femminismo come nuovo umanesimo

Riflessioni di un’esule politica, socialista e atea — Tatiana Mamonova — sull’esperienza significativa dell’almanacco “Donna e Russia”, da lei firmato come redattrice responsabile e che Effe ha già pubblicato in traduzione italiana, dal quale emerge il volto di una nuova donna sovietica.

marzo 1981

Il nostro movimento esiste da non più di qualche anno. E’ nato direttamente in collegamento con l’Almanacco “Donna e Russia” di cui sono la redattrice responsabile. L’almanacco uscì — a livello non ufficiale — a Leningrado nell’autunno del 1979: è stato la prima pubblicazione libera femminista. Per metà dedicato a problemi d’ordine sociale, trattava nell’altra metà dell’attività artistica delle donne. Noi riteniamo che il femminismo allarghi i confini propri della dissidenza, perché va oltre, dispone di un programma costruttivo e non si rapporta soltanto criticamente al regime totalitario. L’almanacco “Donna e Russia” sin dal primo numero ha sollevato problemi precedentemente mai posti dai dissidenti. Noi abbiamo cominciato a parlare di quello che preoccupa ogni donna, indipendentemente dalla sua età, dall’estrazione sociale, dalla nazionalità, dalle convinzioni. L’almanacco ha fornito una tribuna alle donne: a quelle con un lavoro qualificato come a: quelle con un lavoro non qualificato, alle casalinghe come alle studentesse, alle donne delle pulizie. Sin dal primo momento abbiamo pensato al movimento come a un movimento di massa e non elitario. La positività del programma delle donne dipende proprio dall’essere-donna, dalla sua natura altruistica: la donna che dà la vita non può che essere contro la violenza di qualsiasi tipo: in Vietnam come in Afghanistan, non è questo il punto. Che si usi una pistola oppure una bomba al neutrone non ci pare sia l’aspetto fondamentale perché entrambi servono per la distruzione degli esseri umani. Io penso che oggi il femminismo rappresenti un nuovo umanesimo.
All’inizio il nostro almanacco non ha trovato l’eco dovuta — con l’eccezione di Andrej Sacharov, che consideriamo un sincero democratico — all’interno del dissenso maschile, dove di fatto esistono delle tendenze fallocratiche. Io stessa mi sono scontrata con il sessismo, quando all’inizio degli anni ’70, uscendo dall’ufficialità ho aderito al fronte dei pittori non conformisti. Presto sono arrivata alla triste conclusione che questi pittori forse erano dei non conformisti in arte ma nel loro rapporto con le donne si comportavano come dei perfetti conformisti. E comunque voglio sottolineare come il nostro movimento non sia diretto contro gli uomini, ma contro “l’ingiustizia”. Il mio è un marito femminista se così si può dire: la nostra è una famiglia egualitaria, tutti i lavori sono divisi in parti eguali, come del resto l’educazione del nostro bambino è appunto l’educazione del “nostro” bambino. Certo l’uguaglianza dei diritti non è un’aritmetica e la parità non è identicità.
Questo l’aveva capito August Bebel nel suo splendido libro “La donna e il socialismo”, come l’avevano parimenti capito Fourier, Engels, Gorkij ed altri. Loro avevano capito che la condizione delle donne definisce la società stessa; la qualità della società. Di questo abbiamo parlato e letto, anche nei libri di Aragón, Remarque, nella cui lettura ci siamo sprofondate negli anni ’60 durante la breve liberalizzazione in URSS.

Io mi annovero nella generazione del ’68, l’anno della occupazione della Cecoslovacchia e del maggio francese, quando per la prima volta abbiamo cominciato a riflettere seriamente e ad avere dei dubbi su quanto fosse “giusta e felice la nostra società”. Ma le illusioni non sparirono e quando mi chiamarono in quel periodo al Kgb per una questione relativa a un mio amico, ritenni possibile discutere lì del giornale libero di donne che avrei voluto creare. Questo fu annotato e quando nel 1979 uscì l’almanacco, chiamarono me in primo luogo al Kgb, nonostante nell’Almanacco non fosse registrato il nome dell’editore. La reazione del Kgb è stata forte. Hanno capito subito che questa opposizione non sarebbe stata né isolata né di respiro corto. Le donne costituiscono la metà della popolazione sovietica e l’almanacco, sollevando problemi riguardanti la situazione nelle case di maternità, cliniche per aborti, asili, nelle famiglie, l’almanacco che parla di alcolismo e delle donne violentate, delle ragazze-madri e delle prigioni femminili non lascia certo indifferenti le donne. Nessuna donna. Hanno cercato di convincermi al Kgb, di spaventarmi. Ma sono arrivate altre donne in redazione, fornendo così nuove forze. Allora al Kgb hanno deciso di passare a misure più radicali: il 10 dicembre, nel giorno del mio compleanno ho ricevuto dal Kgb un regalo: mi annunciarono che come redattore responsabile dell’almanacco mi si avvertiva ufficialmente ohe in caso fosse uscito un secondo numero di “Donna e Russia”, io sarei stata arrestata. Era la giornata dei diritti dell’uomo.
Ma il nostro inizio aveva avuto una tale risonanza nell’opinione pubblica mondiale che la pubblicità della cosa ci garantiva la difesa e ci dava la possibilità di far uscire il secondo numero dell’almanacco, che di fatto uscì sotto altro nome: “Rossjanka” cioè Russia. Vennero a Leningrado delle femministe dei Paesi occidentali e presto il primo e il secondo numero furono pubblicati in Francia, a Parigi.
La qual cosa, da una parte comportò ritorsioni del potere ma dall’altra creò nuovo entusiasmo per l’ampliamento della sfera delle nostre attività. Cominciarono i controlli: mio marito fu chiamato al distretto militare, insieme poi fummo convocati dalla polizia*; tentarono di incolparmi di parassitismo e di libera iniziativa economica; i coinquilini dell’appartamento comune, incitati dal Kgb, intercettavano la posta, non ci facevano parlare al telefono. Ma la nostra redazione continuò a funzionare e se nel primo numero avevano scritto donne russe e delle repubbliche vicine — l’Estonia, l’Ucraina — nel secondo c’era la testimonianza di-una donna della Kamchatka, e nel terzo — che uscì a Leningrado nella primavera dell”80 — c’erano donne del Caucaso, degli Urali, dell’Asia centrale.
A volte mi domandano perché io abbia chiamato l’almanacco, “Donna e Russia”. In primo luogo c’è in questo una reazione allergica al termine “sovietico” o “sovietica” di cui ne abbiamo fin sopra i capelli. Per noi Lenin è stato un grande rivoluzionario, ma questo non vuol dire che la città costruita sulla Neva, ai tempi dello zar -(Pietro, dovesse per forza cambiare nome (Pietrogrado, divenuta, dopo la rivoluzione, Leningrado). Ovviamente questa nostra posizione non è certo di principio, se mai romantica. Invece sono per noi fondamentali i problemi che abbiamo sollevato Noi abbiamo dei dubbi che il nostro Stato sia socialista. Per me, personalmente, gli ideali della rivoluzione, e anche quelli del periodo pre-rivoluzionario, restano validi. Alla rivoluzione sono legati i nomi di tante donne stupende: Sofia Perovskaja, Vera Finger, Vera Zasulioh, Larissa Reisner, poetessa e commissario… In quegli anni la Russia diede al mondo intero poetesse come Marina Svetaeva e Anna Achmatova. In quegli anni esisteva il femminismo e molti erano pronti a morire per i propri ideali. Ma la Russia era troppo indebolita dalla guerra civile, dall’intervento, dalla fame. Sul suo corpo dissanguato crebbe come un parassita lo stalinismo, la controrivoluzione stalinista. In particolare, in quel periodo furono relegati nell’ombra o ignorati del tutto i problemi propri delle donne. Furono distrutte le migliori forze intellettuali della Russia e si verificò una frattura tra le generazioni. Il movimento femminista è nato si può dire in un deserto di memoria storica e le donne non sanno nulla del femminismo russo d’inizio di secolo.
Io non ritengo che Krusciov fosse un politico ideale, ma non si può negare che nella sua politica fossero presenti degli elementi popolari e che gli anni sessanta dopo il buio totale dello stalinismo furono un periodo di disgelo, una ventata di aria fresca. In quegli anni furono editi alcuni libri sulla questione femminile; Katerina Furzeka fece parte del governo, Valentina Thereskova volò nel cosmo. Sulla Thereskova voglio dire due parole: il suo essere prima donna-cosmonauta è stato un suo successo personale che fu in seguito strumentalizzato e di fatto ritorto contro le donne. Io, come donna sovietica, ho cercato per ben quindici anni di entrare a far parte del Comitato delle donne sovietiche, guidato appunto dalla Thereskova, e alla fine ho dovuto concludere che per potervi entrare, in questa organizzazione — che è del resto l’unica per donne — bisognasse innanzitutto essere cosmonaute.
Non è difficile inserire nella Costituzione i punti 35 e 53, che parlano dell’eguaglianza di diritti propria delle donne, mentre è notevolmente più difficile realizzarla nella pratica.
F>a noi un’erronea comprensione dell’emancipazione ha comportato per le donne l’acquisizione del diritto ai lavori pesanti: in URSS sono le donne che lavorano come inservienti e ancora nei cantieri e alle ferrovie, con mansioni tra le meno qualificate; a Leningrado il 90% dei ‘portieri è costituito da donne; questo lavoro sino alla rivoluzione era considerato tipicamente maschile proprio per la sua pesantezza.
Nella maggioranza delle famiglie sovietiche si è conservata una struttura patriarcale: la donna deve occuparsi del marito, dei figli, e di solito lavora. Io so che all’ovest molti sono sorpresi del fatto che ci siano tante donne-medico in URSS. Non bisogna dimenticare che questa professione è tra le meno remunerate. Nei nostri ospedali la situazione tipica è questa: come terapeuti di solito lavorano le donne: ricevono circa trenta pazienti al giorno, il che le esclude dalla possibilità di un approccio creativo al lavoro e di un rapporto personale con il malato. Finito il lavoro, devono stare per ore in fila, per fare la spesa, e poi ancora preparare il pranzo. I direttori sanitari e di ospedale di solito sono uomini: lo stipendio è più alto, sensibilmente più alto, il lavoro minore, c’è più tempo per scrivere la propria tesi di dottorato.
Certo, ci sono donne qui da noi che facendo sforzi incredibili oppure rinunciando alla famiglia, riescono a fare carriera, ma questo è un loro merito individuale, e non dello Stato, perché lo Stato non garantisce alle donne le condizioni necessarie per poterlo fare. Allo stesso modo mancano le condizioni minimali proprie delle case di maternità, nonostante che da noi si parli molto del fatto che lo Stato si occupa delle donne. Io e le mie amiche abbiamo sperimentato di persona questa “attenzione” da parte dello Stato. In queste case 7,-10 donne insieme si contorcono sui tavolacci e gridano per il dolore. L’atteggiamento del personale è di disprezzo e collera allo stesso tempo. C’è da dire che la stanchezza e il malumore del personale sono comprensibili: è un lavoro duro, non bastano le braccia. Resta il bisogno di cure e di attenzione che ha una donna che partorisce, mentre un’atmosfera del genere traumatizza. Anche il bambino. Io ho partorito in un ospedale di Leningrado ma anche lì non sono riuscita ad ottenere che mio marito fosse presente, non ho potuto parlare con lui neppure per telefono. Mi rifiutarono anche l’anestesia, nonostante il parto fosse molto lungo e doloroso. Non riuscii a farmi una sola doccia per tutti i dieci giorni trascorsi là. Ci ripenso oggi come ad un incubo. Ma negli “abortari” la situazione è persino più disumana. E’ come una catena di montaggio. L’aborto viene praticato contemporaneamente a diverse donne; in alcuni “abortari” le donne vengono “legate” alle poltrone. Molte donne svengono per il dolore. Il trauma psichico e fisico è inevitabile. Eppure conosco donne che hanno avuto 15 aborti. Da noi non c’è educazione sessuale, i contraccettivi sono pochi e quelli che ci sono inefficaci. Io non penso che la libertà di abortire sia un fatto negativo, perché la donna deve essere libera di scegliere. Tanto più che da noi la violenza sessuale è abbastanza diffusa e la donna rimane incinta contro il suo volere. E’ ovvio che non voglia avere un figlio da un sadico. In teoria la legge dovrebbe difendere le donne. E formalmente noi abbiamo una legge che condanna il violentatore a 5-7 anni di prigione, ma non più dell’I % delle dorme usufruisce della legge, perché un’altra legge, non ufficiale, quella che governa il corso delle cose, fa vergognare le donne per la violenza da loro subita. In base a questa “legge” non ufficiale, la donna è la vera colpevole, se la picchiano, se la violentano, se suo marito si ubriaca etc. Sappiamo che in occidente c’è questo slogan, “diritto alla vita” contro l’aborto. E’ uno slogan ipocrita, come lo sono molti slogans sovietici, il diritto alla vita lo ha non solo il feto ma anche la donna che dà la vita. Noi non vogliamo la soppressione della Costituzione sovietica, delle sue leggi giuridiche ma vogliamo che queste vengano osservate realmente. E vogliamo che vengano create le condizioni necessarie per poterci servire di queste leggi.
La nostra classe dirigente di partito vive “nel comunismo”, è garantita dallo Stato, poco le importa come vive la gente. Il nostro governo di gerontocrati agonizza e non può confrontarsi positivamente con i problemi che gli stanno di fronte. Il partito al potere in URSS è un partito di destra nonostante si definisca “comunista”.
La situazione in URSS lascia a desiderare, ma noi continuiamo a credere nella possibilità di una democratizzazione del Paese.
Noi, nel nostro almanacco, mettiamo in rilevo l’importanza di una rivoluzione delle e nelle coscienze, non pensiamo quindi a eventuali rivoluzioni cruente.
La donna sovietica è educata in un’atmosfera di bugie: sin dall’infanzia la convincono che è emancipata e in tutto pari agli uomini. Senza che prenda coscienza di una sua specificità: il fatto che possa dare la vita.
Si è vero, le ragazze da noi possono ricevere la stessa educazione dei ragazzi. Ma fare carriera è per loro molto più difficile, perché da una parte sono considerate “il sesso debole”, e dall’altra esistono nei loro confronti molte più aspettative, più richieste che rispetto agli uomini. La donna ideale deve avere molti figli, essere una stakanovista sul lavoro e, ovviamente, deve essere bella. E questa è ima beffa in tutti i sensi.
La donna vuole una maternità cosciente, vuole avere un ruolo attivo nella vita della società.
Le statistiche sovietiche ci forniscono dei dati stupefacenti e abbastanza rispondenti al vero panche se noi abbiamo imparato a non credere alle statistiche) sulla scarsa attenzione che il partito comunista presta alle donne. Nel partito ci sono solo il 25% di donne, nonostante le donne costituiscano la metà della popolazione complessiva dell’URSS.
Ma la situazione nell’ambito del dissenso non è migliore: l’atteggiamento nei confronti delle donne è lontano dall’essere democratico. Molte pubblicazioni di dissidenti emigrati molto spesso discriminano le donne fortemente a tutti i livelli. Il “mar” — un linguaggio volgare molto specifico che distrugge qualsiasi qualità, che spersonalizza la donna rendendola esclusivamente oggetto di piacere per l’uomo — non si è solo intrufolato nella stampa degli emigrati, ma ne è divenuto un asse portante. Ci stupisce che persone che avevano aspirato alla libertà la vivano ora in questo modo.
Certo 41 movimento di eterodossi è da noi complesso e ramificato. C’è un’ala di sinistra in cui noi ci annoveriamo, e c’è quella di destra, quella nazionalista.
Anche il movimento cattolico ortodosso è di destra, elitario e artificiale. Ci sono i tentativi di “cristianizzazione” del femminismo da parte del gruppo “Maria”, che ha collaborato al primo numero dell’almanacco e che ripropone la vergine come ideale, il che ci sembra inattuale per una donna moderna. In URSS ci sono anche altre religioni: c’è l’islamismo, il buddismo, ci sono le religioni pagane di piccoli gruppi etnici. L’orientamento del gruppo “Maria” può solo favorire la separazione delle donne.
Il terzo numero dell’almanacco “Donna e Russia” comprende articoli di donne dell’Asia centrale, del Caucaso, della Kamchatka, che non sono assolutamente cattoliche ortodosse e la maggioranza delle quali è semplicemente atea.
Nel quarto numero vogliamo fare un servizio speciale sulle donne della Bulgaria, dell’Ungheria, della Polonia, della Cecoslovacchia, della Jugoslavia, della Romania.
Le donne dei Paesi socialisti e dell’URSS si trovano in una situazione di totale isolamento rispetto al movimento femminista internazionale. Molte di loro sono femministe e non lo sanno: il nostro compito è di informarle e dar loro la possibilità di esprimersi.
In particolare, questo non è un segreto, in UJRSS come all’ovest ci sono le donne omosessuali.
Le donne sovietiche omosessuali sono costrette a nascondersi e a vivere ghettizzate, perché in caso di scoperta ufficiale della loro “particolarità” possono essere rinchiuse in manicomio. Ci sembra che debbano poter avere il diritto di amare chi vogliano.
Per quanto riguarda i 5 rubli che una ragazza-madre riceve dallo Stato e con i quali dovrebbe vivere con il suo bambino un mese — mentre di fatto non ci si può vivere più di un giorno solo — ci sembra che lo stato debba assicurare alle donne la difesa della maternità in modo più sostanziale.
Le donne sovietiche sentono per radio, vedono alla televisione e leggono nella stampa che le strutture di assistenza all’infanzia si ampliano, crescono di numero: ma nella realtà dei fatti risulta essere molto difficile trovare un posto. Bisogna fare delle file snervanti, i genitori devono entrambi lavorare. Io, per esempio, essendo pittrice e scrittrice e lavorando a casa, non ho mai potuto usare questi servizi come il nido e l’asilo infantile.
Noi pensiamo che la creazione di un comitato femminista internazionale sia indispensabile per realizzare un controllo sulla situazione delle donne nei Paesi a regime totalitario e per sostenerle nella loro lotta.
Io penso che le donne, unendosi, possono trovare insieme soluzioni ottimali, perché i problemi sono dappertutto così simili!
Le donne occidentali hanno la loro esperienza, positiva, delle cose; noi, la nostra. Uno scambio di esperienze sarà utile a noi.
L’almanacco ‘Donna e Russia” ci ha dato la consapevolezza del nostro potere. Le conseguenze non sono state solo negative: sì, gli arresti, l’esilio, le perquisizioni, ma anche la trasformazione della stampa ufficiale.
In un anno di vita del movimento femminista in URSS sono comparsi sulla stampa molti articoli sulla questione femminile. Ovviamente senza citare l’almanacco. Spesso erano articoli retorici, ma per lo meno si ponevano il problema. Questo vuol dire che ci saranno delle menti che cominceranno a riflettere.
Il nostro Stato, definendosi “socialista”, non può continuare ad ignorare totalmente la responsabilità morale che ha di fronte al popolo. E se noi continueremo a far presente al potere sovietico che non può sottrarsi a questa responsabilità, i cambiamenti saranno inevitabili.
Certo, mi si può chiamare “romantica e sognatrice”, ma io penso che non si possa cambiare il mondo, se non si vedono possibili prospettive di fronte a sé…
Tatiana Mamonova
(a cura di Mimma De Leo)

Una dissidente pericolosa
Nata il 10 dicembre 1943 nella campagna intorno a Leningrado, durante l’evacuazione di questa città, Tatiana Mamonova è figlia di un noto giurista e di madre ragioniera. Trascorre l’infanzia e la giovinezza a Leningrado, dove frequenta prima le scuole medie e superiori e poi l’università, facoltà di farmacia: studi nel corso dei quali mostra particolare attenzione per la farmacopea popolare medicinale, l’antica erboristeria. Viaggia molto in URSS e si ferma nel corso degli anni ’60 per fare pantomima e poi occuparsi di un argomento che la appassiona molto: la questione femminile. Ne scrive anche in pubblicazioni ufficiali che però nei primi anni settanta, finito il clima di liberalizzazione legato a Krusciov, le chiudono gradualmente ogni spazio tanto che potrà scrivere solo recensioni e non più riflessioni e saggi di argomento socio-politico. Nell’autunno del ’79 firma come redattrice responsabile il primo numero dell’almanacco “Donna e Russia” — tradotto su Effe, n. 1-2 gen.-feb. ’80 — che raccoglie testimonianze di varie donne sulle loro condizioni di vita in Unione sovietica. Minacciata ripetutamente dal Kgb, la polizia segreta sovietica, se si occuperà ancora dell’almanacco, Tatiana Mamonova continua a raccogliere testimonianze di donne che invia per la pubblicazione in occidente. Espulsa nel luglio ’80 dall’Unione Sovietica — seguendo così il destino dei dissidenti considerati più pericolosi perché più noti (agli altri si assegna la galera ossia il silenzio) — insieme con il marito e il figlio di 5 anni, Tatiana Mamonova vive ora a Parigi.

Tatiana a Roma
Tatiana Mamonova è giunta a Roma il 16 febbraio scorso per filmare un’intervista televisiva per “Si dice donna”, 4a rubrica della rete 2 che va in onda ogni quindici giorni. Tatiana Mamonova è venuta a trovarci nella redazione di “Effe” e ci ha portato dei materiali elaborati da lei in questi mesi, durante l’esilio a Vienna e poi a Parigi. Tatiana era reduce da un tour di conferenze negli Stati Uniti, durato circa un mese, nel corso del quale ha toccato tredici università americane, dallo Stato di New York alla California. Tatiana si è incontrata anche con alcune amiche italiane, che abbiamo invitato a un incontro con lei nella saletta del teatro “La Maddalena” lunedì 16 febbraio alle 18. Il clima era decisamente affettuoso e partecipe, molte le domande alle quali Tatiana ha risposto esaurientemente con l’aiuto di un’ottima interprete. L’impressione che abbiamo avuto di lei è di una donna colta, forte e decisa, politicamente preparata, socialista convinta, addolorata che nel suo paese l’ottusità burocratica — che ha accompagnato e seguito la “controrivoluzione” staliniana — impedisca lo sviluppo del socialismo, che per lei rappresenta l’unica vera possibile speranza del futuro. Se potesse, vorrebbe tornare a lottare in Unione Sovietica; se dovesse continuare l’esilio, preferirebbe vivere in Italia piuttosto che a Parigi dove risiede attualmente.