aborto bianco, violenza di classe
La caratteristica dominante della nuova proposta di legge sull’aborto è la ipocrisia: è ipocrita perché vuol far credere di rispondere alle esigenze delle donne soprattutto di quelle più bisognose, ipocrita perché si dichiara per la tutela e la protezione dell’infanzia e della maternità e poi ignora totalmente il dramma di quelle lavoratrici che, costrette a lavori troppo gravosi, abortiscono «spontaneamente». Nel 1971 a Milano si è tenuto un convegno su «La salute in fabbrica» in cui è stato rilevato che negli ultimi 12 anni c’è stato un incremento delle malattie collegate alla gravidanza, al parto, ai primi anni dell’infanzia e che gli aborti spontanei tra le lavoratrici sono in aumento. Alcuni dati forniti dallo INAIVI, relativi alle lavoratrici assicurate da loro, confermano l’incremento dei casi d’aborto o minaccia d’aborto che passano dal 3% per gli anni ’64-’66 al 3,39% per il ’68-70. La sessualità e la procreazione sono considerati problemi personali e riservati, quindi da un lato non si sono fatte inchieste accurate, dall’altro le lavoratrici non sono disposte a parlare liberamente di questi problemi. La funzione tutta particolare della donna di riproduttrice di forza-lavoro appartiene, per questa società, alla sfera del privato; i problemi delle donne vengono considerati secondari rispetto a quelli sociali e politici ben più importanti; le esigenze delle lavoratrici vengono spesso mescolate a quelle maschili, dimenticando proprio la particolarità d’essere DONNE e lavoratrici.
La legge per la tutela della lavoratrice madre non garantisce la salute né della donna, né del bambino. I mesi più delicati e quindi più esposti a malformazioni fetali, aborti, parti prematuri sono i primi quattro. La legge invece prevede l’assenza obbligatoria dal lavoro dal sesto o dal settimo mese. Alla Magneti Marelli, da un’indagine condotta sull’ambiente lavorativo, è venuto fuori che il 30% delle lavoratrici avrebbe avuto «interruzioni spontanee della gravidanza». In un reparto di un’azienda della zona di Vimercate su 26 donne che hanno dichiarato di aver abortito, una ventina, cioè il 73% hanno avuto aborti spontanei. Seicentoventinove donne impiegate all’ospedale Cerletti di Parabiago, la Henkel, la Bayer, la Borletti e la Carlo Erba hanno risposto a un questionario della CGIL CISL UIL. Alla domanda se esiste un servizio di ostetricia e ginecologia nell’ambiente di lavoro, la maggioranza ha risposto negativamente. Alla domanda se avevano mai interrotto la gravidanza, 63 hanno risposto affermativamente, 198 negativamente, per interruzione spontanea 54 sì, 36 no; 70 hanno risposto di aver avuto minacce d’aborto, 128 no, riguardo ai parti prematuri, 29 sì, 91 no, a malformazioni 39 sì, 34 no. La legge per la tutela della lavoratrice madre prevede, inoltre, l’assenza obbligatoria per i primi tre mesi dopo il parto ed è concessa l’assenza facoltativa per altri sei mesi non retributivi.
Quando una lavoratrice torna al lavoro, la donna che è stata assunta in sua sostituzione, deve andar via, mantenendo così in piedi un’altra forma di discriminazione. Più spesso invece di riprendere il suo lavoro, viene relegata in settori meno qualificati ed è continuamente soggetta a spostamenti con la scusa che è più frequentemente assente dal lavoro a causa dei figli. Risulta che a «parità di condizioni di lavoro» le donne si ammalano più spesso degli uomini. In realtà questa parità di lavoro non esiste né in fabbrica né tanto meno in famiglia dove la donna è costretta ad un lavoro altrettanto faticoso, quello casalingo. Le lavoratrici in Italia sono circa 5 milioni su 26 milioni e mezzo di donne. La maggioranza è impegnata in settori
considerati femminili (nei servizi, come telefoniste, infermieri, commesse; nell’industria assunte in fabbriche tessili e di abbigliamento). Questi lavori in realtà non agevolano la donna, ma le riconfermano valori femminili, la relegano in settori con poche possibilità di carriera, precari e dequalificati, inquadrandola sempre nel suo ruolo ben più importante di madre e moglie. I soli dati esistenti sulla nocività del lavoro sono quelli registrati nelle fabbriche. Non si hanno dati sugli aborti bianchi, minaccia d’aborto, parti prematuri, fra le altre lavoratrici, come le infermiere, le commesse, le telefoniste e le casalinghe.
Le sostanze chimiche nocive usate nell’industria e nell’agricoltura sono numerosissime, alcune completamente sconosciute, perché nascoste sotto il comodo «segreto industriale». Alcune di loro come il piombo (usato nell’industria della ceramica, in molti reparti di verniciatura dove vengono utilizzati smalti e colori a piombo e nei reparti di saldatura) è causa frequente di aborti (alla Voxson a Roma è stato denunciato il caso di un’operaia che aveva la placenta decomposta e sottoposta ad analisi è risultata intossicata da piombo) di bambini nati morti, ed è capace di mutamenti cromosomici sia sugli adulti che sul feto. Il benzolo (esistente nelle miscele per colle, mastici e solventi utilizzati, per esempio, nell’industria calzaturiera e delle pelletterie) lede, come il piombo, il midollo osseo, provocando anemie e leucemie.
Dopo la legge che proibisce la presenza del benzolo nelle miscele, superiore al 2%, sono state adottate altre sostanze altrettanto tossiche come il TOCP per i plastificati e ESONO per i solventi. Queste sostanze creano una grave malattia neurologica che inizia con formicolii, facile stancabilità muscolare e crampi e, negli stati più avanzati,
porta alla paralisi degli arti. Anche il rumore, caratteristico dei reparti di filatura e tessitura e nelle centrali telefoniche, è causa delle frequenti riduzioni dell’udito. Il rumore, isolando le lavoratrici fra loro, crea tensione nervosa che può sfociare in nevrosi, ulcere, alterazioni cardiocircolatorie. La temperatura e i vapori possono provocare collassi cardiocircolatori e reumatismi, le polveri irritazioni croniche delle vie respiratorie e malattie polmonari.
Le operaie incinte possono chiedere di essere spostate in reparti meno nocivi, la legge prevede che per sette mesi dopo il parto la donna non deve fare lavori gravosi. In realtà nei reparti meno nocivi non c’è mai posto, perché sono sempre pieni di lavoratrici malate. Ad una operaia della Siemens che chiedeva insistentemente di essere spostata in un altro reparto, è stato risposto che «alla Siemens non si fanno bambini, ma telefoni». L’Italia, paese dove la maternità e l’infanzia vengono esaltate, detiene il primato, dopo il Portogallo, per la mortalità infantile. Le strutture sanitarie, l’assistenza sociale sono insufficienti. Gli asili nido inesistenti, i pochi che esistono sono a pagamento e sono aperti solo pochissime ore al giorno, non agevolando così per niente le lavoratrici. C’è una forte tendenza a non assumere le donne sposate per paura che restino incinte. Molte donne decidono di procurarsi un aborto perché non possono permettersi di rinunciare al lavoro. Un dirigente di una fabbrica ha dichiarato in un’intervista: «Quando le operaie chiedono un anticipo, spesso è perché hanno bisogno di soldi per pagarsi un aborto. Io glieli anticipo sempre. Mi costerebbe molto di più pagare i contributi per la maternità.