autocoscienza: il linguaggio rubato
queste pagine sono frutto di un dibattito tra alcune compagne di Napoli sulla «strumentalizzazione del femminismo», durante il quale però si è parlato di molti altri temi. Lo presentano così: Paola, Rosanna, Maria, Elena, Gabriella, Germana, Maria Luisa.
Maria – Fare un articolo per Effe: la voglia di trovarsi con le altre donne per fare una cosa insieme, per conoscersi, per sperimentare nuove forme di comunicazione, per stabilire un nuovo rapporto con le compagne di Effe. L’eccitazione sottile che ci prende; il «tema» poco importa, sappiamo anche che rischiamo di dire cose scontate. Mi viene in mente la prima sera che ci siam viste, una certa aria di ufficialità smontata dalle nostre risate, le crisi dopo una serata andata male e la paura di non vedersi più per questo, i tentativi con il registratore, con le scalette scritte…
Ecco, quello che mi colpisce di più in questa nostra esperienza è proprio questa ricerca spesso angosciosa di costruire insieme un linguaggio che esprima la ricchezza, la creatività che è in noi nel fare questa cosa, il bisogno, spesso paralizzante, di metterci dentro tutto, la consapevolezza che potrei raccontare questa esperienza in tanti modi diversi, da tante angolature, e mi sembra che ognuna da sola non vada bene perché esclude le altre. Oggi riesco a parlare in modo autentico solo di questo mio blocco ad esprimermi, perché ho a disposizione un linguaggio che non ci appartiene, che per la sua stessa struttura è negazione dell’altro, del diverso, che nel suo esprimersi si definisce come potere e quindi emargina ed esclude tutto quello che in quel momento non viene espresso. Mi rendo anche conto che è molto poco, ma è una tessera del mosaico messo insieme con le testimonianze di ognuna di noi, un primo tentativo di vivere — raccontare che non abbia il carattere esclusivo di sempre.
Elena – Quando le compagne di Effe ci hanno proposto di contribuire al numero sulla strumentalizzazione del femminismo, fu abbastanza semplice accettare; sembrava un tema che necessitasse più che altro approfondimento, discussione tra di noi, sul quale c’erano già delle idee. Ma più che si procedeva, sia per il dibattito, sia per gli avvenimenti del movimento, più il tema ci sembrava complesso. Se prima coglievamo principalmente la sua accezione di strumentalizzazione esterna alla stampa, ai giornali, ai libri, ai partiti di vario genere etc..,, andando avanti ne veniva fuori anche il suo aspetto interno al movimento, addirittura nel suo essere certe volte interno a noi, che nell’«usare» e nel «proiettare» nel femminismo le nostre insicurezze, cerchiamo risposte totalizzanti, certe. Ma procediamo con ordine.
Come raccontano anche le altre compagne siam partite dalla critica all’ ultimo uomo», quello che vorrei riportare qui è il nostro rifiuto totale al tentativo degli autori di proporre l’autocoscienza come metodo intersessista, cercando di provocare cioè una identificazione tra privato maschile e femminile.
Certo la scissione pubblico-privato, tra luogo della produzione e della riproduzione opprime tutti e due i sessi. La funzione della famiglia di valvola di scarico, di Istituzione imbuto in cui immettere le tensioni accumulate all’esterno, le codificazioni, le schematizzazioni dei ruoli materno e paterno, non opprime solo la donna. Ma solo per la donna il privato è la strumento principale della sua esclusione, ed il suo luogo di oppressione e sfruttamento.
Per noi quindi autocoscienza è momento forza di critica al privato, di critica ai ruoli che svolgiamo, al nostro stesso rapportarsi con esso, proprio in quanto veicolo principale della nostra oppressione. Per l’uomo, invece, è un momento dove è anche oppresso, ma specialmente oppressore, in quanto questa è la funzione a lui affidata, ma non è certo il suo momento di principale alienazione, di sofferenza. Questa scoperta del «privato come luogo comune di alienazione», sfuma perciò sia i contributi nuovi, rivoluzionari, della critica femminista (critica che oltretutto solo le donne come principali «protagoniste del privato» potevano e possono sino in fondo portare), sia propone l’autocoscienza come generico metodo di acquisizione di «nuova coscienza», sulla propria vita personale (e sui propri costumi sessuali), non sapendo che autocoscienza per noi è critica del privato con la prospettiva di distruggere il privato, non per starci più tranquille, magari con un privato più «a sinistra».
È la stessa dicotomia pubblico-privato che rifiutiamo, ma non certo per il tutto pubblico, nel senso di oggi, ma per l’umano, per il vivere collettivo in base ai propri bisogni reali, da scoprire e riconoscere progressivamente. Perciò di questa operazione ciò che neghiamo non è il solo appropriarsi dei nostri strumenti distorcendoli, ma il riproporre pari-pari loro stessi la scissione pubblico-privato, e il parlare del personale diviene un momento di intimismo e confidenza collettiva, da «rubrica del cuore» di qualche settimanale.
Accennavo all’inizio all’ «uso totalizzante del femminismo», problematica di questi ultimi giorni, sorta sia durante le discussioni collettive, sia in seguito al Convegno del movimento femminista napoletano dell’altra settimana.
Ne vogliamo parlare qui proprio come sottolineatura delle varie sfaccettature di distorsione del femminismo che non solo provengono dall’esterno, ma rischiamo noi stesse di proporle. Mi spiego meglio.
Se qualcuno mi chiedesse che cos’è il femminismo, dopo una generica risposta tipo: «lotta di liberazione della donna, oppure autocoscienza, conoscere i propri bisogni, la propria identità, rifiuto dei ruoli etc. etc…», non saprei più cosa dire: ma potrei invece ben diversamente rispondere se mi si chiedesse cosa è stato per TE il femminismo, rispetto la tua vita, la tua storia, i tuoi anni.
Penso cioè che il femminismo non può essere, se non in parte, definito, ristretto in qualche frase, ma vive, ha significato solo se compreso attraverso le nostre mille storie diverse, non è cioè un atteggiamento, una linea politica complessiva, una concezione del mondo, una nuova ideologia, ma una posizione, un modo diverso di concepire l’essere, il ruolo delle donne, femminismo contro femminilità, contro inferiorità, esclusione, false parità, o parità in quanto accettazione acritica del modello maschile. In quanto posizione perciò, può vivere solo se applicata alle diverse nostre esperienze. Certo noi abbiamo degli obiettivi specifici, dei temi nostri di approfondimento e di ricerca, ma mai nel senso di «temi totalizzanti», che possono rispondere a tutti i nostri bisogni; il femminismo è un modo di concepire l’essere donna, perciò può rispondere ad un pezzo solo, anche se fondamentale, della realtà, ed inoltre i nostri bisogni non sorgono solo dallo specifico femminile, ma anche dalla no-tra esperienza complessiva, dalla classe da cui proveniamo, dal lavoro che facciamo, non siamo solo donne.
Invece si è teso a cercare nel femminismo risposte totalizzanti, e in questo rapportarsi idealistico costruire perciò schemi, stereotipi, nuovi principi e nuove leggi, rischiando di costruire una nuova modellistica di atteggiamenti, linguaggi, morali e mode, ed iniziando a giudicarci anche tra noi in base all’adeguamento o meno a questi schemi. Concretamente non vedendolo sempre come una posizione da mutare, da definire, da confrontare in base alle diversità, ma proponendo come momento definito, risoluto e delle nostre vite; e nello scoprire che risolutore non è, che totalizzante non è, che non esiste un «mondo alternativo tra donne», ma che ci sono diversità, di esperienza; di vita, di carattere (per fortuna), son derivate crisi, incomprensioni, pessimismo, difficoltà di comunicazione, anche perché penso che la nostra forza è nata e sta tutta nell’opposto, cioè nel rifiuto di ogni schema, di ogni ruolizzazione vecchia e nuova, di ogni facile risposta, di ogni linea complessiva o di grande teoria, ma nella ricerca e nel confronto continuo, con chi vuole andare avanti a ricapire, costruire, produrre senza chiudere il femminismo facendolo divenire un «ismo» tra i tanti.
Paola – Scrivere un articolo: dramma incontrollabile. Poesie, appunti, sfoghi
Mentre leggevo, vedevo delle conquiste mie così faticose, e nemmeno portate a termine, diventare preda golosa di chi vuole esorcizzare il significato rivoluzionario della nostra lotta.
vari, questi sì, ma un articolo, cioè quell’insieme di idee che tutti leggono e giudicano e analizzano… che terrore!
Sono abituata a buttarmi nelle cose, a rischiare, è vero, ma sono anche brava a vedere la mia incapacità a entrare in situazioni ufficiali. Ciò mi ricorda una delle ultime riunioni in cui abbiamo affrontato il tema del maschile e femminile. Cosa c’entra? C’entra e come. Forse è per scusarmi, non so. Ma in me esiste abbastanza nettamente la identificazione fra maschile-produttivo da un lato e femminile-passivo dall’altro. I maschi assolvono, senza tanti drammi, al loro ruolo pubblico, ufficiale. Se ascolto per un po’ la radio, li sento intervenire su qualsiasi argomento, con sicurezza e spavalderia. Ricordo quando un mio amico ha proposto a me e ad altre compagne di fare una trasmissione tutta nostra sulla violenza sulle donne. Dopo la prima sensazione di grande entusiasmo è subentrata la paura verso questa funzione ufficiale, non mia, cioè non propriamente femminile. Mi sentivo come donna di dover dare più di un maschio.
Era come se tutto d’un colpo avessi dovuto acquistare decisione, sicurezza, cioè delle cose cosiddette maschili. Ripensando pure ad altre occasioni del genere in cui mi sono tirata indietro, vedo che ho sempre assolto al mio ruolo femminile nel senso di improduttivo. Eppure in tre anni di pratica femminista, ho acquistato attraverso il rapporto con altre donne una grande forza individuale che mi ha permesso e mi permette di essere soggetto nelle cose che faccio, di essere più presente a me stessa. E questa crescita è avvenuta proprio rivalutando il femminile che è in me, che, tacciato sempre come debole, è venuto alla luce finalmente come leva di forza. Mi è servito sforzarmi di afferrare attraverso la mia emotività, la mia gioia, la mia sofferenza il bello del mio essere donna. Ciò mi ha fatto allontanare sempre di più dal mondo maschile con tutto ciò che lo caratterizza,, accusandolo di cattivo, negativo, da rifiutare. Mi sono barricata sempre più nel mio personale, nella affannosa ricerca di rapporti idilliaci con le donne, nel rifiuto della «politica» perché maschile.
In questa strada credo ancora molto, ma ho avuto bisogno di ridimensionare l’utopia, scontrandomi ogni momento con la difficoltà di stare bene con tutte le donne e di realizzarmi nel sociale.
Tacciare delle cose come maschili e quindi per me irraggiungibili mi è servito e mi serve ancora, ma come faccio con il maschile che è in me?
In questa mia estenuante ricerca di me stessa, io devo riprendermi ciò di cui mi hanno espropriata: la sicurezza, il rischio, la decisione. A questo punto penso alla mia reazione di fronte ai maschi che viceversa vorrebbero riprendersi il femminile, cioè la dolcezza la sensibilità. Mi viene da pensare a «L’ultimo uomo», best seller di una collana di libri sprint di una casa editrice ultrademocratica. Mentre leggevo m’imbestialivo da morire, mi sembrava tutto falso, artificioso. Anche se questi quattro maschi dicono di non fare autocoscienza, ma di fare delle confessioni, fanno vasto uso e abuso del linguaggio autocoscienziale, tutti gli scritti s’imperniano sul vissuto, sul personale, si parla con falsa disinibizione di sesso, seghe e chiavate varie, di questa lacerante crisi del cazzo, crisi perlopiù dovuta ad uno sciagurato rapporto con una femminista. I nostri si sprecano in cronache di esperienze vissute prima, durante e dopo il suddetto rapporto.
Mentre leggevo, vedevo delle conquiste mie così faticose, e nemmeno portate a termine, diventare preda golosa di chi vuole esorcizzare il significato rivoluzionario della nostra lotta.
Penso all’apologia della sega (alias rapporto col proprio corpo); penso a come emerge dal tutto una figura di maschio forte e virile, e penso a come hanno tentato di fare la stessa strada nostra senza occuparsi minimamente del loro ruolo di dominio, quello pubblico. È tutta una confessione privata all’interno del privato. «Beh, oggi mi metto a tavolino e scrivo sul privato», anche questo visto come altro da sé, anche questo diventa un gioco di astrazione e uno strumento di affermazione.
Ammetto che oltre a questa reazione di rabbia, ho avuto anche molta paura, vedendomi espropriata di cose ridotte a meri slogans: viva il personale, viva l’autocritica, riappropriamoci della nostra sessualità; come se questi maschi avessero tentato d’infilarsi dei vestiti, un po’ strettini, a dir il vero, dandosi un nuovo ruolo, quello di maschio in crisi.
A proposto di ruoli, è significativo come Lombardo Radice li definisce: l’intellettuale, il compagno di base, il politico, il giovanissimo. In crisi, sì, ma con la dovuta etichetta.
Ma mi accorgo che non mi basta più difendermi. No all’autocoscienza maschile, va bene. Ma, se da un lato vedo l’estrema pericolosità di questo vasto uso di temi partoriti da noi, perché sono il nostro politico, uso che porta ad un’ambiguità di contenuto, dall’altro ho il problema che dei rapporti ce li ho e parlare di crisi di ruoli e di valori è un po’ il nostro pane quotidiano.
Non posso più chiudermi in puri ideologismi, che diventano la mia difesa. Non posso più sentirmi scissa tra il bello dei rapporti con le donne e il brutto dei rapporti col maschio. Non credo molto nella «crisi» del maschio, ma vorrei capire quel tantino che c’è di vero in ciò.
Rosanna – All’inizio di questo lavoro per Effe siamo partite da una discussione sul libro «L’ultimo uomo», il fatto stesso che degli uomini parlano di sé in un libro, loro che non l’hanno mai saputo fare, ci infastidisce, sembra che si approprino indebitamente di un nostro terreno di analisi snaturandolo e rendendolo puro terreno di esercizi verbali.
Ma come, noi per anni siamo state molto attente affinché ogni nostra acquisizione non diventasse legge, sempre a rincorrere la vita per non restare impegolate nei divieti, negli imperativi, nelle leggi che emanano aria di morte e loro scrivono addirittura un libro in cui, pur riconoscendo l’impossibilità di fare autocoscienza attraverso uno scritto, riescono a ideologizzare tutto ciò che dicono. Parlano soprattutto di sesso, di come le nuove esigenze delle donne abbiano potuto metterli in crisi, o, per meglio dire, mettere in crisi il loro cazzo: impotenza, omosessualità, eiaculazione precoce, sono tutte malattie dovute allo scontro in atto.
La ricerca sulla sessualità che per noi significa ricerca dell’origine della nostra oppressione e quindi ricostruzione dei nostri corpi estraniati, ma, prima ancora, delle nostre menti alienate, dei nostri sentimenti avviliti e derisi, viene ricondotta in binari morti, ridotta alla ricerca di un rapporto migliore, cioè più «autonomo» con il pene; le due strade proposte sono: la masturbazione senza fantasia e l’omosessualità intesa in maniera ideologica.
Comunque al di là di questo libro che risponde ad una chiara operazione di tipo commerciale e su cui non mi va
di spendere più parole di quante ne abbia già spese, il positivo dei nostri incontri si è espresso anche quando dal libro siamo passate a parlare di noi, del nostro modo di vivere il corpo. Masturbazione: per molte un’esperienza recente, gioiosa, vissuta all’ombra del femminismo, e della rinnovata fiducia in sé stesse, per altre esperienza vissuta drammaticamente nell’adolescenza e difficile da recuperare in modo più sereno.
Diverse storie, diversi modi di rapportarsi a sé. Ma anche il discorso sulla masturbazione non si risolve per noi nel: riesco a masturbarmi e quindi ho riconquistato un rapporto con il mio corpo semmai nel chiuso della mia stanza. Certo è importante riuscire a masturbarsi, ma anche la masturbazione può diventare puro sfogo se non diventa ricerca di sé in rapporto alle altre, tentativo di conoscenza ma anche di comunicazione. Abbiamo parlato di noi ho detto prima, ma ancora una volta con un vizio ed una paura di fondo che spesso svia i nostri tentativi di approfondimento e di conoscenza.
Il vizio sta nella pretesa difensiva di contrapporre alla sessualità di quei quattro uomini in crisi, la nostra sessualità, al loro modo di parlare, il nostro modo di parlare. Questa pretesa è pure giusta per chiarirci cosa ci differenzia da loro, ma in questa continua rincorsa al puntellamento dei nostri contenuti sempre in pericolo non rischiamo di rinchiuderci in tombe dorate o funeree a seconda dei momenti? Senza avere la possibilità di svilupparli, di dialettizzarli continuamente. Ancora una volta ci fottono, costringendoci a difenderci. Non voglio avere paura di affermare che la masturbazione può essere anche per me uno sfogo, una scarica di tensioni, voglio scoprire quanto di negativo, di marcio c’è anche in me per meglio combattere, per partire da questo e non da astratte teorie. L’autocoscienza non è già forma e contenuto, è un metodo che di volta in volta, secondo la maturità individuale e collettiva delle donne si riempie di contenuti e di forme di lotta adatte a quei contenuti.
Gli uomini facciano pure le loro confessioni, sfruttino il femminismo per fini commerciali, non potrò certo impedirlo.
Impedirò invece che con le loro operazioni strumentali mi costringano ad un terreno che non è il mio, a sprecare energie preziose per la nostra ricerca e la nostra lotta.