demografia
non basta dire alt alle nascite
Ramsammy Allameen è una donna hindu di quarant’anni. Vive all’isola Mauritius, dove i suoi sono emigrati anni fa per lavorate nelle piantagioni di canna da zucchero. Ha un marito disoccupato e nove figli (ne ha avuti quattordici, ma cinque sono morti prima dei dieci anni); abitano stipati in due stanzette, che dividono con un’altra famiglia. Per Ramsammy i figli sono l’unica garanzia di sopravvivenza. Come è tipico delle aree di sottosviluppo, essi costituiscono infatti un ‘ investimento , produttivo ‘ perché, oltre a dare una mano in campagna, svolgono tutta una serie di attività marginali (dal trasporto di merci al piccolo furto) che permettono di portare il magro bilancio familiare a livello di sussistenza. Per questa donna fare figli, farne molti è una necessità; la mortalità infantile è altissima nei paesi del Terzo Mondo, per cui avere una ‘riserva’ di bambini diventa un fondamentale margine di sicurezza per la sopravvivenza. Maria C. è una raccoglitrice d’olive delle campagne di Nardo, nel leccese. Ha trentotto anni e otto figli. Quanti figli avrà nel futuro, Maria non può certo dirlo; allarga le braccia e punta il dito sul terreno rosso, sparso di olive — ‘Come le olive’ — dice. Anche per lei, come per Ramsammy, l’avere tanti figli è un corollario della sua condizione di sottosviluppo. Maria e Ramsammy, nel linguaggio delle statistiche, sono le ‘ agenti ‘ dell’esplosione demografica attualmente in corso: i loro figli riempiono il mondo e il mondo trabocca, è un tappeto logoro calpestato da troppi piedi. I demografi ci agitano davanti cifre da capogiro; eravamo un miliardo nel 1830, due miliardi cent’anni dopo, per raggiungere il terzo è bastato un trentennio e il duemila ci vedrà, come è noto, alle soglie dei 7 miliardi. Nel frattempo la fame, una realtà quotidiana per i due terzi dell’umanità, è tutt’altro che vinta, come si sperava ai tempi della ‘rivoluzione verde’. Gli esperti della Fao ammettono che la produzione agricola procapite nei paesi sottosviluppati (quelli con l’indice più alto di natalità) non ha subito variazioni di rilievo dal 1959. Nel 1972, anzi, la produzione agricola mondiale è ‘ sensibilmente diminuita, e le prospettive per il futuro non sono rosee. Aggiungiamo l’esaurimento delle risorse e la distruzione dell’ambiente; non stupisce, dato il quadro finale che se ne ricava, che da più parti si ceda alla tentazione millenaristica, che vengano rispolverate le visioni dell’apocalisse e che si dia per scontata la catastrofe ecologica. I santoni dell’economia, interrogato il computer — sibilla dei nostri tempi — predicano la ‘crescita zero’, cioè l’alt all’accrescimento della popolazione pena la distruzione, ammoniscono, dell’umanità stessa. Nascere è dunque diventato una minaccia alla vita ogni fiocco rosa o azzurro un segnale di pericolo? Molti demografi ed economisti ci assicurano che è proprio così, che è l’esplosione della popolazione la causa prima della crisi che minaccia il mondo, ne ingoia le risorse, divora le riserve di vita dell’umanità. I colpevoli sarebbero dunque, a conti fatti, i figli di tutte le Ramsammy e Marie della terra, che ogni giorno nascono nel mondo. Il grido di ‘alt’ alle nascite viene rivolto soprattutto ai paesi sottosviluppati, dove i tassi di incremento demografico sono elevatissimi. McNamara, lo stesso che ebbe un ruolo determinante nella guerra del Vietnam, ora presidente della Banca Nazionale, spia con occhio ansioso il galoppo delle cifre e invita i paesi del terzo mondo a dichiarare guerra alla cicogna in nome, naturalmente, del benessere dell’umanità intera. Siamo di fronte ai pezzi mischiati di un ‘ puzzle ‘ in cui converrà riportare ordine: dove sistemare in questo gioco d’incastro Ramsammy e McNamara; i 17 bambini nati un minuto fa nei paesi industrializzati e i 129, nati anche essi un minuto fa, ma nei paesi poveri? Cominciamo col chiarire alcuni punti-chiave. Quelli che teorizzano che l’aumento della popolazione è la causa prima della crisi delle risorse che minaccia il futuro della terra, in base alla correlazione ‘ sviluppo-demografico-consumi ‘, tralasciano di operare una distinzione fondamentale: che si nasce cittadini di serie A o di serie B. Un bambino americano, infatti, consuma 50 volte di più di uno indiano; i 17 bambini nati nei paesi ricchi un minuto fa costituiscono un peso ben più grave per la terra, dei 129 cui è toccato in sorte di nascere fuori dal privilegio. I ricchi della terra (circa U 25% della popolazione) divorano il 75% delle risorse: i soli Stati Uniti, con il 6% della popolazione mondiale, ne consumano quasi il 5096! E’ chiaro quindi che la crescita della popolazione è strettamente collegata alla realtà socio-economica dei vari paesi e non può essere collocata in un limbo avulso dai processi storici e politici. E’ sufficiente dare un’occhiata ai diversi tassi di natalità delle regioni italiane (21,4 per mille in Campania, 19,9 in Puglia contro il 12,1 della Liguria e il 13 per mille della Toscana e dell’Emilia) per rendersi conto che i meccanismi di auto-elimitazione delle nascite sono fortemente condizionati da fattori storici. Per arrivare a una vera riduzione della natalità occorre cambiare profondamente la realtà sociale ed economica, avviare cioè una redistribuzione delle ricchezze e delle risorse che permetta ai paesi poveri di raggiungere un livello di vita più umano (e che tenda a sanare all’interno di quelli ricchi gli squilibri tra aree industrializzate e sacche di sottosviluppo). Il prezzo del boom demografico — che pesa soprattutto sulle classi povere — va pagato con l’antica moneta della giustizia sociale, Si tratta di un problema politico che nessun programma di controllo delle nascite, preso a se stante, potrà risolvere. E qui tocchiamo un altro punto-chiave. E’ ovvio che non si può che favorire la diffusione degli anticoncezionali e la pianificazione delle nascite in tutti i paesi. Ogni donna dovrebbe avere diritto d’accesso agli strumenti concreti per un efficace controllo delle nascite. Per la gran maggioranza delle donne del mondo dire ‘maternità responsabile’ non significa nulla, ‘il diritto ad avere figli si traduce nella condanna ad averne. Il problema è che una tale situazione non si risolve semplicemente dando la pillola alle donne indiane e (Papa Paolo permettendo) alle contadine leccesi. E neppure con le trovate tipo ‘razionamento dei figli’, secondo la proposta avanzata dall’economista americano Kenneth Boulding che propugna un ‘ libero commercio di tessere per figli ‘ (così i ricchi potranno pagarsi i figli in più come lusso extra). Idea subito ripresa — e ne hanno parlato tutti i giornali — dal capo del Dipartimento Popolazione della Svezia, Karl Wahren. Va detto per inciso che programmi di questo tipo non sono affatto nuovi nella storia dell’umanità: per esempio la ‘destra’ aristocratica della Grecia classica predicava la limitazione delle nascite; Aristotele, battendo di parecchi secoli il signor Wahren, aveva proposto di regolare per legge il numero dei figli che ciascuna coppia poteva avere. Ma la loro efficacia è sempre stata scarsa e tuttora lo è: in India, ad esempio, solo il 15% della popolazione rurale si avvale dei programmi di riduzione della natalità, così pure nel Pakistan. La propaganda anticoncezionale, per essere veramente utile e non risolversi in un ‘ intervento di rattoppo ‘ non può essere calata dall’alto, decisa da un comitatone di esperti e somministrata forzosamente alla popolazione come una medicina da trangugiare a ogni costo. Soltanto se inserito nel contesto di radicali mutazioni socio-economiche, che favoriscano l’innescarsi dei meccanismi di auto-limitazione della natalità (collegati, come si è detto, al livello di vita) il controllo delle nascite potrà dare risultati determinanti. ‘Dare’ la pillola a una donna pakistana con dieci figli per non far nascere l’undicesimo è una cosa ben diversa dal creare le condizioni grazie alle quali quella stessa donna potrà decidere se essere madre o meno. Le donne devono cessare di essere gli oggetti di una politica demografica decisa sopra le loro teste e sulla loro pelle (per cui un regime chiede ‘tanti figli per lo stato ‘ e l’altro le offre come unico strumento anticoncezionale l’aborto): devono diventarne i soggetti, gestirlo in prima persona, sempre tenendo conto, però, che la maternità non è un fatto privato ma sociale, Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere per le concrete condizioni di miseria e di impotenza in cui si trovano gran parte delle donne nel mondo: per una contadina del Terzo Mondo che lotta per sopravvivere, il discorso della liberazione della donna è lontano come il più remoto dei parenti. Anche la possibilità per la donna di vivere come essere umano completo, al di là di ruoli e schemi, passa per il percorso obbligato di cambiamenti radicali della società. Come insegna l’ecologia, non esistono compartimenti stagni. Nel frattempo, tuttavia, le donne che hanno avuto l’opportunità di prendere coscienza devono contribuire ad individuare e combattere le mistificazioni che il sistema propone a getto continuo, anche in questo campo, e cercare insieme a tutte le forze responsabili le alternative concrete. Non ultimo, è tempo ormai per le donne di affrontare il problema di una nuova ‘ etica della maternità ‘: essere madre non deve essere più concepito come l’unica strada possibile per la realizzazione di sé, la sola dimensione-donna, socialmente accettabile. La donna è (un essere umano che ha un suo valore indipendentemente dal numero di figli che mette al mondo, una dignità di persona che non va misurata sul ritmo della sua fertilità. Da sempre, donna e madre sono sinonimi. La lotta è per un futuro in cui la maternità non sia un vicolo cieco, ma una scelta, in cui essere donna abbia senso al di là di essere, o meno, madre.