luxemburg, zetkin, kollontai…«e io ho detto a Lenin»…
Riformismo o rivoluzione? Lo slogan femminista degli anni ’60: «Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna, non c’è liberazione della donna senza rivoluzione», sembra aver liquidato senza mezzi termini e in modo fiducioso il vetusto e complicato dibattito su socialismo e questione femminile. La lettura di alcuni documenti di donne che si trovarono ad affrontare la liberazione delle masse femminili come militanti dei partiti socialdemocratici prima (così erano chiamati i partiti marxisti avanti la grande guerra 1914-1918), del movimento comunista della III Internazionale poi, mostra che le speranze, le tensioni, gli impegni da esse affrontati rimangono estremamente attuali. Tre donne, che appartengono ai «grandi» della storia del movimento operaio, possono costituire uno stimolo alla nostra riflessione: Rosa Luxemburg, considerata il più geniale cervello teorico dopo Marx ed Engels, che non credette nell’autonomia del movimento femminile; Clara Zetkin, dirigente del partito socialdemocratico tedesco e con Rosa fondatrice della Lega spartachista (comunista): impostò la lotta delle donne in termini di emancipazione; Alessandra Kollontai, ministro per l’assistenza sociale del governo bolscevico del 1917, ebbe una chiara intuizione del carattere più totale della liberazione della donna, che considerò compito fondamentale di uno stato socialista. Il rapporto con il movimento femminile borghese, che andava sviluppandosi in Europa Occidentale a partire dall’agitazione femminile nei Paesi anglosassoni {«suffragette»), la diffidenza e talvolta l’ostilità dei dirigenti socialdemocratici, compresa l’ala bolscevica e lo stesso Lenin, di fronte a una questione giudicata di natura borghese, più che operaia, e infine il problema della rivoluzione socialista che Rosa, Clara e Alessandra giudicarono essenziale per la liberazione delle masse femminili, ecco i nodi che tutte e tre si trovarono ad affrontare. La loro vita politica presenta molti punti di incontro. Più anziana Clara (nata in Germania nel 1857), quasi coetanee Rosa (nata in Polonia nel 1871) e Alessandra (nata in Russia nel 1872), hanno in comune l’origine da ceti non proletari: dalla piccola borghesia Rosa e Clara, allevata da una famiglia nobile adottiva Alessandra. L’esperienza — Rosa come ebrea e polacca appartiene a due nazionalità oppresse, Alessandra si ribella adolescente all’«atmosfera di protezione» della famiglia adottiva — e gli studi le orientano verso la contestazione marxista all’ordine costituito. Per tutta la vita, resteranno coerenti alla visuale internazionalista e si sentiranno più militanti della rivoluzione mondiale che di un particolare partito: così ad esempio la polacca Luxemburg legherà il suo nome alle vicende del proletariato tedesco ma nello stesso tempo parteciperà attivamente ai dibattiti all’interno del movimento bolscevico russo. L’itinerario politico delle tre rivoluzionarie è simile: prima della grande guerra polemizzano contro l’ala revisionista riformista, allo scoppio della guerra si schierano senza incertezza contro il tradimento storico dei gruppi dirigenti socialdemocratici che, con un repentino voltafaccia, in Germania e in Francia avallano la guerra imperialista votando il bilancio militare dei rispettivi governi. Negli anni dal 1914 al 1917 sono in prima fila nel «movimento di Zimmerwald» dove sostengono con Lenin — e contro il pacifismo più tradizionale — l’esigenza di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria. In coerenza con questa posizione, partecipano alla fondazione del movimento comunista e la Kollontai, direttamente, alle vicende che portano alla vittoria della rivoluzione bolscevica d’ottobre. La Luxemburg e la Zetkin sono le fondatrici, assieme a Karl Liebknecht e Leo Jogiches, della Lega Spartacus, primo nucleo in Germania del partito comunista. Anche la loro collocazione all’interno del movimento comunista presenta motivi originali in comune. Soprattutto Rosa e Alessandra animano quella corrente di sinistra che sostiene la prevalenza della classe operaia sul partito rivoluzionario e della base sui vertici burocratici. In una lettera famosa a Lenin, la Luxemburg individuerà quei pericoli che dovranno poi tragicamente avverarsi nel successivo periodo staliniano (prevalenza della burocrazia sulla base) e la Kollontai sarà la punta polemica all’interno del partito bolscevico di quella «opposizione operaia» che chiede più rivoluzione e più controllo della base. Contro la rivoluzione socialista insorge la reazione fascista. Rosa è una delle prime vittime, assieme a Liebknecht e Jogiches, dei gruppi para-militari di estrema destra, che reprimono nel sangue, nel gennaio 1919, la rivoluzione spartachista. Clara, sopravvissuta, lotta contro l’insorgere del nazismo e la irresistibile ascesa di Adolf Hitler, propiziata dal grande capitale della Ruhr: a 75 anni, nell’agosto 1932, pronuncerà al Reichstag l’ultimo atto di accusa al nazismo ormai trionfante. Morirà un anno dopo a Mosca: il suo corpo riposa ai piedi della mura del Cremlino. Alessandra, dopo il «rientro» dell’opposizione di sinistra, si rassegnerà a un lavoro di routine diplomatica e morirà a Mosca nel 19S2, alla fine dell’era staliniana, ormai completamente isolata è dimenticata. Unite negli indirizzi ideologici e nelle lotte politiche, le tre donne si diversificano invece nettamente di fronte al problema della liberazione femminile. Rosa Luxemburg, pur estremamente sensibile e attenta a ogni forma di oppressione sociale, sottovalutò la questione femminile e ritenne che la giusta impostazione fosse non separare le donne dal resto del movimento proletario ma coinvolgerle esclusivamente nella lotta,per il socialismo, la cui vittoria avrebbe creato automaticamente la liberazione di tutte le minoranze e di tutte le masse oppresse, con l’inizio di una nuova era di giustizia e di libertà. A testimonianza di questa sua convinzione restano gli articoli sul «Die Gleichheit», giornale della stampa femminile della socialdemocrazia tedesca diretto da Clara Zetkin, in cui Rosa affrontò sempre questioni di carattere generale. Non considerò mai, neppure strumentalmente, cioè in termini di alleanza con la classe operaia, l’organizzazione di un movimento femminile autonomo. Nonostante ciò fu una dirigente molto amata dalle donne tedesche, come ci conferma la biografia di Paul Frolich. Clara Zetkin, compagna di lotta della Luxemburg all’interno della socialdemocrazia tedesca, dedicò invece molto del suo tempo e dei suoi interessi alla organizzazione politica del movimento femminile. Fu una delle fondatrici del movimento femminile socialdemocratico, si battè per il voto alle donne e per la creazione della «giornata internazionale della donna», poi diresse il «Movimento internazionale delle donne socialiste», un raggruppamento più vasto e a base pluripartitica a sostegno della rivoluzione russa e dei nuovi indirizzi da questa emersi. Anche al termine della sua vita, negli anni ’30, quando Trotsky la definì la «vecchia signora rispettabile che fu in altri tempi Clara Zetkin» riprende la sua riflessione sulla questione femminile in termini storici e teorici, con alcuni saggi, che sono ora pubblicati in un volume: «La questione femminile e la lotta al riformismo». Nell’impostazione della Zetkin esiste un’indicazione preziosa e qui sta il contributo originale alla visione comunista del problema, cioè che «la questione femminile presenta diverse caratteristiche a seconda della situazione di classe dei diversi gruppi sociali». L’oppressione delle donne è dunque un dato oggettivo che coinvolge tutte le classi. Ma, arrivata a questo punto e dopo aver intuito che la liberazione della donna coinvolge aspetti diversi e deve portare allo «sviluppo della propria personalità», la Zetkin finisce per far coincidere automaticamente la liberazione della donna con l’emancipazione dalle catene capitalistiche del lavoro. L’organizzazione femminile diventa quindi solo una «sezione» subordinata senza contenuti specifici ai fini strategici del movimento operaio. Il modello offerto alle proletarie è quello di una «moglie rossa» devota al marito secondo uno schema derivato, in sostanza, dalla cultura borghese. Questa analisi peserà, a lungo, sulla impostazione che l’ala rivoluzionaria, diventata comunista, darà alla «questione femminile» e sulla soluzione che verrà proposta: l’emancipazione. Per comprendere questa scelta, dobbiamo inquadrarla però in quel momento storico, quando alle speranze di liberazione totale aperte dalla rivoluzione russa, successe la lotta frontale della sinistra contro il fascismo, per cui anche chi aveva intuito una parte almeno dei con-, tenuti nuovi della questione femminile evitò di prolungare la polemica contro le resistenze e le incomprensioni incontrate all’interno della sinistra, per non correre il rischio di indebolire, e quindi dividere, il partito. Alessandra Kollontai, di cui ci resta un prezioso e consolante documento autobiografico pubblicato col titolo «Autobiografia di una comunista sessualmente emancipata», è indubbiamente il personaggio più vicino alla odierna problematica femminista, che ha genialmente anticipato. La sua ansia di libertà, in quanto donna, e il suo essere socialista, sono due momenti che s’identificano senza timore, forse solo con qualche perplessità che la porta a moderare il linguaggio per non turbare eccessivamente i suoi compagni di partito. Una donna «libera e indipendente», la prima donna nominata ministro plenipotenziario, che nessun uomo ha mai condizionato, che abbandonò il marito, sposato per amore, e quando ancora l’amava, perché costituiva un ostacolo all’affermazione dei suoi ideali socialisti e alla realizzazione di se stessa. La Kollontai riteneva che la società socialista avesse il compito di emancipare gli esseri umani dai «modelli comportamentali egoistici e individuali», e considerava la creazione dell’uomo nuovo indissolubilmente legati alla liberazione delle masse femminili. Non solo un uomo nuovo, ma anche una donna nuova. Nello scritto «La nuova morale e la classe operaia» e poi ancora nel libro «Rapporto di classe e lotta operaia», la Kollontai affronta il problema di come tanti falsi valori della società borghese debbano essere soppiantati dalla morale della classe operaia; prima fra tutte deve essere combattuta la «doppia morale», che è l’origine e il fondamento dello sfruttamento della donna e della crisi sessuale del nostro secolo. Un altro problema che si trovò ad affrontare, anche in qualità di ministro, fu la limitazione delle nascite, cui la libertà della donna è oggettivamente legata, per permettere alla donna di investire le sue energie nel campo sociale. Il controllo delle nascite, la legalizzazione dell’aborto, la maternità intesa come fatto che investe tutta la società e a cui lo stato deve garantire assistenza, furono battaglie e conquiste rivoluzionarie anche per lo stato bolscevico. Il discorso della liberazione femminile procede «su due strade parallele che non si incontrano mai»: da un lato l’economicismo femminista, la lotta per il diritto al lavoro che sopravvaluta l’indipendenza economica e le rivendicazioni di parità dei diritti; dall’altro la permanenza di legami emotivi con la famiglia, la ribellione considerata un atto della volontà individuale. Questa profonda comprensione di Alessandra, che «emancipazione» e «liberazione» restano due fatti separati, da non confondersi, è il contributo più importante alla nostra lotta.