dall’ecologia al femminismo
è stata la logica della militanza che ci ha permesso di leggere il professionismo in chiave critica, chiedendo che sia la professione ad aderire al nostro umano, e non il contrario.
Prima che il femminismo diventasse, sfortunatamente, di moda, mi occupavo, nei giornali per cui lavoravo, di problemi ambientali. Problemi giudicati, per una donna, peregrini. Non mancava mai — ai convegni di ecologia che frequentavo tra nugoli di colleghi maschi — la fatidica domanda: «Ma come mai lei che è donna si occupa di questi problemi?». Digrignavo i denti e continuavo. La mia rivincita era di dimostrare che, non solo me ne occupavo, ma lo facevo meglio degli uomini. I miei problemi nel giornalismo, allora, non erano diversi da quelli di qualsiasi donna che, in qualunque settore, lotti per l’emancipazione. A quei tempi (70-74) separavo il femminismo dal lavoro. Il movimento era un fatto importante, ma che vivevo «fuori» e che mi portavo «dentro», in redazione, quasi clandestinamente. Il maschilismo che dominava nei giornali non mi sfuggiva ma non sapevo che farci: le donne erano poche, isolate, non organizzate. Sceglievo quindi l’atavico percorso da secoli familiare alle donne: subire, con qualche scarto di ribellione, qualche impennata solitaria.
Il fatto di non avere rapporti stabili di lavoro né l’ombra di un contratto mi metteva nella posizione di una cottimista: o mangi la minestra o salti la finestra. Mangiavo riluttante la minestra. D’altronde il settore che avevo scelto, l’ecologia, aveva il pregio, oltre che d’interessarmi molto, di non sfiorare il territorio minato della questione femminile. Erano due mondi senza contatti e quindi senza attrito. In questo modo mi sono illusa per anni di aggirare l’ostacolo. Ma dopo, il 1975, esplosa la «questione femminile», sono stata strappata di forza ai miei prediletti pascoli ecologici. Dato che da anni stavo nel movimento e mi fregiavo per di più del titolo di «direttrice» di Effe (vagli a far capire che a Effe non esistono gerarchie e che si tratta di un etichetta puramente formale, dovuta a motivi legali) non poteva che spettare a me nella logica dei miei capi, il ruolo di esperta del femminismo. All’inizio ho rifiutato, tenacemente abbarbicata ai miei antiparassitari. Risultato: i servizi venivano affidati a un collega qualsiasi, il primo che capitasse a tiro del caporedattore. Spesso si trattava di un maschio che, dopo una giornata spesa a navigare i meandri del femminismo e ad essere cacciato via dalle conventicole delle streghe veniva da me, al momento di scrivere il pezzo, a chiedere lumi. «Ma Adele Faccio sta a Pompeo Magno?».
«Ma è vero che non volete fare all’amore con i maschi?» «Ma cosa sono queste due anime del femminismo?». Rabbrividivo. Ancor di più leggendo il giorno dopo, l’essudato del collega. Il mio diniego a scrivere di femminismo aveva come unico effetto che se ne scriveva ugualmente; e male. Capitolai quando mi misi a scrivere per «La Repubblica». In fondo, riflettevo, era un giornale di «sinistra», che mirava a conquistarsi il mercato delle femministe (sulle edicole di tutta Roma sventolava la pubblicità: La Repubblica, lettera aperta a una femminista) e che quindi, se non altro per non giocarsi le lettrici, aveva interesse a trattare il tema con riguardo. Inoltre potevo fruire di alcuni colleghi «simpatizzanti» e di un caporedattore «aperto». Forte di questi ragionamenti, cominciai a «coprire» il settore femminismo insieme all’unica altra compagna della redazione, Paola. Fedeli alla nostra prassi, facevamo tutto insieme, dalla inchiesta alle dieci righe. Le nostre firme unite rendevano perplesso il direttore: «Ma che bisogno hanno, queste due, di fare tutto insieme?» chiedeva al caporedattore. Questi, da noi edotto, rispondeva: «È la prassi femminista». La cosa filò liscia, ma non mancò chi — di fronte alla nostra «inspiegabile» volontà di spartirci il campo invece che disputarci le spoglie del femminismo — sentenziò che eravamo lesbiche. A parte la difficoltà di far accettare questo insolito modo di lavorare, c’era l’ostacolo quotidiano del «come» scrivere i pezzi. Paola ed io non citavamo i nomi delle compagne, limitandoci a generici «una militante del Crac», «una femminista di Roma», in un’orgia di anonimato. Rifiutavamo le tentazioni folkloristiche — le descrizioni fisiche, le escursioni nell’erotico, i particolari ammiccanti — e abbondavamo in quelle che il caporedattore definiva con orrore «speculazioni filosofiche» e che per noi erano faticosi tentativi di spiegare cosa ci fosse «dietro»: dietro agli slogans, alle diecimila donne in piazza, ai nastri rosa. In parte ci riuscivamo, ma spesso era lo scontro. «Ma avranno un nome no, queste femministe? sbarrava gli occhi il caporedattore. Un figlio un marito. I capelli di un colore invece che un altro. Insomma, rendetemele umane». E ci riconsegnava il pezzo incriminato ingiungendo: «Riconsegnate tra mezz’ora». In mezz’ora, assaporando con – tetra voluttà il dilemma militanzaprofessionismo riscrivevamo (frenetiche telefonate a compagne perché ci lasciassero mettere almeno un paio di nomi, consultazioni lampo con i gruppi per decidere «dove» tagliare i documenti) proteggevamo la nuova versione da troppo drastiche modifiche e sorvegliavamo che il titolista non rovinasse il tutto con titoli «ad effetto». Una faticaccia. E il giorno dopo, spesso, leggendo il pezzo su cui campeggiavano le nostre firme gemelle, era la crisi. I contenuti nonostante i nostri sforzi erano sviliti, resi opachi rispetto al modo in cui li avevamo vissuti. Il movimento, cristallizzato in quella manciata di righe, era una scolorita copia di sé. Certo, l’informazione era corretta, a parte gli errori che ci sfuggivano, come a chiunque; le nostre lettrici avevano del femminismo un’immagine più fedele, meno strumentalizzata di quella offerta dagli altri giornali, ma i problemi di fondo restavano irrisolti. Gli stessi problemi, un anno dopo, si sono riproposti quando mi hanno chiesto di tenere sull’Europeo una rubrica sulla questione femminile. Dopo molte riluttanze, ho deciso di fare qualche sporadico tentativo. I redattori del settimanale erano corretti, non cambiavano una virgola del testo, mi lasciavano «mano libera»: ma era comunque un- modo di chiudere il femminismo in un recinto, di degradarlo a livello «curiosità», di argomento «à la mode». È stato tutto sommato con sollievo che ho interrotto l’esperienza.
Anche se ora, personalmente, scrivo assai di rado sul femminismo, il problema dello scontro’ tra la logica della militanza e quella del professionismo rimane. Come rimane aperta la questione del rapporto nostro — in quanto donne che scrivono sul movimento — con il movimento stesso. Rapporto che, ai tempi del mio lavoro alla Repubblica, non avendo ancora il movimento chiarito il problema dei suoi rapporti con l’informazione (che resta in larga misura da chiarire) era carico di tensioni, di diffidenze, di reciproche critiche. Il che ripropone, a sua volta, un altro problema: quello dell’aggressività interna al movimento, della nostra tendenza a scaricare le une sulle altre le tensioni derivanti dalle nostre contraddizioni. Il fatto positivo di questi ultimi mesi è che — pur rimanendo questi problemi non risolti — la coscienza della loro esistenza si va estendendo a un numero sempre maggiore di donne che lavorano nei giornali.
È stata la logica della militanza che ha permesso a molte di noi di leggere il professionismo in chiave critica, rifiutando di castrare noi stesse per adeguarci alla professione e chiedendo invece che sia la professione ad aderire al nostro essere donne, al nostro essere umane. Ci chiedono competitività, grinta, capacità di andare all’assalto della notizia, distacco dai fatti: rispondiamo che questo equivale per noi a schizofrenia, che non possiamo spaccarci in due come una mela, la parte «funzionale» a produrre e da conservare e quella che non è funzionale a niente (se non alla vita, ma questo sembra avere, nelle redazioni come in ogni altra struttura lavorativa della società attuale, scarso valore) da buttare.
Rivendichiamo la nostra emotività, la nostra partecipazione a quello che scriviamo, la nostra interezza sul lavoro.
Come donne, infatti, non mettiamo in discussione solo il professionismo, ma la nostra intera persona e ci domandiamo: «Perché lavoro? per chi?» Questo vuol dire ripassare tutto al vaglio critico, a cominciare dal concetto di «notizia». Notizia, infatti, non è tutto ciò che accade, ma la faccia pubblica della realtà, cui i mezzi d’informazione danno una «patente di esistenza». La notizia riflette i valori riconosciuti (quindi maschili), racconta storie di uomini, decisionali, i cosidetti «fatti». Il quotidiano, l’esperienza di ogni giorno, che costituisce il mondo femminile e privato non fa notizia, quindi non esiste, non viene riconosciuto come fatto sociale. Questa discriminante pubblico-privato, sociale-e-non, riconosciuto-cancellato percorre tutto il mondo dell’informazione. È forse per questo che, come donne immerse nel quotidiano, ci sentiamo così dolorosamente estranee al mondo di fare le notizie che ci viene imposto.
Il secondo problema — rapporto col movimento — è strettamente connesso al primo. Rifiutato il mito dell’obiettività, del giornalista al di sopra delle parti, ci sentiamo, come donne giornaliste, una delle parti (quella, appunto, delle donne). Il nostro modo di informare sul movimento non può non tener conto della sua peculiarità, del suo specifico modo di essere. Soltanto mantenendoci «dentro» il movimento, potremo, se non evitare del tutto, ridurre al minimo il rischio di strumentalizzare, noi stesse, il femminismo.