femminismo è potere

«soggetto donna: la sfruttata e non garantita per eccellenza. Da qui, non da altri punti di vista, bisogna partire».

maggio 1978

quanto segue è un tentativo di riflessione sui meccanismi che si ripetono al nostro interno, riguardo al rapporto con le istituzioni. Ho schematizzato due visioni contrapposte, quelle di un ipotetico gruppo A e quelle di un ipotetico gruppo B, che nella pratica quotidiana non hanno la spigolosità (né la chiara diversità) di vedute, quali ho qui schematizzato. Dirò quindi che entrambe le linee di tendenza coesistono dentro di me. Per il resto, ogni riferimento alla realtà è ‘puramente casuale, come si usa dire. Né mi sembra giusto giustificarmi per una elaborazione che mi è necessaria quanto il sapere che cosa faccio al mondo. Ho fiducia nel fatto che analizzando le mie (le nostre) incertezze sia possibile superarle. Non mi sento in colpa di pensare e di elaborare dati che l’esterno mi offre. Sono viva.

Poniamo il caso di un gruppo A e di un gruppo B, alleati contro un potere, poniamo il potere maschile. Al gruppo A viene offerta la possibilità di aderire ad un’iniziativa istituzionale sul femminismo, e il gruppo B lo accusa di strumentalizzare il femminismo. Il gruppo A ribatte che entrare nelle istituzioni è un passo avanti nella lotta contro il potere maschile. Il gruppo B ha molte possibilità. 1) Dichiara che si vive male, che il potere maschile non c’entra con le istituzioni e riprende a sferruzzare soddisfatto. 2) Riconosce l’affermazione del gruppo A come vera e si associa. 3) Ha elaborato un’analisi secondo cui il potere istituzionale può essere solo maschile e segna il gruppo A nella lista dei nemici da combattere. 4) Non ha elaborato alcuna analisi definitiva su cosa significa rapporto con le istituzioni, ma a fiuto gli puzza e dichiara che si tratta di una manovra sulla pelle delle donne, prendendo tempo.

Il gruppo A fa notare che il femminismo non è servito a niente, se non ne vengono messi in pratica i risultati. Il gruppo B rifiuta di riconoscere come risultato quello che chiama recupero da parte del potere. Il gruppo A dice che è necessario arrivare anche alle altre donne, sebbene con contenuti mediati.

Il gruppo B chiede se faranno un corso su come si conserva la marmellata di inverno. Il gruppo A si impazientisce e taglia corto (PUÒ farlo): si dissoci pure il gruppo B dall’iniziativa, che tanto lui il suo bel rapporto con le istituzioni lo instaura lo stesso. (Senza dubbio lo ha già instaurato e cercava l’adesione del gruppo B a posteriori). Il gruppo B non lo può ostacolare: maligna però che lo scopo di tutto è il soddisfacimento di biechi interessi personali.
Il gruppo A ha perso ogni pudore e rifacendosi al comune patrimonio di lotte asserisce che il personale è politico, svuotando definitivamente di contenuti un preziosissimo slogan e ponendo fine ad un’era di sorellanza. Il gruppo B diventa verde e minaccia la scomunica femminista. Il gruppo A si guarda collettivamente le unghie e con nonchalance afferma che ogni femminista è rappresentativa di se stessa, e come tocco finale si costituisce collettivo e curerà come tale il rapporto con l’istituzione. Componenti sparse del gruppo B parteciperanno a livello personale, come professioniste o utenti dell’iniziativa.
Il potere maschile ed istituzionale sorride.
C’era qualche altro modo di condurre la cosa?
Le istituzioni sono strutture normative fondate su regole istituite da un gruppo al potere, valevoli anche a discapito di tutti gli altri gruppi non al potere. Non possiamo dichiararci a favore delle istituzioni, in quanto regole contro di noi. Non possiamo esibire una patente di purezza anti-istituzionale, perché in diversi casi le accettiamo. Chi si dichiara assolutamente contraria al rapporto con le stesse, nel privato è invischiata nell’istituzione per eccellenza che è il matrimonio e non manifesta desiderio di cambiare o è costretta da difficoltà finanziarie a subirla. Chi è sposata ad un partito politico, vuoi per amore, vuoi per necessità di «lavorare, mantiene invece un ritmo di vita impostato su modelli emancipatori che la preservano da costrizioni contingenti sul privato. E ancora: chi ammette il ricorso allo strumento elettorale nel partito maschile di cui fa parte è poi ipercritica di fronte ai microscopici meccanismi psicologici di delega all’interno dei collettivi femministi, mentre magari chi è ruvidamente contro la politica autocoscienziale è coerentemente separatista e ‘rifiuta la doppia militanza, cioè il connubio con un’istituzione maschile, anche se espressa da partiti di minoranza.
Non manca chi per la classe operaia ha accettato pienamente la soluzione storica di trasformazione del movimento in partito, .ma inorridisce al pensiero di un partito delle donne. Ma, se la costituzione in un partito è un passo negativo, perché la condividiamo per la classe operaia? Se è invece positiva, perché non va bene per le donne? E sulla violenza contro la donna: c’è chi, pur credendo nei sindacati (notoriamente al maschile), considera una debolezza ricorrere al tribunale maschile, viceversa chi è su posizioni di autonomia (quella «non garantita») trova giusto farvi ricorso. E conseguenzialmente, sulla violenza come risposta: le prime, contraddicendo la linea legalitaria sindacale, possono arrivare a teorizzare ipoteticamente la costituzione di brigate femministe che rispondano colpo su colpo alla violenza ‘maschile, mentre le seconde si farebbero vendicare da un bel gruppo di compagni con due s/palle così. Non manca chi accetta la denuncia per violenza, riconoscendo l’autorità, o avvalendosi della stessa, dell’istituzione a livello giuridico, ma non a divello legistativo (vedi legge sull’aborto) o viceversa. E oltre: ohi non ammette alcuna interazione cori le istituzioni, ma in campo culturale collabora con le stesse, non soltanto per necessità di sussistenza, ma per una non ben specificata secondarietà della problematica culturale. Chi, invece, nelle istituzioni c’è fino al collo, ma la creatività non la prostituirebbe mai. Chi è fuori da tutto, anche dal matrimonio, ma si fa schiavizzare dall’istituzione coppia; chi non è neanche nella coppia, ma dipende dalla famiglia di origine. E infine c’è chi, rifiutando ogni compromesso, ha di fronte a sé solo lo scum. Ho parlato con donne che avevano tutte queste posizioni, a loro volta combinabili tra loro, ma avendo assunto io stesso posizioni contraddittorie, non siamo mai riuscite ad incontrarci sull’unico terreno che avrebbe potuto essere costruttivo: cosa conviene, a noi, qui ed ora?
Tra me e i miei bisogni c’è sempre un filtro, determinato da degli a priori alieni al movimento delle donne. È come se non sapessimo scegliere quale deve essere il nostro parametro di giudizio, tra i tanti già esistenti, che rispondono alle necessità dei contesti in cui sono nati, ma che non sono i nostri. La nostra parte profonda ancora tarda a smaltire gli imperativi del cattolicesimo, che la coscienza già rifiuta, ma da stessa coscienza si riflette in specchi diversi: si vestirà da libertaria, oggi, o da autonoma, o da nuova sinistra, o indosserà un tailleur PCI? La cappa della divaricazione tra utopia e realtà pesa più gravemente sopra di noi, perché ci immobilizza in quanto donne, contrastato anello di raccordo tra le autonome e l’UDI. Utopia e realtà assunte come chiavi di lettura della nostra realtà ci portano a macroscopiche e smembranti incoerenze. È necessario elaborare analisi comuni e non irrigidirsi su fittizie opposizioni interne, cui è preferibile una maggior elasticità fenomenologica. Solo riconoscendoci come corpo unico saremo in grado di imporre condizioni. Ponendoci come forza contrattuale che modifica le regole del gioco le possiamo rivoluzionare. E questo solo riconoscendoci ed imponendoci come soggetto politico primario. Soggetto donna: la sfruttata e non garantita per eccellenza. Da qui, e non da altri punti di vista, bisogna partire.
Qual era l’altro modo di condurre la cosa?