emarginate tre volte
La lotta delle donne non è un sussulto momentaneo, un fatto accidentale, ma un risveglio di portata storica: lo confermano non soltanto episodi clamorosi come la manifestazione del 6 dicembre a Roma, ma l’intreccio più sommesso e spesso oscuro delle «piccole cose quotidiane», scardinato dalla forza dirompente della ribellione delle donne. Ribellione che tocca ormai anche, i «territori del silenzio», le isole immobili dell’emarginazione in cui il sistema imprigiona le «devianti». Parlo degli istituti psichiatrici, delle «case» per handicappati, delle scuole speciali: «mucchi di spazzatura»in cui il sistema butta gli individui non funzionali al profitto. In questo articolo Effe si occupa in particolare delle non vedenti perché stanno in questo momento conducendo una battaglia sindacale di grosso rilievo, ma il discorso è valido per tutte le donne handicappate, emarginate tre volte (come donne, come proletarie e come «subnormali»). Ho saputo della lotta delle donne cieche attraverso un amico sindacalista: della situazione dei non vedenti conoscevo poco, come la maggior parte di noi. A frugare nella memoria venivano a galla ricordi incerti: un cieco con occhiali neri e cane guida, intravisto a un incrocio, il solito cieco (vero o falso) con fisarmonica e piattino dell’elemosina e così via. Insomma il cieco dell’abituale pietistica’ iconografia, personaggio da corte dei miracoli. In quanto alle cieche, chi le aveva mai viste? Riflettendoci, non ne avevo mai incontrata una.
Da un rapido sondaggio tra amici e conoscenti saltò fuori che in effetti ciechi sì, qualche volta, ma cieche no, non ne avevano mai viste. Sono andata così all’UIC (Unione Ciechi Italiani) di Roma in stato di totale ignoranza, portandomi appresso, come tutto bagaglio culturale, le rimembranze sopra accennate. All’UIC ho cominciato col chiedere i fatti. Ho saputo che i non vedenti in Italia sono 80.000 circa ma che solo pochissimi lavorano e in settori obbligati (4000 centralinisti, 600 massaggiatori, qualche centinaia di insegnanti) e che il rapporto uomo-donna, al solito, è a tutto svantaggio di quest’ultima (1 lavoratrice ogni 4 lavoratori). Le non vedenti, mi è stato detto, sono occupate anche in calzaturifici e maglifici (specie nella zona di Firenze, dove la percentuale di lavoratrici cieche nelle fabbriche è del 5%). Ho saputo che l’UIC è un grosso carrozzone assistenziale (con tutti gli sprechi e gli imbrogli che questo tipo di cose presenta in Italia, e che da vari mesi è contestato da un gruppo di non vedenti disoccupati in lotta insieme ai lavoratori stessi dell’ente. Questo comitato disoccupati ciechi è riuscito a ottenere dalla regione, lo scorso ottobre, un corso per centralinisti a cui partecipano una sessantina di non vedenti; sta tentando di autogestirlo; ha denunciato, insieme ai sindacalisti e ai lavoratori dell’Ente, gli intrallazzi e le magagne delle strutture così dette assistenziali per non vedenti; sta attuando nuove forme di
lotte sindacali che hanno creato solidarietà tra utenti e impiegati dell’ente e portato alla politicizzazione di molti non vedenti.
Ci sarebbe molto da scrivere su questa lotta, ma quel che interessa a EFFE è soprattutto ciò che sta dietro ai fatti: la battaglia sindacale è stata l’occasione per una presa di coscienza più vasta sia delle non vedenti che delle lavoratrici dell’ente, lo stimolo per una politicizzazione in cui non può non rientrare anche la tematica della liberazione della donna. Dice Rita, che lavora all’UIC e si occupa del corso: «Uno dei problemi più grossi per i non vedenti, soprattutto per le donne, è lo stato di dipendenza in cui la loro condizione li obbliga: non solo fisica, ma dipendenza di scelte, di opinioni, di idee. Chi sta in una situazione drammatica per conto proprio è portato a disinteressarsi dei problemi altrui: la lotta contribuisce a far superare questo disinteresse, perché sono gli stessi non vedenti a gestire il corso, a proporre le azioni di lotta». Dice Sorina, 22 anni, studentessa di psicologia, cieca dall’età di sei anni: «Quando uno ci incontra per la prima volta, non sa mai come comportarsi, pensa: «oh, la povera cieca, chissà com’è, sarà diversa etc.». E via con gli atteggiamenti pietistici, col cederti il posto in tram, passarti la sedia, reggerti quando cammini». Tutto un codice di comportamento che «segnala» alla cieca che, in quanto diversa, è forzatamente esclusa dalla vita normale, è questa diversità che, con voce sicura e logica incalzante, Sorina smantella. Vive a Roma per conto suo, anche se la sua famiglia vive nella stessa città, per avere più autonomia (esattamente come migliaia di sue coetanee); oltre a studiare, fa la presentatrice Avon come migliaia di normali studentesse) esattamente per gli stessi motivi («guadagnare 20-30.000 al mese per le spese mie»). Racconta: «Io ho vissuto sempre fuori dalle strutture per ciechi; ho sempre avuto gli stessi problemi degli altri, ho sempre rifiutato l’atteggiamento pietistico e emarginante verso la “povera cieca”. Certo, c’è il problema pratico dell’accompagnamento, ma questo non è un limite mio: è un limite del sistema, che ti passa la pensione ma non ti dà le strutture per vivere e lavorare. Il problema non è ottenere qualche soldo in più a livello assistenziale, ma superare l’ideologia dominante che ci mette doppiamente ai margini, in quanto donne e in quanto cieche». Sorina osserva come l’essere donna accentui la tendenza regressiva presente nei non vedenti: «I ciechi, isolati, superprotetti dalle famiglie tendono a rimanere infantili: per le ragazze è peggio, hanno paura di non poter trovare un ragazzo, soffrono dei pregiudizi delle loro famiglie che temono di non poterle vedere “sistemate” con il matrimonio, come le altre». I meccanismi di esclusione sono implacabili: la mancanza della vista e l’essere donna sono una sicura condanna all’ignoranza, sbarrano l’accesso alla cultura: «Le donne cieche in genere non studiano: mancano i soldi e le strutture per i maschi, figuriamoci per le femmine». La dipendenza dalla famiglia, dal marito (per le «fortunate» che l’hanno trovato) diventa così assoluta. Dice Maria Grazia, 24 anni, venuta a Roma da un paesino del Lazio per seguire il corso: «I miei non volevano che facessi il corso: non ti serve, dicevano, ci siamo noi e quando moriremo noi ci penserà tuo fratello». Un destino da eterna minorenne. Ma a quest’equazione diversità-inferiorità, diversità-dipendenza, diversità-esclusione (e al concetto stesso di diversità) le non vedenti cominciano a ribellarsi. Dietro a ogni iscrizione al corso c’è una storia di ribellione, una volontà di riscatto, ma per le donne questo è doppiamente vero. «Io sono stata a lungo in collegio perché i miei genitori erano emigrati in Svizzera — dice Donatella, 18 anni — il collegio mi ha inibita, emarginata; ma il contatto con i non vedenti mi ha fatto capire che bisogna lottare contro l’esclusione. Ora ho raggiunto una certa disinvoltura nei rapporti con gli altri, anche se risento ancora dei pregiudizi della gente. Voglio dimostrare a me stessa e agli altri che essere cieca non significa nulla, perché io rimango Donatella, una persona, una donna con i problemi di tutte le donne anche se aggravati dalla cecità».
Le storie di queste donne sono spesso strazianti, ai margini dell’incredibile. Come quella di Adelia Tiburzio casalinga di Avezzano, trascurata e sfruttata in famiglia perché la sua cecità veniva considerata una vergogna («Per mia madre ero una segnata da Dio: mi diceva “sei cattiva e Dio ti ha castigata”; così mentre i miei fratelli hanno potuto studiare e sono diventati tutti e due dottori, io ho lavorato in campagna, ho fatto solo la terza elementare e ho fatto una vita di miseria e disperazione»), Adelia ha avuto la fortuna di incontrare un marito che la ama e due figlie che le stanno vicine, ma la povertà e le disgrazie che per anni hanno segnato le condizioni di vita della sua famiglia le hanno impedito ogni possibilità di riscatto. «Non un momento della mia vita l’ho passato a occhi asciutti», dice. L’iscrizione al corso, per cui ha dovuto superare enormi difficoltà (trasferimento da Avezzano a Roma, separazione dal marito e da una figlia) è stata per Adelia la rinascita della speranza, della volontà di lottare: «Seguo il corso con difficoltà, perché spesso ho la mente altrove: a mio marito, a mia figlia rimasti soli in campagna, in miseria. Ma spero di poter fare qualcosa, ho capito che non è finita per noi, che potrò evitare alle mie figlie la tristezza mia».
Il risveglio della speranza, non più in un’assistenza impastata di ipocrita pietà, ma nella propria forza, nella propria capacità di capire e lottare, è il risultato più bello di questa lotta. La presa di coscienza che in donne come Adelia è forzatamente all’inizio (date le condizioni in cui è vissuta) in altre è già una salda conquista. Lucia, 26 anni, centralinista, cieca dalla nascita, rifiuta recisamente il ruolo della «povera cieca». «Il mio lavoro non mi piace, non mi sento realizzata. Ma lavorando mi sono responsabilizzata, ho cominciato a lottare, a fare un discorso politico». Un discorso che punta all’autonomia, come donna e come non vedente, e al rifiuto dello stigma di «diversa». «La gente considera l’handicappato un «povero figlio», che «campa perché deve campa»: non è abbastanza sensibilizzata perché non è abituata ad avere vicino i diversi, d’altronde non imparerà mai a non considerarti diversa finché non ti ha vicino…».
Ho ripensato molto alla frase di Lucia. La segregazione dei diversi, messa in opera dal sistema, una misura di sicurezza che i «normali» prendono per garantirsi della propria Normalità, è l’espressione della paura che il contatto con «l’anormale» incrini la fragile costruzione della nostra contraffatta Normalità, è il rifiuto di riconoscere il diverso in noi. E’ tutto questo ma, concretamente, molto di più: la esclusione pesa soprattutto sulle classi sociali inferiori e, all’interno di esse, in misura maggiore sulle donne (per esempio la cieca è ancora più invisibile del cieco, ancor più dipendente e così via).
Sradicare i ghetti esterni, vivere con i devianti significa non solo smettere di esorcizzarli (cioè superare la paura del Diverso e accettarlo come parte di noi) e rinunciare al mito della Normalità istituzionalizzata ma riconoscere in questi esclusi dei compagni di lotta, dopo ore di conversazione con Lucia, Adelia, Sorina spese a parlare di lavoro, famiglia, sessualità, dei quotidiani problemi di tutte le donne, ho scoperto di aver dimenticato che erano cieche, quindi «diverse». Le ho riconosciute, e amate, per quello che sono: compagne di lotta.