due o tre cose sulle donne insegnanti

gennaio 1976

Siamo presenti ai corsi abilitanti come potremmo esserlo sui banchi di scuola. Alle buone bambine di una volta manca il grembiulino, ma ci chiedono sempre la stessa cosa. Le miti femminucce staranno zitte e disciplinate, seguiranno la parola dei «grandi» ed impareranno senza discutere. In premio, invece della bella pagella azzurrina ci sarà l’immissione nei ruoli, per le giudiziose, per quelle che si saranno comportate bene. Accanto a noi, come per caso, qualche raro uomo tenta di imitare la nostra meticolosa attenzione. Ma ci riesce male, si vede bene che non è abituato, che si sente schiacciato da questa maggioranza di formiche operose. Ma noi, le formiche operose, ritornate dietro i banchi di scuola, ci siamo mai chieste perché siamo tante? E’ una nostra vittoria o un’ennesima sconfitta del nostro vasto repertorio? Ci siamo mai chieste che cosa significa la nostra presenza nel santuario della istruzione pubblica? Forse si, ma raramente, in modo isolato, frammentario, tra un intervallo e l’altro, come affrettata constatazione in quel vuoto parcheggio estraniante che è la sala dei professori. Poi siamo scappate verso casa, senza pensarci più, portandoci dietro malumori poco chiari a noi stesse, insoddisfazioni che si appuntano generalmente in modo ottuso sui ragazzini: «Quanto ci fanno disperare!». Le nostre possibilità di comunicazione si fermano lì. Siamo delle isolate, in questo continuo va e vieni che ci porta da casa a scuola. Una spola che spesso perde ogni senso per noi, il vuoto di un’operazione divenuta puro meccanismo, sulla quale non siamo neanche capaci di riflettere insieme. Se ci mettiamo a riflettere un poco invece, vengono fuori delle cose. Viene fuori, per esempio, che l’insegnamento è considerato attualmente un lavoro «squisitamente»femminile. Come mai? Noi, le donne, le formichine, capaci al massimo di apprendere un certo numero di cose, possiamo, siamo in grado di trasmettere il nostro sapere agli altri, ai futuri uomini? La cosa ci lascia un po’ perplesse e ci insospettisce. Eppure, noi ricordiamo che quando manifestammo l’intenzione di continuare gli studi, la parola «maestra», «professoressa» era dentro di noi, confermata fuori di noi da padri, madri, fratelli, parenti e professori tutti. Nessuno ci prospettò altre professioni, o, se accadde, accadde rare volte. Qualcuna di noi disse «giornalista, architetto, ingegnere, avvocato», e restò un pio desiderio. Ma, guarda un po’ ci ritrovammo per la maggior parte insieme alle altre; e dove? A scuola! Siccome non crediamo alle vocazioni univoche, alle voci misteriose che ci chiamano come missionarie, ci diciamo che sotto sotto ci devono essere ragioni più precise. E, infatti, se invece della astrattezza delle vocazioni prendiamo in considerazione le leggi del mercato del lavoro, chiariamo immediatamente l’enigma. Tu, donna, sarai insegnante. Perché? Perché la scuola di «massa», quella fatta apposta per la preparazione sommaria dei futuri operai, ha bisogno di personale scarsamente qualificato, da pagare il minimo possibile. Niente di più naturale che attingere questo personale nei tradizionali serbatoi costituiti, per il capitatalismo moderno, dalla forza-lavoro femminile. Ancora una volta si mistifica, si inchioda la donna alle sue doti «naturali» : la donna madre é la donna-insegnante. Non sembra trattarsi tanto di una scelta naturale quanto di un destino biologico, che prende corpo in un irrefrenabile impulso al quale le donne sembrano non poter resistere. Spinte da questo irrefrenabile impulso, insegnano quasi come partoriscono. La legge di mercato che sta dietro questa vocazione, il fatto che per esempio, se l’offerta supera la domanda, la donna perde subito, come d’incanto, questa vocazione , (o nel caso contrario, come durante le guerre, ne acquista addirittura altre come quella del tramviere,

postino, ecc.. e se ne ritorna a casa a nutrire la «forza lavoro», mariti e figli) viene accuratamente taciuta. Noi donne, facili da accontentare, ci siamo accontentate subito. E ci siamo calate subito nel ruolo, senza neanche pensarci su. Di bocca buona, come sempre abbiamo trovato immediatamente i lati positivi. E’ il lavoro per noi, non c’è che dire. Poche ore e poi a casa ad occuparci dei bambini. «Quello che ci vuole per una donna sposata». Abbiamo considerato privilegiato il nostro lavoro perché ci consentiva di starcene di più in casa, perché non poteva essere assimilato ad un vero e proprio lavoro. Pensavamo di aver risolto così la contraddizione lavoro-famiglia, aiutate dall’esiguo numero di ore di presenza, proiettandoci interamente nel nostro ruolo casalingo.

Anche il problema che tutte le donne debbono affrontare penosamente, quello della mancanza di strutture di servizio (come gli asili) poteva essere per noi privilegiate secondaria. Il poter lavorare meno ore a scuola (dandoci il privilegio di fare il nostro quotidiano lavoro casalingo non pagato) ci ha quindi di fatto chiuse in una dimensione privatistica che ci ha impedito di vedere la nostra condizione di lavoratrici accanto a quella di tutte le altre lavoratrici. E proprio attraverso la scarsa coscienza di lavoratrici che ci distingue, proprio attraverso questa inessenzialità che abbiamo vissuto e viviamo come insegnanti collocando altrove, nella famiglia, la nostra attenzione e i valori essenziali, possono passare incontestati il nostro sfruttamento e la nostra strumentalizzazione. E adesso, con la scusa della qualificazione (e sappiamo tutte che é perché siamo troppe e vogliono eliminarci che ci sottopongono a quest’esame) ci vediamo ritorcere contro tutta l’ ingnoranza che ci hanno somministrato per anni. «Tu, donna, sei men che niente, devi essere la tal cosa e la tal altra; e tutto questo, beninteso, devi tirarlo fuori da te, con qualche corsetto supplementare impartito dai soliti saccenti ignoranti, quelli veri). Le povere ignoranti ‘(quelle che si ritengono tali) non osano neanche discutere la loro ignoranza. E’ un dato di fatto. Lavoro di ripiego, lavoro tappabuchi, lavoro missionario, si tratta sempre di un lavoro sui generis, e sempre, constantemente avulso da un rapporto concreto con le altre attività della nostra vita e in genere, con la realtà. In questa mancanza di presa di coscienza, in questa assenza di capacità critica che coinvolge noi stesse come

lavoratrici e come donne, estraniandoci completamente dalle strutture in cui siamo obbligate ad operare, è facile mantenerci in uno stato di insicurezza psicologica e professionale, in un eterno stato di inferiorità. In questo quadro , la famosa didattica, che adesso ci viene richiesta come un dovere personale, è il nostro pane quotidiano di terrorismo, cui rispondiamo istintivamente, lamentandoci di tutto e di tutti, ma con ambiguità e sensi di colpa che ci rendono deboli e disunite. Ma, prima ancora che in quanto insegnanti, in quanto donne che non sanno mettere in discussione il ruolo che il sistema ci assegna a diversi livelli, in famiglia, a scuola, nella società. Non a caso la donna, che in famiglia è inchiodata al suo destino biologico di procreatrice e allevatrice di prole, a scuola è riconfermata nella sua missione «naturale» come trasmettitrice passiva dei valori che il sistema ha bisogno di inculcare per la sua conservazione. Tu, donna, così nella famiglia come nella scuola insegnerai l’obbedienza, il rispetto, l’osservanza del costituito, il timore, l’odio per tutto quanto si allontana dagli schemi accettati dalla società che ti strumentalizza per .avere degli esseri docili e integrati.

Il modello paternalistico della famiglia entra nella scuola col suo principio di autorità e impone all’individuo i suoi modelli, grazie a noi, inchiodate alla nostra missione di madri-educatrici. L’autoritarismo nella scuola, e la società autoritaria in genere poggiano sulla distinzione in due ruoli ben precisi: da una parte l’autorità, la guida, ecc.; dall’altra l’obbedienza, la passività, la saggezza casalinga (e tutti i valori annessi: essere bene educati, non rispondere male, portare il grembiulino, ecc.) Questi ruoli, il bambino li apprende in casa, nella famiglia e gli vengono poi riproposti a scuola perché se li ficchi bene nel cervello e dica sempre di si, e li riproponga a sua volta ai suoi figli. Famiglia e scuola diventano delle trappole per la conservazione dell’ordine costituito. Noi, in quanto donne, siamo le più adatte a trasmettere questi valori di conservazione: il principio del padre domina la nostra vita e gli obbediamo senza discutere. Il Padre non ci abbandona mai: crediamo di aver raggiunto una certa emancipazione, di essere diventate grandi e responsabili perchè abbiamo trovato un lavoro e abbiamo lasciato la famiglia paterna; e invece ritroviamo di nuovo il padre-autorità in un marito a casa e nel padrone nei nostri rapporti di lavoro .E poiché li subiamo dalla nascita, troviamo più naturale degli uomini questa oppressione: perché non sappiamo vederci come esseri autonomi e viviamo all’ombra dell’autorità, chiedendole protezione e sicurezza. Finché accetteremo di non vivere per noi stesse, delegando ad altri, agli uomini e all’istruzione autoritaria, la nostra identità, subendo la strumentalizzazione che fa di noi madri-educatrici, le mediatrici della violenza, non supereremo l’isolamento tra di noi e tra noi e le altre donne e rimanderemo all’infinito la soluzione dei nostri problemi e quelli della scuola in generale. Nessun mutamento potrà avvenire nella scuola come nella società, se non supereremo l’isolamento e non metteremo in discussione i principi di autoritarismo, sopraffazione, obbedienza di cui siamo state volute portatrici.