consultori : a che punto siamo
solo sei regioni su diciannove hanno approvato la legge sui consultori. Questa la «volontà politica» delle nostre istituzioni che al di là delle retoriche celebrazioni dell’anno della donna non sono andate.
nella calura del 29 luglio 1975 e nell’indifterenza politica generale fu varata in gran fretta dal parlamento la legge 405 «istituzione dei consultori familiari». Doveva essere nell’intenzione dei legislatori (particolarmente della DC) una risposta al crescente movimento delle donne per la legalizzazione dell’aborto. Una DC improvvisamente illuminata sui temi della contraccezione e procreazione responsabile, che per bocca dell’on. Liggieri pontifica: «La contraccezione intesa come impedimento al concepimento evitando la fecondazione dell’uovo da parte dello spermatozoo, non rappresenta un attentato al bene assoluto della vita, ma valorizza la vita stessa ponendola in una prospettiva più umana. Altra cosa è l’aborto che interrompendo una gravidanza in atto con la espulsione di un feto vivo, anche se non vitale, rappresenta comunque un atto di violenza che non dico il cristiano ma l’uomo in quanto tale non può in nessun senso accettare». Solo qualche anno prima, il 25 maggio 1972 l’on. Franca Falcucci aveva presentato un disegno di legge che all’art. 162 suonava: «Pubblicità di contraccettivi: chiunque distribuisce o affigge o mette in circolazione scritti o disegni tendenti a pubblicizzare (…) prodotti atti a realizzare pratiche contro la procreazione, è punito con la pena dell’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da 80 mila a 200 mila lire».
La sen. Carmen Zanti del PCI ha una posizione almeno su questo punto diversa sostenendo che «si crea in questo modo la condizione perché diminuisca la piaga degli aborti, ma questa legge non può essere considerata alternativa ad una legge che riguarda specificatamente la revisione delle norme penali per l’aborto».
Ma è sull’art. 2 della legge 405 che si formula il compromesso più grave (su questo punto anche al gruppo senatoriale del PCI si dichiara favorevole in sede di commissione): in nome del pluralismo lo Stato e le Regioni dovranno sovvenzionare anche i consultori privati (leggi le parrocchie). Dopo qualche perplessità da parte socialista e repubblicana la legge passa. (Un giorno ce lo diranno che cosa hanno barattato i comunisti con la DC nei corridoi di Montecitorio con l’art. 2. ?)
Ma veniamo alle Regioni a cui è demandato il compito di istituire il servizio consultoriale attraverso i coomuni o i consorzi socio-sanitari dove già esistono.
Il 16 aprile 1976 (quasi un anno dopo la legge nazionale) la Regione Lazio, per prima in Italia, promulga la legge «Istituzione del servizio di assistenza alla famiglia ecc.» Seguono: Regione Emilia e Romagna, 10 giugno 1976 n. 22 Lombardia 29 luglio 1976 n. 51 Liguria 2 settembre 1976 n. 26 Veneto 25 marzo 1977 n. 28 Toscana 12 marzo 1977 In tutte le leggi regionali si prevede che il Consultorio debba fornire alla donna l’assistenza nei casi di interruzione spontanea della gravidanza e nei casi di interruzione ammessi dall’ordinamento giuridico. Tutte prevedono gli stessi tipi di operatori che devono avere competenze specifiche in: medicina, psicologia, pedagogia, assistenza sanitaria e sociale. Tutte le regioni prevedono corsi di formazione e di ‘riqualificazione promossi dalla Regione stessa, ma soltanto il Lazio, l’Emilia Romagna e la Lombardia specificano la loro obbligatorietà. Salvo la Liguria, tutte le altre specificano che il lavoro degli operatori deve essere svolto in équipe, in maniera cioè interdisciplinare. Per quello che riguarda la gestione del servizio vi è una differenza tra quelle Regioni che hanno già avviato l’istituzione delle ULSSS. Escluse le leggi regionali del Piemonte e della Liguria, tutte le altre hanno sottolineato la necessità che le donne partecipino direttamente alla gestione dei consultori.
Nel Lazio ad esempio dove la partecipazione e mobilitazione femminista attorno alla legge è stata viva, la legge privilegia l’intervento delle donne, considerate le utenti principali del Consultorio e prevede la consultazione da parte del Consorzio che gestisce l’ULSSS delle organizzazioni femminili, o in assenza la convocazione dell’assemblea delle donne, in ogni momento della realizzazione dei servizi e per il loro controllo. Comunque sei regioni su 19 è da considerarsi un bel fallimento a distanza di due anni dalla legge dello Stato. Il termine fissato infatti anche se indicativo era il 12 marzo 1976. Questa la -«volontà politica» delle nostre istituzioni che al di là delle retoriche celebrazioni dell’anno della donna non sono andate.
Per quello che riguarda Al Lazio (che abbiamo potuto seguire da vicino) con una giunta di sinistra partita per prima a legiferare nell’aprile 1976 oggi, giugno 1977, si annunciano per metà giugno i primi 10 Consultori a Roma. Perché tanto ritardo? La legge regionale prevedeva dei corsi di riqualificazione professionale per tutto il personale medico, paramedico e sociale che intendesse lavorare nei consultori. Solo una minima parte ha chiesto di partecipare e comunque la fase di preparazione di questo corso è durata quasi nove mesi (di questi corsi ne parliamo a parte in questo numero di Effe). Una parte di questo personale proveniva dalla disciolta Opera Nazionale Maternità e Infanzia che il Ministero della Sanità nel decreto di scioglimento del-l’ONMI non sapendo a chi attribuire il personale l’ha consegnato agli Assessorati Provinciali all’Assistenza Sociale (la Regione Toscana ha fatto ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale contro questo decreto). Per la sola città di Roma invece questo personale dipende direttamente dal Comune. I nostri bizantinismi politico-amministrativi! Per quello che riguarda la Provincia e le sue per altro quasi inesistenti funzioni c’è ‘la tendenza in particolare da parte dei partiti di sinistra ad eliminarla gradualmente anche in vista della riforma sanitaria che punta su un coordinamento da parte delle Regioni dei servizi sanitari e quindi la Provincia diverrebbe un doppione inutile tra Regione consorzi ULSSS (unità locali servizi sanitari e sociali e Comuni).
Ora cosa, fa la Provincia nel Lazio? Forte del personale ad essa attribuito (peraltro riqualificato in corsi gestiti dalla Regione e retribuito da questa) vuole istituire dei suoi consultori basandosi incontestabilmente sull’art. 12 della legge Regionale che dice: «Gli eriti pubblici che abbiano finalità sociali e sanitarie e assistenziali possono istituire dei consultori familiari». Così pure la Provincia entra pesantemente nella gestione dei consultori e nella utilizzazione dei fondi.
I consultori previsti sono: 70 nel Lazio e 30 a Roma. Nella capitale entro giugno apriranno solo i primi 10 (di cui vi diamo l’elenco a parte, come pure il piano di localizzazione dei Consultori nel Lazio). Capisco^ benissimo il rapporto con le istituzioni sia una cosa difficile e piena’ di conflitti, comunque è fondamentale la mobilitazione (particolarmente in provincia) dei collettivi femministi per sollecitare l’apertura dei consultori pubblici in quanto i Comuni nonostante la legge non sono tenuti ad istituire il servizio in nome di un assurdo rispetto delle «autonomie locali», lasciando così spazio a quella formidabile organizzazione capillare che sono le parrocchie!
Le leggi fin’ora esistenti nelle sei Regioni ricalcano comunque il tema prevalente di quella Parlamentare che ripropone con una vernice più moderna il rilancio del ruolo femminile donna = moglie e madre e quindi un tentativo di risanamento e tutela della traballante istituzione: «la famiglia». La nostra mobilitazione e partecipazione anche come utenti deve mirare principalmente a sollecitare il servizio ove non esista, a far diventare il consultorio un luogo di confronto e crescita della donna e di un nuovo rapporto della donna con la medicina, e non un nuovo strumento di controllo sociale e di (manipolazione della lotta delle donne.