separate alla sbarra

quando il tribunale toglie i figli alla madre

febbraio 1974

Un uomo, che da diversi anni aveva stretto una relazione, extraconiugale, «durante una discussione con la moglie le dice apertamente di non volerle più bene» e chiede la separazione. Di fronte all’«ostinato rifiuto della moglie di prendere atto della ormai definitiva rottura del legame sentimentale», si allontana dal domicilio coniugale. Una donna, avendo scoperto di non. essere più «accomunata da ragioni ideali e sentimentali con il marito», e non sentendosi adatta alla «vita domestica e piccolo. borghese da questi offertale», sente il bisogno di «realizzarsi in attività lavorativa d’insegnamento scolastico» e nel nuovo ambiente trova un altro uomo verso il quale sente di avere profondi legami «culturali e ideali», entrambi i coniugi abbandonati portano il loro caso davanti al tribunale, di Pisa il primo e di Biella il secondo, ostinandosi a negare la separazione e esigendo «ben oltre w domanda giudiziaria, una condanna di carattere morale». Le affinità dei due casi, che abbiamo ricostruito dal testo «elle sentenze dei due tribunali, sono evidenti: in entrambi “no dei coniugi decide di rompere il ménage «non per una fuggevole cotta» come rilevano i giudici tanto di Pisa che di Biella ma «per una dichiarata scelta di vita, motivatamente e attendibilmente perseguita». Vi è una sola differenza: nel primo caso il coniuge che se ne va è l’uomo, nel secondo la donna. Vediamo ora come le sentenze motivano le diverse scelte fatte, ricordandoci che l’articolo 29 della nostra costituzione sancisce «l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi».

Il tribunale di Pisa afferma che «non si può far colpa all’imputato di essersi innamorato di un’altra donna e di non nutrire più affetto per la moglie, perché sono fatti che sfuggono al controllo della volontà umana» e riconosce all’imputato «il diritto alla propria vita affettiva, o meglio la libertà di realizzarsi sotto questo profilo», diritto viene precisato che «è tra quelli inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Il tribunale riconosce quindi all’imputato di aver scelto «la soluzione moralmente più sana e più vantaggiosa per tutti i componenti della famiglia, ai quali peraltro ha continuato a fornire la doverosa assistenza materiale». La precisazione non è inutile, si noti, perché essa esclude qualsiasi possibilità che venga tolto all’imputato accusato al processo di freddezza e noncuranza nei confronti delle figlie minori l’esercizio della patria potestà (che può essere tolto quando venga ravvisato un comportamento dannoso nei confronti del minore). Fin qui nulla da eccepire. Ma vediamo invece cosa dice il tribunale dì Biella, chiamato a valutare il secondo caso, quello della moglie che abbandona il ménage coniugale. Dopo aver premesso di non poter «avventurarsi a seguire le teorizzazioni evoluzionistiche azzardate dalla donna a sostegno del suo diritto a realizzarsi» i giudici di Biella affermano che basta loro «rilevare come la donna abbia manifestamente rotto il patto di solidarietà coniugale, patto divenuto tanto più impegnativo e vincolante con la nascita della prole», per pronunciare la separazione per colpa di lei, affidando al padre le figlie. Entrambi i casi sono stati riferiti in un recente convegno tenutosi a Napoli da Francesco Busnelli, professore universitario di diritto privato. Tanto per toglierci ogni dubbio, se ne avessimo avuti, su come le opinioni dei giudici di Biella siano condivise dalla maggioranza degli operatori del diritto, un giurista ha così commentato la sentenza: «Bene ha fatto il Tribunale di Biella a preferire il padre per l’affidamento delle figlie rispetto alla madre»/ E vediamo perché: perché il padre, che viene riconosciuto «non privo di debolezza intellettuali e caratteriali, è rimasto tuttavia perseverante nella propria condotta di vita»; mentre la madre, anche se non ha mai «dato prova di mancanza di affetto verso le figlie», si è però mostrata «intenta al perseguimento del proprio ideale al di fuori della famiglia». In altre parole, è bene che le figlie rimangano con un padre cretino e che intende rimanere tale per ammissione dello stesso tribunale, pur che venga loro evitato l’esempio della madre: una madre che ha «nuove aspirazioni culturali e ideali» («nuove», si badi, cioè prima non le aveva, e il dubbio si insinua: come può una donna pretendere di evolversi e chi le ha messo queste idee in testa?); e che per di più cerca di realizzarle «al di fuori della famiglia» . Dove? addirittura «in una attività lavorativa di insegnamento scolastico», un mestiere intellettuale. Ai giudici biellesi, sconvolti da tanto scandalo, non resta che farsi il segno della croce e sentenziare in conseguenza. Mentre i giuristi ribadiscono (l’ammonimento è implicito): bene hanno fatto.

 

chi tutela i figli?

Non abbiamo scelto maliziosamente due sentenze da contrapporre in modo facile come si potrebbe fare in qualsiasi altro campo fuori del diritto di famiglia. Si possono infatti citare infiniti casi che rivelano questa concezione unilaterale del diritto.

Citiamone uno: un marito, con il pretesto dì un precedente matrimonio celebrato e sciolto all’estero prima che venisse approvata in Italia la legge sul divorzio, chiede la nullità di un secondo matrimonio successivamente contratto in Italia: per cui i figli nati da questo matrimonio, e fino ad ora legittimi a pieno titolo, diventerebbero illegittimi (e come tali aventi diritto ad un tozzo dì pane, invece che al ‘doveroso mantenimento’), ha madre chiede al Giudice tutelare dì Roma l’autorizzazione a far trascrivere in Italia il divorzio del marito affinché sia riconosciuta la validità del proprio matrimonio e sia così conservato ai figli lo stato di legittimità.

Il Giudice tutelare del tribunale di Roma concede l’autorizzazione ma si riserva di nominare un curatore per ì figli. Una madre infatti, quali garanzie dà di poter curare veramente l’interesse dei figli? e in ogni caso come non supporre che dietro l’asserito scopo di conservare il loro stato di legittimità non celi ben altri intendimenti? Si tratta, palesemente, di una ordinanza motivata non solo da sfiducia nella capacità della madre ma anche da diffidenza verso le sue intenzioni. Non si vede infatti perché questa madre, che fra l’altro provvede al mantenimento dei figli, cioè è responsabile di fatto per loro nella vita, non possa esserlo di fronte alla legge.

 

valgono di più tre pecore

I casi che abbiamo riferito non sono soltanto il segno di un orientamento conservatore del singolo magistrato o di pregiudizi sulla condizione della donna. Tendenze conservatrici e pregiudizio trovano infatti un’autorevole sanzione in numerose leggi vigenti, che ampiamente li giustificano se non li promuovono. Uomo e donna non sono uguali né come soggetti di un diritto né quando sono oggetti passivi di una violazione della legge.

L’articolo 522 del codice penale punisce con la reclusione fino a cinque anni chi sequestri «con violenza minaccia o inganno la donna maggiorenne per fine di libidine», Il puro e semplice sequestro di persona (dal quale sia escluso il fine di libidine), è punito con la reclusione fino a otto anni (art. 605 cp). La comprensione del legislatore riguarda chiaramente il ‘ fine di libidine ‘, reato che, guarda caso, nel codice è previsto solo nei confronti di una donna. Tanta longanimità aumenta se il fine di libidine è definitivo, si protrae per tutta la vita, se cioè il ratto diventa ‘a fine di matrimonio’. In questo caso infatti il periodo massimo di pena viene ridotto a tre anni.

Né sembra preoccupare il legislatore il fatto che ‘sequestro a fine di matrimonio’ è in realtà una contraddizione in termini. Evidentemente il legislatore recepisce e legittima tutti i condizionamenti di tipo familiare o sociale che finiscono quasi sempre per costringere la donna rapita a fornire il proprio ‘libero ‘ consenso. Diciamo quasi sempre perché uno dei rarissimi in cui la donna ha rifiutato il consenso, quello di Franca Viola, è apparso tanto raro da finire sulle prime pagine dei giornali, e perfino in un film. Da tutta la serie di ipotesi che riguardano ratti e sequestri è assolutamente esclusa — si noti — quella che un maschio maggiorenne venga «rapito» a fine di libidine o di matrimonio. La legge non ha voluto nemmeno contemplare che una simile eventualità possa verificarsi nel – nostro paese dove dal ratto delle sabine in poi il ruolo della rapita spetta solo alla donna.

Potremmo anche notare per divertirci che per l’abigeato, che è il ratto di pecore in numero però non inferiore a tre, è prevista una pena maggiore di quella sancita per il ratto di una donna. È vero che in questo caso si suppone escluso il fine di libidine.

 

ma la patria potestà è costituzionale?

Q troviamo di fronte adue tipi di violazioni: quella del magistrato rispetto all’applicazione della legge e quella di numerose leggi nei confronti della costituzione. Come si comporta la Corte costituzionale di fronte a tante palesi violazioni?

L’abbiamo domandato a Paolo Barile, professore ordinario di diritto costituzionale all’università di Firenze. Qualcosa, indubbiamente, la Corte ha fatto, e valga come esemplare l’abrogazione decisa nel 1968 della norma che puniva come reato l’adulterio della moglie mentre quello del marito non era considerato reato. Almeno non avremo più sentenze come quella che segue, pronunciata dal Tribunale di Firenze prima della decisione della Corte: «Costituisce ingiuria grave per il marito il comportamento della moglie la quale, pur senza incorrere in adulterio (la sottolineatura è nostra), dia adito a sospetti di infedeltà ovvero faccia apparire il coniuge come tradito: infatti il vincolo coniugale, nel nostro ambiente sociale di popolo latino esige non soltanto l’effettiva fedeltà coniugale ma anche l’apparenza di tale fedeltà».

Spesso però la Corte, il cui compito è quello di garantire il rispetto della legge fondamentale dello Stato, sembra invece propensa a tenere conto di vecchie tradizioni morali e sociali che la costituzione esplicitamente ha inteso eliminare.

Si ritrova pertanto spesso, nelle sentenze della corte costituzionale, dice Gian Paolo Meucci, presidente del tribunale dei minorenni di Firenze, una notevole ambiguità.

Per la Corte, ad esempio, non viola il principio di eguaglianza l’articolo del codice civile secondo cui il vedovo che si risposa continua ad amministrare i beni dei figli, mentre la vedova che si risposa non conserva il diritto all’amministrazione degli stessi beni. La sentenza rivela nella motivazione una certa non insolita ambiguità: l’articolo del codice civile, afferma in sostanza la Corte, non viola il principio di uguaglianza?’ perché la sua scomparsa sottrarrebbe ai minori una garanzia che oggi essi hanno, sia pure limitatamente alla madre. Cioè, lasciano intendere i giudici costituzionali, la garanzia sarebbe maggiore se la norma valesse per madre e padre, ma dato che così non è, lasciamo almeno che valga per la madre, accettando quindi la disparità di trattamento. Fra l’altro, osserva Gian Paolo Meucci, in pratica non avviene mai che la vedova con figli che si risposi dimentichi il bene dei figli, mentre è assai più frequente il caso del vedovo di una certa età che scopre la donna giovane come gerovital e passando a seconde nozze dimentica i propri doveri di padre. Analoga chiusura manifesta la Corte nel caso di figli naturali riconosciuti da entrambi i genitori. Trascurando il fatto che normalmente questi convivono con la madre, e in molti casi — come ben sanno le ragazze madri — privi di assistenza economica da parte del padre, la Corte costituzionale ha ritenuto giusto attribuire al padre i diritti derivanti dalla patria potestà. Vediamo con quale motivazione: la patria potestà non è soltanto un diritto, afferma la Corte, ma un potere da esercitarsi nell’interesse del figlio per cui, anche nella famiglia legittima, la legge ne attribuisce di regola l’esercizio al padre.

Il ragionamento della Corte, dice Paolo Barile, prova se mai l’opposto: ammesso che nella”famiglia legittima sia da ritenere giusta l’attribuzione dell’esercizio della patria potestà al padre, qui si tratta di una non-famiglia, cioè di genitori naturali che normalmente non convivono tra loro. Infatti, aggiunge Barile, solo la convivenza potrebbe se mai limitatamente giustificare quella che è una palese violazione della Costituzione e cioè l’aver affidato l’esercizio della patria potestà al solo padre.

Questa attribuzione esclusiva crea una situazione di privilegio nei confronti del padre anche nel caso di sottrazione dei figli minori. L’articolo 574 del codice penale, mettendo in posizione diversa il genitore esercente la patria potestà, rispetto all’altro coniuge, esclude che il marito possa rendersi colpevole di questo reato se sottrae i figli alla moglie, mentre la madre viene considerata colpevole se è lei a sottrarre i figli al marito. Anche in questo caso la Corte non ha ritenuto fondata l’eccezione di incostituzionalità. A 25 anni dall’approvazione della legge fondamentale dello Stato, palesi inconseguenze vengono avallate non solo dal singolo magistrato o dalla singola disposizione di legge ma perfino in sede di Corte costituzionale dove tutti i dubbi dovrebbero essere sciolti: un segno evidente della massiccia resistenza opposta da tutto il corpo giuridico italiano contro ogni innovazione che incida in modo sostanziale sui rapporti sociali e familiari.