come è nato un libro femminista

gennaio 1976

Il «Gruppo per l’espressione della donna» è composto da dieci, quindici donne che hanno cominciato a lavorare insieme nell’autunno 1974. Inizialmente eravamo uno dei tanti piccoli gruppi di autocoscienza; con l’andar del tempo abbiamo delineato uri progetto comune da realizzare: scoprire e tentare di mettere in atto nuovi modi di espressione.

«Perché non i fiori» è il libro in cui i disegni occupano uno spazio determinante rispetto alla parola scritta e sono stati utilizzati da noi per comunicare al nostro interno e alle altre donne i problemi che ci accomunano in una unica condizione.

Per noi è stato veramente importante riuscire ad esprimerci attraverso una pratica collettiva senza competizione, senza tener conto delle categorie «bello» e «brutto» imposte dalla società per tutti quei prodotti considerati «espressioni creative». Perché questo titolo: il fiore è un tipico simbolo del «femminile». «Bella e gentile come un fiore, pura come un giglio»… ecc.

Ma questa è una favola, una mistificazione che ha costretto la donna ad assumere un ruolo falso e sottomesso. Non vogliamo più accettare questa favola, vogliamo distruggere quest’immagine e conquistare un nostro modo autonomo di espressione che ci rappresenti veramente nella nostra realtà.

 

i disegni sono stati disegnati
le parole sono state tutte scritte
le trattative con l’editore più o meno
felicemente concluse
le discussioni fatte
ed eccolo lì,
il libro, il prodotto finito.
Bello, ben riuscito, accidenti manca
l’indice! ci siamo fatte capire?
servirà a qualcosa?
un po’ di paura un po’ di orgoglio.
Ora non si può che aspettare
ricordi di autocoscienza, teorizzazioni, decisioni, DIVERTIMENTO, editore, stampa, prezzo, tipografia ecco, in mezzo a tanti discorsi, sforzi, problemi mi ricordo soprattutto del divertimento che è stato per me fare questo fumetto: disegnare insieme alle altre, scoprire cose che non ci eravamo mai dette, ridere, esprimerci senza pistole puntate addosso, creare, essere libere un po’, passarsi i disegni man mano che venivano fuori, commentarli, lavorare, insomma divertirsi.

L’aver fatto dei disegni è stato per me molto importante, perché mi ha permesso di lavorare insieme alle donne in un modo diverso. In un modo che andasse al di là delle solite classificazioni, cioè delle «brave» e delle «meno brave», di quelle che parlano e di quelle che stanno zitte. Io sono sempre stata dalla parte delle meno brave, perché non sono capace di impormi verbalmente e di dire delle cose che possono essere giudicate interessanti. Quindi, dopo le riunioni mi sentivo sempre frustrata, in colpa, perché non avevo parlato. Ora, per la prima volta non ho provato competizione con le altre, non m’importa che i miei disegni siano più «brutti» e più infantili di altri. Confronti, invece, che faccio tra il mio modo di parlare caotico e quello delle altre, più sciolto e più elegante.

È difficile raccontare come è nato questo libro, mi sembra di avere mille cose da dire e di non riuscire a metterle insieme.

La prima cosa che mi viene in mente è che guardando il libro, mi sembra quasi di non riconoscerlo, ho la sensazione che i disegni, le cose che ci sono dentro, siano una minima parte dell’esperienza che abbiamo vissuto, è come se fosse un «formato ridotto»di qualcosa molto più grande, più ricco, più complesso.

Certo, dire questo è come dire che il libro non esprime poi molto, che il suo è un linguaggio limitato, che alla fine non ci riconosciamo poi tanto in queste pagine stampate. E invece non è mica vero perché i disegni e le parole sono proprio nostri, sono stati espressi da noi con fatica e con gioia anche; e allora, mi metto a fare la disfattista? A distruggere tutto? Ecco no, non voglio proprio distruggere, sto solo cercando di spiegare, anche a me stessa, che cosa c’è dietro questo libro, che significato ha avuto per me prendere in mano la matita e disegnare le cose che le altre dicevano e che io dicevo alle altre.

All’inizio non avevo le idee chiare, sapevo solo che ero entrata nel gruppo perché cercavamo di trovare un mezzo di comunicazione diverso dalla parola. La PAROLA, quest’impresa che per me è sempre stata difficilissima, sinonimo di paure, incertezze, qualcosa che doveva essere ben strutturato, ben articolato, coi soggetti e i predicati al posto giusto, i concetti essenziali, i pensieri collegati fra loro. Così era a scuola, ci chiedevano di parlare un «buon italiano», e così si creavano i pierini primi della classe e gli emarginati degli ultimi banchi. Io son sempre stata una pierina un po’ a metà, cercavo di adeguarmi al «bel parlare», ma non ne facevo una cosa mia, era uno strumento da usare per sopravvivere che però non era mio, non volevo fosse mio, e difatti imparavo tutto a memoria, ripetevo parola per parola quello che i libri dicevano. Gli ultimi anni di scuola forse mi sono evoluta un pochino, cominciavo a usare delle parole mie, anche se prima di dirle me le ripetevo sempre da sola, ad alta voce, per essere sicura che fossero quelle giuste.

Insomma la «parola culturale» è stata proprio un disastro, non me ne sono liberata neanche ora, e così pure la «parola spontanea», quella con cui dici quello che senti, quello che vuoi, quello che vivi; sì perché il luogo dove cominci a usarla questa parola, è la famiglia dove vivi e lì le cose per me erano ancora più complicate: volevo assomigliare a mio padre che non parlava mai, stavo zitta come stava zitto lui, mentre mia madre parlava, non sempre però, quando ubbidiva stava zitta anche lei.

Non so bene cosa sia successo tra me e la parola, so che l’ho rifiutata un po’ per imitare mio padre, un po’ per protesta contro mia madre che mi faceva pesare il mio essere silenziosa: «è proprio come suo padre, non parla mai!». C’era il doppio comando in quelle parole, c’era il compiacimento per la bambina dolce, tranquilla, ubbidiente, e c’era l’accusa a questa bambina dolce, tranquilla, ubbidiente, di essere uguale a LUI, di tenere per sé i propri pensieri, di non parlare. ELOGIO-ACCUSA, sì era proprio così, e non so perché io mi sia bloccata proprio sulla parola; forse con la parola esprimevo il mio corpo e questo mi faceva paura, può darsi.

Nemmeno lo stare fra donne mi ha fatto superare il silenzio, ed è stato per questo che ho cercato delle donneche avessero il mio stesso problema, per ragioni diverse dalle mie, ma con lo stesso obiettivo: volevamo riuscire a esprimerci.

Il gruppo mi ha aiutata moltissimo perché sono riuscita a comunicare alle altre delle cose mie e loro usando il disegno; vedere che loro mi capivano e che io capivo loro, mi ha fatto acquistare fiducia, sono riuscita man mano che andavamo avanti a fare dei disegni un po’ più complessi, un po’ più completi e sono riuscita anche insieme a loro, a usare la parola senza tutti i tabù e le censure che ho sempre usato. Non sono diventata una gran parlatrice, ma un po’ di difficoltà credo di averle superate, e questa per me è stata una conquista importantissima. Un’altra cosa bella è che sono riuscita a mettere insieme dei segni grafici comprensibili; per me che non sono mai stata capace di disegnare, è stata un’altra grandissima conquista. Quando ero all’asilo mi ricordo che cedevo la mia razione di pasta asciutta (mio grande amore) a un’altra bambina, in cambio di un disegno: lei mangiava doppia razione, io saltavo il pasto, ma riuscivo a presentare alla maestra un foglio con dei disegni veri, non coi segni stranissimi e disarticolati che facevo io.

Ecco, adesso i disegni li so fare anch’io, e forse sto anche imparando a parlare, senza chiedere che siano sempre le altre a farlo per me: gli spaghetti me li mangio io.

Ho sentito il bisogno di esprimermi in un modo nuovo assieme ad altre donne perché sia nei miei rapporti privati, famiglia, coppia, amicizia, sia nel lavoro, ho incontrato la quasi assoluta impossibilità di esprimere qualcosa di me. Nel privato il ruolo femminile lo vivo come una imposizione soffocante ad ogni mia espressione, una negazione della mia stessa esistenza come donna; nel ‘lavoro non vedo proprio che cosa si possa esprimere di sé entro le leggi schiaccianti della produzione e della competitività.

Disegnare e parlare con altre donne per me ha significato aprire un varco in questa negazione di me e di ogni mia espressione.

Disegnare era un modo di comunicare le une con le altre al di fuori degli schemi precostituiti del linguaggio parlato, ed era anche un modo per far sì che quello che ci comunicavamo e scoprivamo insieme non restasse soltanto per noi, come avviene con le parole, ma lasciasse un «segno» che potesse anche essere trasmesso fuori del gruppo, alle altre donne. I disegni erano proprio questo: segni visibili dell’esperienza nuova che ciascuna andava compiendo nel rapporto che si instaurava con le altre donne del gruppo.

Avevo la sensazione che la possibilità di essere creative, di esternare nei disegni le cose, si liberasse da quel modo diverso di stare insieme tra donne, perché non c’erano ruoli obbligati, né divisione del lavoro, né obiettivi precostituiti quando -si disegnava insieme. Io non avevo mai pensato prima di disegnare, e in effetti non sapevo bene come si potesse disegnare una donnina di profilo o un tavolo che si capisse che era un tavolo.

Ma anche per alcune altre era così, e ho capito che non aveva importanza. Ho disegnato a modo mio, quando ne avevo voglia, e quando non mi riusciva parlavo, oppure ascoltavo le altre parlare.

Una non faceva in tempo a finire un disegno, che le altre volevano subito vederlo, con gioia e curiosità, non per criticare e neppure per adularci a vicenda, ma solo perché eravamo molto contente che le cose venissero fuori finalmente dal di dentro di noi, e si potessero manifestare nei disegni. Data la diversità di livello tra quelle che avevano già esperienza di disegno e quelle che non l’avevano, e inoltre la diversità di stile, di mano, non capivamo bene come poi si potessero mettere insieme quei disegni, tanto più che anche il contenuto dei disegni era diverso, perché spesso, anche se non sempre, ciascuna nei disegni metteva le proprie esperienze personali, la propria storia.

Invece ad un certo punto abbiamo provato a riunirli tutti insieme e a suddividerli negli argomenti che risultano più ricorrenti e abbiamo visto che cominciava a prendere forma qualcosa di unitario, non di compiuto e tanto meno di completo, ma un discorso continuo, come se ci fosse un filo comune che li legava.

Io credo che questo filo nascesse dalla esperienza collettiva che si era andata maturando nel gruppo, dal fatto che eravamo riuscite a comunicarci i nostri vissuti personali, scoprendo poco a poco i collegamenti, le analogie dall’una all’altra, mettendo in luce così un tessuto di esperienza e di sofferenza comune di donne, pur nelle diversità individuali, di storia, di età, di condizione. Così è venuto fuori il libro e abbiamo pensato di pubblicarlo, perché l’idea di rivolgerci all’esterno del gruppo, di stabilire in qualche modo attraverso i disegni un contatto con le altre donne, l’avevamo fin dall’inizio come esigenza, anche se non sapevamo bene come e se l’avremmo realizzata. Una cosa è stata per me molto importante, senza la quale non avrei mai potuto disegnare assieme alle altre, averne voglia e credere in ciò che facevo: il fatto che non si trattasse mai di lavorare per una finalità precostituita al di sopra di me, per un libro come «prodotto» insomma, seguendo una logica di lavoro e di organizzazione del lavoro meccanica ed esterna a me. Io credo che se i prodotti culturali che ci vengono somministrati dall’industria culturale, libri, film, spettacoli, mostre, sono così passivizzanti e mistificatori, ciò accade perché essi vengono creati seguendo l’identico modo di produzione di qualsiasi altro prodotto, cioè la produzione fine a se stessa ed imposta dall’alto, dove la legge del profitto e della «economicità» della produzione pianifica i contenuti culturali a tavolino, secondo programmi precostituiti, dove i destinatari del prodotto vengono considerati solo come consumatori, coloro che a tutti i costi dovranno acquistare la «cultura», oggetti da identificare per indottrinarli, strumentalizzare i loro bisogni, imporgli le direttive di una cultura che serve e perpetua il potere, sfruttare le loro frustrazioni e sofferenze; in ogni caso e sempre oggetti da passivizzare.

Pensavo: la cosa più emozionante sarà vedere il libro stampato, tenerlo in mano, toccarlo, insomma. Pensavo: la cosa più bella sarà sapere che il nostro «messaggio» è fra le mani, sotto gli occhi di tante donne sconosciute, apparentemente così diverse da noi e invece così simili. Pensavo: la cosa più triste sarà non poter conoscere le sensazioni e le opinioni delle donne che ci leggono, perché un libro è un lavoro che, una volta dato all’editore e poi al pubblico, non è più nostro, è lontano, concluso. Invece, adesso che il libro è in vendita e che tante donne, con nostro grande stupore, ci telefonano, ci vogliono parlare perché si identificano nei nostri disegni, nelle nostre frasi, devo dire che la cosa più emozionante è il poter rivivere insieme a loro tutta la nostra esperienza di gruppo. E fa parte dell’esperienza di «fare il libro» anche questo momento di comunicazione con donne di ogni età, classe, cultura; donne che non si dichiarano femministe, ma che si scoprono «DONNE» leggendo il libro; donne che vedono d’un tratto il movimento con altri occhi, come una cosa pratica, necessaria, autentica di cui possono, devono far parte anche loro insieme ad altre (proprio come è successo a noi) e non più con quell’immagine distorta che anche la stampa cosiddetta femminile contribuisce a dare. Mi hanno detto: «Mi sono ritrovata in tutti i disegni. Guardando alcuni mi è venuto da piangere. Ma se le femministe sono come voi, allora sono femminista anch’io».

E ancora: «Mi sono sentita una donna. Completa di miserie e di forza, di dolore e di voglia di ribellarmici, e non da sola. Ma se sono una donna come lo siete voi, e voi non siete delle fanatiche un po’ matte come dicono, allora non ho più paura delle femministe». E nella grande, lunga esperienza che è stata per me il libro, questa è l’inaspettata, emozionante esperienza che sto vivendo ora. Che non è l’ingenua gioia del «successo» di una piccola iniziativa, ma la sensazione tangibile di quanto sia necessario e importante gettare dei ponti, accorciare le distanze tra le donne del movimento e tutte le altre donne.