le follie e la donna

parlare di follia tra noi femministe, mitizzandola, spesso senza conoscerla; coltivarla senza confronti, addirittura pensare che siano uguali i livelli di contraddizione tra noi e le ricoverate, è un’altra volta ideologismo.

maggio 1978

dal numero di dicembre, fatto subito dopo il convegno di Firenze, su Effe non si è più parlato di «donna e follia». Nel frattempo da più parti è emersa la necessità di riprendere la discussione, e di ritrovarsi come movimento per confrontare ulteriormente esperienze, riflessioni e tentativi che ci sono stati in questi ultimi mesi. Le cose che espongo in questo articolo sono quelle sulle quali mi interesserebbe discutere ad un ipotetico convegno; sarebbe interessante se si potesse iniziare su Effe o su altri strumenti un dibattito preparatorio prima di ritrovarsi.
Già all’incontro di Trieste era iniziato il dibattito sui diversi «livelli» della follia; vorrei riprenderlo perché penso che una chiarezza in questo senso sia la base di partenza di ogni riflessione su questa tematica.

“infatti chiamare ugualmente follia… “
Infatti il chiamare egualmente follia tutta una serie di espressioni o modi diversi di comunicazione, (senza distinguerne i vari aspetti, le diverse radici), continua ad essere un vizio di fondo tra coloro che si occupano per varie ragioni di questa problematica.
Un primo livello della devianza, come già dissi, è la nostra scelta cosciente di non rispetto della norma imposta figlia-moglie-madre, scelta cosciente, addirittura conquistata dopo profonde lacerazioni.
Dall’altra la devianza della rinchiusa, della segregata, che vive però, oltre la violenza sociale e manicomiale, sue profonde lacerazioni, sofferenze psichiche. Rifiutare l’etichetta della manicomializzata, della pazza da evitare perché pericolosa ed incontrollabile, dire cioè che quella pazzia non esiste, non significa credo affermare che la sofferenza psichica non esiste; l’aver compreso la radice sociale della sofferenza, non significa certo automaticamente che è soltanto un fatto sociale;'”alla donna che sta male non è sufficiente rispondere che questa società è antiumana, che questo è il motivo del suo star male; a lei questo non basta. Continuerà semplicemente a soffrire. Ed in questo, non esprimendo quasi mai dissenso o ribellione anche se spesso l’inizio del suo star male è stato provocato da un rifiuto istintivo o del ruolo, delle norme «al femminile». Questo rifiuto però non essendo stato organizzato o coscientizzato, spesso diventa quasi una parte del proprio essere da rifiutare, da temere, vissuto e fatto vivere con tremendi sensi di colpa; come malattia da curare. Così dopo il momento istintivo della ribellione riscatta un’altra volta il meccanismo della passività, della paura di non farcela, spesso ancora maggiore delle dipendenze precedenti. Per questo quando si va in un reparto femminile del manicomio, superata la mistificazione del «mitico» incontro tra le «pazze», certe volte è tremendo. Si sente la delega, la passività, la violenza reciproca tra donne. Ti trovi di fronte una tale situazione di espropriazione (materiale, culturale, affettiva), di un uso della malattia contro di loro per schiacciarle ulteriormente, che pensi che forse non ce la farai mai a comunicare, a capirti. Poi nelle loro storie ritrovi pezzi di te stessa, spesso della tua passività o di violenze subite; e questo è anche il momento dove si possono instaurare i primi attimi di comunicazione, anche se non verbale, determinata; è il momento nel quale riconosci le catene comuni anche se tu sai spezzarle o almeno diminuirne la stretta. E l’identificazione certe volte è incontrollabile, ma forse può diventare trasformante, non pietistica, se vista come processo comune di lotta per l’autonomia, anche se con tempi e modi assolutamente diversi.

“è facile invece che certe manifestazioni…”
È facile pensare invece che certe manifestazioni di queste donne siano libera espressione, senza andare a fondo sulle cause del ricovero per analizzarle, rivisitarle, dando risposte a livelli diversi e ricevendone, costruendo insieme dei rapporti per un recupero d’identità critico, non immediatamente normalizza-bile; l’iter da seguire perciò è duplice, procede su binari paralleli, comprensione delle contraddizioni iniziali (riscoprendo metodi di comunicazione), ricerca di risposte non integrabili, ma autonome, per una propria riappropriazione. Non vedendo così queste donne come gregge da reinserire meccanicamente nel sociale, nel magico territorio.
Perciò un rapporto solamente «festaiolo», di esterne che in massa arrivano all’ospedale psichiatrico, facendo magari grandi assemblee sulla libertà delle ricoverate, rischia di essere mistificante. Un’altra volta, e più sottilmente, addirittura entrando nell’istituzione e non ignorandola, rischiamo di scaricare su di loro la nostra paura della follia, salviamo la nostra «normalità» proponendo al massimo forme più alte di assistenzialismo. Ma l’assistenzialismo non crea coscienza, non provoca bisogni reali, non crea resistenza all’oppressione, ma prevalentemente provoca soltanto nuove deleghe.

“parlare di follia tra noi femministe”
Parlare di follia tra noi femministe, mitizzandola spesso senza conoscerla, coltivarla senza confronti, addirittura pensare che siano eguali i livelli di contraddizione tra noi e le ricoverate è un’altra volta ideologismo. Accarezzarsi vittimisticamente la propria sofferenza, le proprie nevrosi, credere che «linfa femministica» sia misticizzare religiosamente il proprio «rischio di follia», non penso che sia per noi un momento trasformante, ma una ulteriore ghettizzazione. Oltretutto rischiando di riproporre concezioni (cosiddette antipsichiatriche) della sofferenza come espressione quasi meccanica di dissenso, che basta far emergere e riflettere automaticamente nel sociale. Facendo così si creano facili similitudini tra le psichiatrizzate e gli altri movimenti; e nuovamente ne deriva un non entrare nella contraddizione, un non voler vedere la realtà per non mettere in crisi le proprie calde sicurezze, i propri riferimenti, confrontandoci davvero col tremendo circuito della sofferenza.
A questo punto però, si ripropone l’altro grande problema, per me ancora assolutamente irrisolto; come recuperare collettivamente tutte queste identità disperse, sviluppando nuovi livelli di autonomia, ricostruendo o riconoscendo in questo processo anche pezzi oscuri di noi stesse, senza riproporre ulteriori forme maternali-assistenziali? A questa domanda mi piacerebbe che si rispondesse e ci si confrontasse,