art. 23 nuova legge, se l’intervento abortivo che ha prodotto come conseguenza la morte della donna è stato praticato da un medico chirurgo, la pena in cui potrà incorrere il medico sarà la reclusione di sei mesi mentre la pena minima per qualsiasi altra persona che non abbia la qualifica di medico sarà la reclusione di otto anni. La pena di sei mesi sopra indicata equivale alla pena minima stabilita per qualsiasi omicidio colposo; è evidente, quindi, che per questa legge, quando il soggetto che provoca colposamente la morte di una donna è un medico, diventa del tutto indifferente che questi abbia agito nell’ambito di un’attività che la stessa legge considera reato (l’aborto).
Art. 28: l’ipotesi più importante nell’ambito di questa norma è senza dubbio ancora una volta quella che prevede il comportamento del medico che, per imprudenza, negligenza o imperizia (ad esempio somministrando alla donna farmaci non adeguatamente sperimentati o sbagliati) ne cagiona l’aborto. La conseguenza è la sua punizione con la reclusione da 15 giorni fino a un massimo di due anni. (La reclusione di quindici giorni è la pena minima stabilita dal codice penale per i delitti puniti con pena detentiva). Art. 20: l’aborto di donna consenziente: tanto per la donna che si procura o si fa procurare l’aborto quanto
per colui che procura l’aborto col consenso della donna, è prevista la pena della reclusione da uno a quattro anni. La pena per tutti e tre i casi è la medesima, mentre il codice Rocco fissa per la donna che si procura l’aborto (sono noti i casi tragici di chi si procura l’aborto con mezzi rudimentali) una pena dimezzata rispetto a quella prevista per le altre due figure di aborto: un anno di reclusione invece di due.
Questa legge è molto più repressiva del codice attuale anche in un altro caso (ultima parte dell’art. 20), quello di «aborto commesso all’estero» da una cittadina italiana: secondo lo art. 9 del codice penale infatti per procedere penalmente in questo caso (come in tutti gli altri casi in cui un cittadino italiano commette in un Paese straniero un reato qualsiasi che è punito dalla legge italiana con una pena minima inferiore a tre anni di reclusione) è necessario che il Ministro di Giustizia faccia apposita domanda, mentre la proposta di legge prevede che questa richiesta non sia più una condizione perché il Pubblico Ministero possa iniziare un’azione penale contro la donna che ha abortito all’estero con eventuale arresto appena ritorna dall’estero. L’art. 21 stabilisce due circostanze che comportano un aumento della pena fissata dall’art. 20 e precisamente: la reclusione da un anno e quattro mesi fino a cinque anni e quattro mesi. L’aggravante è prevista in primo luogo se la persona che ha cagionato l’aborto non è abilitata all’esercizio della professione medica. Anche qui appare evidente il favore verso il medico che va incontro per l’aborto clandestino a minori responsabilità. La seconda circostanza riguarda l’aborto determinato da fine di speculazione economica, Circostanza ambigua e contraddittoria con tutto il contenuto della legge. Se l’aborto è un reato contro la vita non dovrebbe esserci alcun parametro cui fare riferimento per stabilire che una data somma non costituisce speculazione economica e quindi permette l’applicazione di una pena inferiore.

L’aborto terapeutico non è previsto
La vita della donna non ha nessun significato e non deve essere tutelata. Art. 22: va qui puntualizzato che la donna viene punita in ogni caso, anche quando la gravidanza determina per lei gravi difficoltà di ordine sanitario, quando il concepimento è stato causato da violenza carnale, se sussiste rischio elevato di grave malformazione o malattia psichica del nascituro incurabile in base alle tecniche moderne disponibili al momento della diagnosi.
In questi casi vi è solo una diminuzione della pena prevista dall’art. 20 per l’aborto. La proposta considera evidentemente inesistente la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 18 febbraio 1975 con la quale la Corte ha affermato testualmente: «Non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche al-, la propria salute di chi è già persona, come la madre e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare», ammettendo l’aborto terapeutico.
L’attenuante di pena viene concessa (art. 22 n. 4) anche se la donna prima di commettere il reato si sia presentata a uno dei centri per la vita od abbia prestato ogni possibile collaborazione per la soluzione dei problemi esposti, purché risultino che il reato non è stato commesso per motivi antisociali od egoistici: ovvero a seguito di rifiuto dell’offerta di aiuto del Centro.
Questa attenuante sembra essere uno dei punti salienti della legge dove emerge in pieno l’ideologia sottostante. La donna deve presentarsi come penitente ai centri, sottomettersi, collaborare ‘(espressione dall’oscuro e torvo significato) accettare l’aiuto del Centro {cioè recarsi nella Casa delle gestanti?). Se fa tutto ciò e poi abortisce, viene premiata con un’attenuante di pena o addirittura con il perdono giudiziario. L’art. 25 prevede infatti che, quando la donna non abbia portato a termine la gravidanza perché sarebbe morta o sarebbe rimasta gravemente o permanentemente menomata, quando sia stata violentata o quando si sia recata al Centro semplicemente o abbia «collaborato» possa, a giudizio discrezionale del giudice, non subire l’applicazione della pena. Questo istituto in base al quale l’imputato anche se colpevole, in determinate condizioni, non viene condannato (o rinviato a giudizio) è previsto dalla legge penale solo nei casi di minori di anni 18. La proposta lo applica alla donna, considerata evidentemente incapace di autodeterminarsi, un’eterna minorenne. In assoluto contrasto poi con le finalità giuridiche del perdono giudiziale esso viene applicato anche al medico che ha praticato l’aborto, ma solo al medico e non a chi abbia praticato l’aborto senza essere medico. Quindi se la donna si presenta al Centro o «collabora» anche il medico non subisce la pena. Duramente colpito da due mesi a due anni è chiunque invece fa pubblicità a favore di istituti anche esteri in cui si pratica l’aborto, sia di medicinali, prodotti, strumenti o metodi destinati a procurare l’aborto, Viene quindi introdotto un nuovo reato non presente attualmente nel codice volto a colpire chiaramente ogni opinione espressa sul problema. Infine, a chiusura, l’art. 26 ultimo comma prevede che in ogni caso, anche quando è applicato il perdono giudiziale, la donna venga sempre condannata al pagamento della somma da lire 100.000 fino a 1.100.000 in favore del Fondo Nazionale per la Difesa della Vita. Viene quindi stabilita una tassa sull’aborto clandestino a favore del Centro. Alla donna viene permesso di fare l’aborto clandestino specialmente se non si è sottratta al controllo dei Centri ma per far ciò deve pagare una tassa.
11 titolo e la presentazione fanno riferimento alla procreazione responsabile o alla protezione della gravidanza. Ma l’esame delle norme rivela lo stridente contrasto tra il’enunciazione e il vero significato della proposta che toglie ogni libertà di decisione sulla maternità, deresponsabilizza completamente la donna assimilandola a un’incubatrice senza più nessun rapporto con il bambino, riduce il bambino a un prodotto alienato da lei da immettere sul mercato; assume quindi come una realtà ineliminabile l’aborto clandestino, coprendo la responsabilità dei medici che lo praticano, o costringendo la donna a subire un’infinita serie di umiliazioni tutte riassunte nella parola «perdono».
H progetto di legge esaminato è stato depositato dal Movimento per la Vita «28 novembre 1977 presso la Corte di Cassazione con le 50.000 firme già raccolte previste dalla Costituzione per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare.