le pretese del potere

sono state le donne ad imporre la necessità di affrontare il problema aborto… esse ne sono state immediatamente espropriate: in parte con la loro connivenza.

maggio 1978

15 aprile. Da ventiquattr’ore circa è passata alla Camera una legge sull’aborto della quale è caratteristica saliente la riconferma della minorità fisica e psicologica (e perciò sociale e politica) della donna. In essa non c’è riconoscimento del nostro essere soggetti, come faticosamente, ma anche creativamente abbiamo mostrato di poter essere in questi anni, anzi c’è il tentativo (neppure tanto ben nascosto) di negarci qualsiasi possibilità di diventarlo. Tuttavia non è su questa legge che si vuole riflettere qui, bensì sulle pretese del potere.
L’uscita delle donne dallo stato di minorità è storia recente, anzi recentissima, ed è avvenuta con un processo complesso e disomogeneo operante attraverso meccanismi fragili e delicati; sicché se si può dire che «la donna» non può più essere considerata (da nessuno, tranne nei casi di più flagrante e mistificatoria rimozione), un essere inferiore, subordinato, per natura passivo — insomma oggetto e non soggetto — non possiamo certo affermare che «le donne» siano e si sentano, singolarmente e collettivamente, tutte soggetti e soggetti rispetto a qualsiasi problema. In altri termini: non tutte sono state raggiunte dall’ondata liberatoria prodotta dal movimento ed allo stesso tempo accade a ciascuna di noi di non riuscire ancora ad essere soggetto in ogni momento della nostra vita, sia per debolezza nostra, sia per le forti resistenze esterne. La lotta contro coloro che vogliono toglierci quel poco o tanto di soggettività autonoma che abbiamo costruito, è lo sforzo che quotidianamente ci troviamo a compiere, ora che, passata la sorpresa del nostro ingresso nella (STORIA) il maschio-padrone tenta di fagocitarci nuovamente, non tanto negandoci il diritto di essere soggetti (non è possibile essere così retrivi!), quanto di esserlo autonomamente, secondo i tempi e i modi che noi riteniamo più efficaci e «produttivi» (dal nostro punto di vista, s’intende). Ciò che ci viene fatto capire — e che viene spesso espresso a. chiare lettere — è che questa società tutto sommato vedrebbe di buon occhio una nostra maggiore partecipazione, nel rispetto pur tuttavia, delle compatibilità e dei vincoli «oggettivi» .Tradotto in moneta sonante ciò significa, in questo preciso momento storico, scordarsi il lavoro extracasalingo, i servizi sociali, la costruzione di alternative concrete valide alla famiglia nucleare borghese e via discorrendo. Lo schema: sopportate l’inferno adesso, che in seguito — se sarete state buone — ci sarà il paradiso; è più che mai d’attualità. Questo attacco alla nostra autonomia non viene però portato frontalmente, che sarebbe cosa ingenua e rozza, ma attraverso un progressivo procedimento avvolgente che tende a svuotare uno degli strumenti fondamentali della nostra pratica: la separatezza. Abbandonata la pretesa di irrompere nelle nostre riunioni tra donne, la tattica adottata è quella di premere dall’esterno affinché le elaborazioni, le prese di posizione siano di un certo tipo, per di più con il comodo alibi di non averci costrette né impedite e presentando di conseguenza come il frutto della nostra libera espressione, quelle che sono in realtà scelte indotte. Il dato che va assunto è che al movimento delle donne viene riconosciuto un ruolo politico e che proprio per questo gli si richiedono comportamenti e assunzioni di responsabilità; questa intrusione dall’esterno nella nostra separatezza si è manifestata in modo particolarmente pesante in tre momenti: le elezioni politiche del ’76, la vicenda dell’aborto, il terrorismo. Nel primo caso l’«esterno» era introdotto prepotentemente nei dibattiti che si svolgevano nelle sedi del movimento a proposito dell’atteggiamento da assumere rispetto alle elezioni, gli schieramenti, le indicazioni di voto; da quelle compagne che vivevano all’epoca la esperienza della doppia militanza e che riportavano le linee delle rispettive organizzazioni politiche. La lacerazione nei rapporti tra donne prodotta da quest’esperienza ci insegnò a difendere la nostra separatezza (come base indispensabile per raggiungere un’effettiva autonomia) anche dal «maschile» che è in noi; non solo per quanto riguarda il «modo di rapportarsi» alle altre donne, ma anche rispetto a certi contenuti che, spesso, vengono mutati da analisi preconfezionate, non tanto perché siamo convinte della loro correttezza, quanto perché sprovviste di elaborazioni autonome. La lunga vicenda dell’aborto è forse quella che meglio caratterizza il rapporto dialettico esistente tra movimento e tutto ‘il ‘resto della società nel suo complesso. Benché siano state le donne ad imporre la necessità di affrontare il problema «aborto» senza più differirlo, esse ne sono state immediatamente espropriate: in parte con la loro connivenza, poiché si aveva coscienza che la questione, in quanto immediatamente politica, poneva l’esigenza di rivolgersi ai partiti come naturali interlocutori, indipendentemente dalla soluzione che si privilegiava (nuova normativa o depenalizzazione). D’altra parte, il «potere» (e qui intendo raccogliere insieme tutti i centri di potere coinvolti, giornali, partiti, istituzioni, la casta dei medici, ecc.) ci ha immediatamente richiesto un avallo alle sue scelte e alle sue proposte, accusandoci, da una parte, di non scendere più in campo in modo sufficientemente energico e incisivo e, dall’altra, di pronunciarci in modo critico rispetto alle decisioni che in sedi a noi esterne venivano prese. In sintesi, la «lettura» che veniva fatta del nostro comportamento era che eravamo incapaci di difendere le nostre richieste, appoggiando le forze che potevano garantirci l’acquisizione del diritto di abortire; mentre noi vivevamo drammaticamente e contraddittoriamente il bisogno — e l’impossibilità — di avere dei referenti istituzionali che potessero essere portavoci delle nostre proposte senza fagocitarci e snaturarci. Direi che la propensione verso la depenalizzazione che il movimento ha infine espresso in questi ultimi tempi, dipendeva e dall’inaccettabilità della legge in discussione e dalla netta sensazione che i partiti ci stessero chiedendo una delega in bianco, senza offrirci nessuna contropartita.
Direi però che gli ultimi avvenimenti sono esemplari per capire le pretese che il potere ha nei nostri confronti e le conseguenze che questo ha ed avrà sul movimento. Al di là del merito della questione, sulla quale è già stato detto tutto e il contrario di tutto, ciò che interessa qui analizzare è l’atteggiamento che l’«esterno» ha avuto nei nostri confronti rispetto al problema «terrorismo», a partire dai commenti fatti sul convegno sulla violenza svoltosi recentemente a Roma.
Schematizzo per esigenze di chiarezza
1) Prima di tutto si è richiesto un pronunciamento, una presa di posizione immediata e inequivocabile.
2) Ci si è imposti i termini entro cui muoversi, semplificando e banalizzando la realtà. Il bisogno di ottenere un consenso unanime contro il terrorismo ha fatto sì che l’attenzione nelle forze politiche si sia rivolta anche al movimento femminista (cosa rara, bisogna dire — mai ci è stato chiesto il parere sul programma di politica economica!) chiedendo esplicitamente un nostro pronunciamento. Si è oltre tutto prodotto un fenomeno di polarizzazione che si può efficacemente sintetizzare nello slogan (rovesciato): «O con le BR o con lo Stato»; cosicché chiunque si azzardi ad uscire dal sentiero tracciato viene immediatamente accusato — al minimo — di colpevole indifferenza. Ma, riaffermata la nostra estraneità al terrorismo — che è —, vorrei dire, culturale antropologica (cosa c’è di più maschilista di una pratica politica così inappellabile quale quella del «partito armato»?), su tutto il resto noi donne vogliamo riflettere secondo i modi e i tempi della nostra pratica. Per noi tutto ciò che esce dal «privato» è un magma con fuso che definiamo il «pubblico» (e che non è il pubblico com’è inteso dalle categorie politiche tradizionali, o non solo) e che dobbiamo trasformare radicalmente per potercene appropriare: se è ovvio che il potere pretenda da noi un assenso purchessia al suo operato, la nostra risposta non può essere che una riconferma del nostro diritto alla separatezza. Questa non è solo una realtà spaziale e formale, ma anche temporale e sostanziale. La nostra risposta politica ai fatti di questi ultimi mesi non può che essere la riconferma determinata della volontà di non farci ricattare né dalla crisi economica, né dal «quadro politico», ma di continuare a lottare perché sia ascoltata la nostra voce. La nostra, vita di tutti i giorni è sì sconvolta dal terrorismo (ricomposizione della famiglia di fronte al «pericolo», richiudersi degli spazi individuali e
collettivi) ma è altrettanto sconvolta dalla mancanza di posti di lavoro, di servizi, di case, dall’abbassamento del tenore di vita. La nostra separatezza ci serve particolarmente in questo momento a non perdere di vista quegli obiettivi che possono veramente cambiare l’esistenza quotidiana.