quale creatività

la mia presenza ai due ultimi dibattiti su femminismo e creatività a La Spezia e a Roma. Il disagio di questa mia presenza muta e impotente. Questo mi spinge a fare un tentativo di analisi che vuole essere innanzi tutto la mia testimonianza su questa incapacità di usare la parola.

giugno 1977

il sentirsi ancora una volta oggetto e questa volta consapevolmente e per «libera» scelta. Perché anche se hai lo spazio, gentilmente, aggressivamente, subdolamente concesso, per diventare soggetto, c’è rifiuto che parte della consapevolezza di non essere in uno spazio tuo, che sei comunque gestita, che devi stare alle loro regole di gioco, che sei sempre e ancora in un contesto emancipatorio dove sei la «diversa», un «divertissement» intellettuale, isolata dalle altre donne presenti, anche se senti che il loro silenzio è il tuo, il loro disagio è il tuo, che è comune il senso di impotenza e di alienazione. Si parla di te, e si lascia che ancora una volta siano gli uomini a parlare di te e per te, e quando, allenati alla loro dialettica intellettuale dicono delle cose giuste, si sorride, quando dicono delle cazzate si reagisce solo con quello che ci detta la rabbia di secoli. L’analisi è difficile e la provocazione è continua, all’inizio mascherata da una dialettica pacata dove si insinua il dubbio, la concessione, il tentativo intellettuale di capire, di comunicare, poi la matrice misogina incomincia a delinearsi distintamente, la paura della castrazione, la paura delle «diverse» fa scattare i meccanismi di conservazione del proprio ruolo, del proprio potere fino a dire «in fondo noi difendiamo le nostre puttane!». La fragile schermatura intellettuale è caduta, l’accettazione è quindi strumentale, resta la profonda incomunicabilità tra due livelli profondi e totalmente scissi; il maschile e il femminile, l’incomprensione tra due linguaggi profondamente diversi per il loro esercizio storico perché legati a due pratiche diverse: femminile = privato; maschile = sociale. Credo sia fondamentale a questo punto per parlare della donna e della creatività, partire da alcuni punti fondamentali sull’arte.
L’arte è sempre stata un supporto del potere delle classi egemoni, e l’artista è colui che ha messo al loro servizio la propria capacità espressiva, sensitiva, culturale. L’arte è quindi finalizzata al potere e serve il potere. L’artista quindi, aggregandosi a questa o quella corte, a questo o quel mercante, è inserito in un processo produttivo ben definito e quindi mercificato. Nessuna opera d’arte è fruibile in quanto tale, ma va inserita nel suo contesto storico, politico, sociale che ne determina i suoi fattori estetici e culturali. La donna è stata storicamente esclusa da qualsiasi processo produttivo. L’arte è quindi maschile. Le eccezioni confermano la regola, quindi la presenza di donne artiste nei vari secoli, sono poche e comunque irrilevanti ai fini della Storia dell’arte, con la esse maiuscola, e comunque sono inserite nella cultura maschile, in diretta competizione con l’artista maschio sia a livello espressivo che di contenuto, di conseguenza accettate in quanto «non diverse». Non di questo parere è Eva Menzio della cooperativa del Beato Angelico che studia la storia delle artiste del passato, con un paziente e accurato recupero dei documenti della loro vita privata, ad esempio gli atti del processo di Artemisia Gentileschi, stuprata all’età di 18 anni. Secondo Eva è un luogo comune dire che le donne non sono presenti nella Storia dell’arte. È auspicabile che non lo siano più dopo il suo lavoro, ma per ora sono sistematicamente ignorate e non riconosciute anche se ci sono state e comunque resta di fatto che furono molto poche le donne artiste del passato. Il fatto poi che queste poche ammesse all’olimpo maschile, ebbero successo e riconoscimenti durante la loro vita, non mi stupisce per .niente, in quanto queste donne operavano dentro la logica maschile ed erano quindi accettate senza pericolo, anzi Eva aggiunge e riconosce che forse erano facilitate proprio in quanto donne. Purtroppo questa frase sottolinea ancora una volta la subordinazione delle donne, e i prezzi che hanno dovuto pagare tutte le donne emancipate legate a doppio filo con le istituzioni e il potere maschili, in diretta competizione e dipendenza da questo. Quindi tutte le donne che hanno voluto sfidare e competere con le istituzioni hanno sempre e comunque pagato il doppio dell’uomo. Non a caso le cortigiane del VI secolo sono state le muse e le animatrici dei più bei salotti dell’epoca; circondate da uomini illustri erano muse ispiratrici e si esercitavano nelle arti, ma sono ricordate come grandi cortigiane, e giustamente rientrano nell’anedottica in quanto poche eccezioni e sempre e comunque al servizio del potere molto spesso contro le altre donne di cui erano le prime a riconoscere la bassezza e l’inferiorità.
A questo punto vorrei dire che esiste una profonda differenza tra le donne della classe dominante e le donne delle classi subalterne in tutte le epoche.
Le prime hanno sempre dato il loro appoggio per la perpetrazione dei privilegi e del potere dei loro uomini, difendendo indirettamente se stesse, siano essi padri, mariti, amanti, figli.
L’oppressione sulla donna è quindi esercitata a vari livelli, inscindibilmente dalla classe sociale di appartenenza. Quindi la donna, sempre e comunque oppressa, non ha mancato di esercitare la propria oppressione su altre donne appartenenti alle classi subalterne. Credo che esista una profonda differenza tra arte e creatività femminile. L’arte, in quanto processo produttivo maschile, può inglobare la donna solo a livello di istanze emancipatone, la creatività femminista va quindi ben differenziata dall’arte, nella quale non può riconoscersi storicamente, mentre invece può .trovare affinità espressive e individuare la propria matrice con la creatività femminile storica.
Ad esempio Elisabetta Rasy definisce i pizzi come «quadri psichici» della condizione femminile, l’ossessiva ripetizione delle forme, delle volute, degli intrecci possono esprimere la condizione alienante della donna, il nostro disagio, la nostra estraneità e inculturazione. Oggi da nostra creatività deve essere inscindibile dalla nostra lotta rivoluzionaria, deve esserne l’espressione, diventare uno strumento di comunicazione aggregante con le altre donne. Per questo deve esprimere le nostre ricerche, la nostra presa di coscienza, la nostra rabbia, la nostra rilettura storica, la nostra assenza dalla storia. Allora mi chiedo, quanto serve in questo momento il nostro confronto con le istituzioni? Non sarebbe meglio aprire il dibattito solo con le donne? Cosa significa ‘essere femminista per le donne che operano da sempre all’interno di spazi artistici istituzionali? Cosa vuol dire per loro militanza femminista rapportata alla loro opera di artiste? In che misura il confronto con le istituzioni, i Dibattiti aperti su Femminismo e creatività possono portare alla strumentalizzazione e al recupero del femminismo?
Sappiamo ad esempio della grande fioritura di collettive di sole donne organizzate da «illuminati» galleristi, e la istituzione di nuovi premi sempre solo per le donne artiste. Che cosa significa questo recupero delle donne artiste? E un altro ghetto? La concessione di uno spazio rassicurante, parallelo alla cultura maschile? Un tardivo riconoscimento? Ma a chi e a cosa serve questo gratificante riconoscimento emancipatorio? Il dibattito è aperto da tanto e continua, per costruire insieme dal disagio, dall’impotenza della parola, dalla nostra profonda estraneazione e rabbia.