opprimere con leggi
…ma nella misura in cui noi donne decidiamo di usare come terreno di scontro anche quello istituzionale, dobbiamo utilizzare fino in fondo gli spazi che questa legge ci offre e farne un momento della lotta per la nostra liberazione.
in tutte le legislazioni da cui la nostra ha avuto origine ed influenza noi donne siamo sempre state considerate come oggetti di pertinenza (nella accezione giuridica del termine «cosa destinata in modo durevole a servizio o ad ornamento») dell’uomo. Le leggi sono state, quindi, certamente uno dei migliori strumenti repressivi . Utilizzati dal potere contro di noi, come contro tutte le classi subalterne e sfruttate.
Così si è ratificata, legalizzata, «sacralizzata» la nostra funzione esclusiva di donne-spose-madri, escluse da ogni contesto sociale al di fuori della famiglia, «incapaci di intendere e di volere» autonomamente la nostra vita. Certo in questi ultimi anni va facendosi strada una nuova normativa che, se pur limitatamente, sembrerebbe aprire a nuove prospettive il nostro perdente rapporto con la giustizia. Come ad esempio la riforma del diritto di famiglia, la proposta di abolizione del delitto d’onore dal codice Rocco, la legge di parità di ‘trattamento uomo-donna sul lavoro; tutte intese, secondo «l’illuminato legislatore», alla piena attuazione dell’affermazione contenuta nell’art. 3 della Costituzione che proclama l’uguaglianza di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso». Noi sappiamo bene che anche queste «leggi illuminate» ci sono piovute dall’alto, ci parlano di parità sul lavoro, ci fanno conservare il cognome di nostro padre (!), ci riconoscono lo stesso potenziale lavorativo degli uomini, ma di fatto non tengono conto né incidono sulla nostra realtà, che è una realtà di venti milioni di donne sfruttate nelle case, nei lavori più precari e che è una realtà di repressione sessuale, di costrizione al ruolo al quale la stessa Costituzione che proclama l’uguaglianza «senza distinzione di sesso», ci inchioda definendo essenziale «la funzione familiare» della donna (art. 37 2° comma Cost.). «..Xe condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione…».
Queste leggi quindi possono mai venir fuori da un principio che già ci limita alla funzione domestica? È partendo da queste considerazioni che noi del Centro per la difesa della donna abbiamo analizzato la recente legge di parità di trattamento uomo-donna sul lavoro (legge Anselmi!). Ora, parlare di parità sul lavoro in una società che addossa alla donna, per atavica prassi, il peso e la responsabilità della famiglia e non le fornisce le strutture adeguate affinché questo peso possa essere in qualche misura ridotto e distribuito, significa operare una grossa mistificazione. Peraltro, dalla applicazione di questa legge restano tagliati fuori tutta una serie di lavori a cui noi donne siamo costrette proprio dalla nostra condizione di emarginazione e di debolezza, quale ad esempio il lavoro a domicilio, il lavoro domestico, i lavori stagionali in agricoltura e tutte le altre possibili forme di lavoro precarie.
Art. 1 legge 9-12-77 n. 903: «È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro… Il divieto si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale… Eventuali deroghe sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti, individuate attraverso la contrattazione collettiva». Qui non c’è bisogno di una legge che vieti la «discriminazione» rispetto agli uomini, al momento delle assunzioni: questi lavori sono «riservati» da sempre a noi donne e specialmente in momenti di crisi economica come quella attuale, in cui noi siamo le prime ad essere ricacciate nelle case quale forza-lavoro di riserva.
La legge per tutelare la nostra «secolare debolezza» consente la deroga al divieto di discriminazione nel caso di lavori particolarmente pesanti. Ma nella realtà dei nostri lavori precari accettiamo continuamente di fare tali lavori, di finire alle presse, pur di lavorare e guadagnare.
Analogo discorso si può fare quando la legge prevede «sistemi di classificazione professionale».
Art. 2: «…I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione della retribuzione debbono adottare criteri comuni per uomini e donne». Questo discorso cozza anch’esso contro la realtà di mancanza totale di professionalità sul lavoro della donna. Infatti noi donne, relegate da sempre nel ruolo di casalinga, siamo state portate a scegliere anche nella scuola quei settori della cultura più consoni agli sbocchi occupazionali che ci venivano offerti e che non sono altro che la riproduzione esterna del nostro lavoro domestico e cioè l’insegnamento, l’impiego in ufficio come segretaria o dattilografa, la baby-sitter ecc. Perciò ci troviamo oggi ad un tale livello professionale, da essere automaticamente escluse dalla richiesta di assunzione di personale specializzato,
In questa legge che pretende di sancire la parità di diritti sul lavoro, non si fa altro che ribadite continuamente la discriminazione; esempio tipico è l’articolo della legge che vieta alle donne il lavoro notturno (art. 5), ribadendo il concetto della distribuzione dei ruoli in questa società per cui si ritiene più opportuno far rimanere a casa la donna durante le ore notturne perché noi siamo sempre deboli, madri, mogli.
Art. 5: «Nelle aziende manifatturiere, anche artigianali, è vietato adibire le donne al lavoro dalle ore 24 alle ore 6…».
Questo però non vuol dire che noi rivendichiamo il «diritto» al lavoro notturno, ci bastano le interminabili ore di lavoro in casa e fuori! Del resto il legislatore ha pensato anche a questo: infatti con una semplice dichiarazione (art. 7) attestante la rinuncia dalla moglie «lavoratrice» ad usufruire del permesso di assentarsi | dal lavoro, si dà la possibilità di effettuare quello scambio dei ruoli che ” vede l’uomo «casalingo»! Ma quante f di noi oggi, nel nostro privato, hanno il potere sufficiente per concretizzare questo scambio?
Art. 7 : «il diritto di assentarsi dal lavoro… sono riconosciuti anche al padre lavoratore… in alternativa alla madre lavoratrice ovvero quando i figli siano affidati al solo padre…». Ma nella misura in cui noi donne decidiamo di usare come terreno di scontro anche quello istituzionale, dobbiamo utilizzare fino in fondo gli spazi che questa legge ci offre e farne un momento della lotta per la nostra liberazione.
Portare nelle aule giudiziarie ricorsi che rivendicano i nostri diritti significa oggi riappropriarci di un terreno in cui siamo state sempre escluse, significa rendere pubblica e denunciare non solo le discriminazioni sul lavoro negli angusti limiti consentitici dalla legge in esame, ma anche denunciare le condizioni dei mille nostri lavori che la legge volutamente non ci garantisce né tutela. Significa fare il salto dal momento di riflessione, di analisi critica del nostro sfruttamento alla volontà comune di non subire più, usando tutti gli strumenti possibili per portare ai livelli più alti e complessivi la nostra RIBELLIONE! Rifiutiamo quindi la logica di questa legge che nel disciplinare i mezzi dì tutela dell’applicazione delle norme, ha escluso il movimento femminista, lasciando la donna, nei cui confronti è stata operata la discriminazione, sola a chiedere la «affermazione del suo diritto che è invece il diritto di tutte le donne.
Nulla ci garantisce oggi l’organizzazione sindacale, a cui il legislatore riconosce la possibilità di promuovere l’azione, in quanto essa fino ad ora è stato sempre un’organizzazione maschile completamente estranea alle nostre esigenze. Infatti è patrimonio di tutte che la nostra condizione non muterà sino a quando l’elaborazione e l’applicazione pratica della legge resterà affidata a soggetti che sono portatori di valori che prevedono la nostra subordinazione e che di fatto ci escludono dalla gestione dei nostri bisogni . Vi aspettiamo tutte il 13 maggio dalle ore 10 al convegno-dibattito sulla legge di parità uomo-donna sul lavoro, in via Santa Maria La Nova, 43 (vecchio provveditorato). Contiamo sulla vostra rabbia e sul vostro contributo.