ferrovie : se è donna il treno non parte
il primo concorso con cui le donne furono ammesse in Ferrovia fu con la qualifica di «aiuto applicato stenodattilografe»» nel 1961 (vi parteciparono quasi tutte donne). Prima di allora le donne presenti erano state assunte durante la guerra, soprattutto perché orfane o vedove di ferrovieri. La legge 668 del 1967 ha annullato qualsiasi preclusione di lavoro nell’esercizio, cioè nelle stazioni e sui treni, ancora esistente per la donna. A questo punto dovremmo inneggiare alla raggiunta parità dei sessi e all’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato, che, appunto, come Azienda di Stato di uno Stato moderno, ha lasciato lo spazio alle donne perfino nei lavori ritenuti più pesanti e più «maschili», come manovratore, macchinista, deviatore, verificatore, manovale ecc. senza più nessun pregiudizio verso il sesso cosiddetto debole nel Medio Evo. Ma prima di approfondire il contenuto di questa presunta parità, esaminiamo ancora qualche dato tecnico. Le donne ferroviere sono 7.862 su un personale di 220.000 unità, escluse le assunzioni di quest’ultimo anno che certamente non variano di molto i dati; il quadro per qualifica vede presenti le donne soprattutto nel personale esecutivo degli uffici e delle stazioni, rispettivamente 2,248 e 1.239, più ancora una larga percentuale nel personale di vigilanza (guardiano 1.916). Il quadro per compartimento vede più numerose le donne nei compartimenti del nord soprattutto Torino e Milano; la statistica per età, infine, ci mostra circa 3.500 donne oltre i 40 anni e circa 2.500 fino a 30 anni, il resto tra i 30 e 40 anni. La statistica per qualifica è certamente la più illuminante, infatti mette in evidenza in maniera inequivocabile come la maggior parte delle donne vada a ricoprire qualifiche subalterne, sia negli uffici che all’esercizio, Alla donna che lavora all’esercizio, in virtù del mito della «raggiunta parità», non si concedono «agevolazioni» di sorta, se non la cavalleria piccolo borghese del «ti faccio questo perché sei sempre il sesso debole».
Quindi turni in terza (pomeriggio -mattina – notte), spesso con mancanza di strutture primarie immediate come gabinetti, dormitori, ecc. e con mancanza totale di strutture altrettanto primarie come asili nido a tempo pieno, con tutte le difficoltà, poi, che crea il lavoro notturno per la donna, per esempio la paura della violenza, il rapporto con il marito o con i figli, che diventa schizofrenico oltreché doppiamente gravoso, quando tutto il lavoro domestico e la cura stessa dei figli rimane a carico della donna. E allora si dice che la donna si «imbosca» negli uffici, che, quando si accorge del peso e del disagio del lavoro nelle stazioni e sui treni, cerca ogni scusa per trovare un lavoro «più adatto» A fronte di questo va osservato, in primo luogo, che la percentuale dei lavoratori uomini che si «imboscano» negli uffici non è senza dubbio minore, perché, stante questo tipo di organizzazione del lavoro, il lavoro che corrisponde a certe qualifiche è ugualmente gravoso per tutti; in secondo luogo, l’Azienda dovrebbe sopportare un maggior costo del lavoro se lasciasse le donne all’esercizio, quantomeno, per esempio, per i dormitori; per cui, mentre da una parte liberalizza l’entrata delle donne a tutte le qualifiche, di fatto le tollera finché sono nubili, poi, o queste rinunciano al marito e alla maternità, o devono necessariamente cercare una sistemazione diversa, spesso data come una paternalistica concessione, come un favore, tacciandole di assenteiste inguaribili. Quando poi la donna riesce ad inserirsi in alcune qualifiche, rimane una discriminazione culturale di fatto nei suoi confronti, basata sull’idea che tanto certi lavori non li sa comunque fare o li farà fintanto che non si sposa o sono sempre lavori da uomini(significativo il caso di quella donna capo stazione che, dato il segnale di partenza ad un treno, ha visto il macchinista attendere non convinto, finché un altro capo stazione uomo non gli ha confermato che poteva partire) o addirittura la convinzione ancora che la donna lavoratrice, specialmente se fa certi lavori «pesanti», toglie il posto all’uomo. Non che la donna inserita negli uffici raggiunga peraltro uno stato di beatitudine superiore.
Abbiamo già detto, infatti, che la maggior parte delle donne sono applicato, cioè dattilografe, cioè scrivono a macchina per sei ore, ammucchiate come esseri non pensanti in uffici copia, più o meno abbelliti secondo la benevolenza e la bontà dei capi, in cui oltre al frastuono di 4 o 5 macchine nel migliore dei casi, svolgono i lavori più disparati di copiatura. Da notare che l’applicato uomo molto raramente è adibito a lavori di dattilografia.
La «scalata gerarchica», peraltro molto difficile per le donne, è consentita solo a prezzo che si diventi uomo, senza mettere in discussione non solo il potere gerarchico, ma il modo di essere «capo», che deve assomigliare a dei clichés consolidati. Non a caso le donne dirigenti su 7.862 sono solamente 12.
Anche la donna degli uffici, quando si sposa e ha figli, subisce un processo di disistima, viene considerata una persona su cui non si può contare, sicuramente comincerà ad assentarsi più spesso dall’ufficio e perciò gli si affiderà un lavoro di poca responsabilità perché il suo impegno maggiore diventerà «naturalmente» la cura della casa e dei figli. Viene così colpevolizzata, quando, sia pure avendone formalmente diritto (vedi legge sulle lavoratrici madri del ’73), resta a casa se si è ammalato il figlio piccolo o se prende l’aspettativa, perché i nidi mancano e non sa a chi affidare i figli. Spesso paga la «colpa -di avere figli» e quindi di non essere più produttiva, con il trasferimento ad altri uffici, ó con l’acquiescenza imperitura ai capi se, bontà loro, gli hanno conservato il posto per i mesi del puerperio. Non parliamo poi dell’emarginazione che subisce la ragazza madre, spesso trasferita subito dall’ufficio, per salvare il «decoro» dell’ufficio stesso e del suo capo, oppure tollerata paternalisticamente, concedendogli il perdono ma giudicandola sempre una puttana. La tolleranza dell’Azienda arriva perfino a consentire alla donna di fare la spesa, come se fosse suo piacere quotidiano irrinunciabile girare per i banchetti del mercato o nei negozi affollati con pacchi e borse questo o allo scopo di risparmiare qualche lira o perché il pomeriggio bisogna badare ai figli, e tutto questo sempre per la stessa medesima mancanza di strutture di quartiere (supermercati, scuole a tempo pieno, ecc.), di cui la donna in primo luogo ne porta il peso. Anche l’uscita a fare la spesa, d’altro canto, è spesso tollerata e costa ringraziamenti, acquiescenza, favori, insomma ancora doppia umiliazione per la donna.
Il modello di donna accettato negli uffici, quindi, è quello della femmina carina, sorridente, che ha sì una sua dignità e responsabilità, ma non mette in discussione il potere maschile consolidato e «obbedisce» comunque sempre, insomma la donna è sicuramente bene accetta con tutta la sua femminilità, se questa vuol dire rendere più accoglienti gli uffici e più gentile il contatto con l’esterno.
In altri termini, sia all’esercizio che negli uffici, alla donna, oltre ad una produttività reale, ne viene chiesta un’altra formale, che è l’essere oggetto di abbellimento, C’è da dire, infine, che il Sindacato con la sua struttura maschilista, burocratizzata e sclerotizzata che non consente spazi per un dibattito autonomo tantomeno «femminista» e con il suo linguaggio estraneo alle donne e cioè retorico, difficile, competitivo, non favorisce affatto la partecipazione delle donne alle assemblee, ai dibattiti, a meno che non possano essere sindacaliste a tempo pieno, non facciano naturalmente «del femminismo», e facciano politica come gli uomini.
A questo punto, sembrerebbe quasi superfluo dire perché abbiamo sentito il bisogno di riunirci tra donne, ma dobbiamo però precisare che l’ottica femminista, se così si può dire, è intervenuta dopo, il nostro primo momento di aggregazione è stata la lotta per l’asilo nido della Direzione Generale, di un anno fa circa. Questo asilo aziendale, costruito per un certo numero di donne all’epoca impiegate presso le F.S. di Roma, con l’aumentare del numero delle donne è diventato sempre più insufficiente, fino al punto di non ammettere più bambini piccoli se non dimettendo bambini più grandi, Le donne più volte in assemblee avevano rivendicato l’ampliamento della struttura esistente. Ostacolate sia dall’Azienda che dai sindacati, che vedevano questa struttura sociale come un privilegio e non come un diritto, si sono organizzate in un «comitato di lotta per l’asilo nido» ed hanno portato avanti in prima persona la lotta, scegliendo gli obiettivi insieme e dimostrando una grossa capacità di mobilitazione che ha rotto tutti gli schemi precostituiti, per esempio facendo assemblee non autorizzate durante l’orario di lavoro, dichiarando scioperi senza sigle sindacali, facendo cortei interni ed esterni (vedi Effe n. 12 del mese di dicembre), occupando l’asilo nido, picchettando la stanza del Ministro ecc.
Questo primo momento di contatto tra donne su un problema specifico ha fatto crescere il livello di coscienza di molte di noi, infatti, in quella occasione, le donne, in genere passive in altri tipi di lotta precedenti, hanno dimostrato di saper gestire i propri interessi e la lotta che ne derivava, in maniera autonoma, scontrandosi anche con la burocrazia sindacale e rendendosi in tal modo coscienti delle proprie capacità e della propria forza.
Così, in occasione dell’8 marzo scorso, abbiamo sentito l’esigenza di non aderire all’assemblea fatta alla presenza dei vari Direttore Generale, Sottosegretari di Stato e dirigenti sindacali, i quali, oltre che «sparlare» di problemi che non erano i loro, non lasciavano lo spazio alle donne di parlare e di confrontarsi realmente e abbiamo invece utilizzato le due ore per fare un’assemblea autonoma, dove abbiamo iniziato ad osservare la nostra realtà più complessiva di donne, costituendoci da quel momento in collettivo.
Abbiamo così capito che il lavoro, pur mettendo in evidenza delle forti contraddizioni tra il nostro voler essere nella società e il rimanere di fatto ancorate al nostro ruolo di madre, moglie o compagne che sia, attraverso tutta una serie di modelli che, abbiamo visto, anche l’Azienda F.S. ci presenta e ci fa vivere, il lavoro, dicevamo, tutto al più poteva «emanciparci» ma non contribuiva affatto ad iniziare una nostra liberazione e che solo tra donne e con altre donne saremmo invece riuscite a uscire dalle frustrazioni che il potere maschilista e del sistema ci impongono. Lavorare, così, in questo tipo di sistema, stanti queste strutture sociali,
significa sopportare di fatto il peso di un doppio lavoro (l’ufficio, la casa e i figli), di una doppia alienazione, significa vivere scisse, in paranoia tra le carte d’ufficio e il pensiero della spesa, dei figli, dell’organizzazione della casa.
Significa vivere una sensualità frustata, stanca, consumata, quando va bene, nei ritagli di tempo o al sabato sera. Per questo abbiamo sentito l’esigenza di discutere oltre il lavoro, che è solo una delle condizioni che ci accomuna come collettivo, perché prima ancora siamo donne e vogliamo esserlo nel nostro modo di lavorare, di far politica, di avere rapporti. E così tra noi ci sono anche compagne non ferroviere, perché la condizione di donna preesiste alla condizione di donna-lavoratrice e per parlare di liberazione occorre mettere in discussione la divisione dei ruoli, il peso del ruolo della donna, come vive la sessualità, il rapporto con il suo corpo, l’aborto, il problema della contraccezione, la maternità, il potere maschile, la violenza, quale ruolo gioca la donna all’interno della società borghese, come cercare la propria autonomia e la propria sicurezza. In quest’ottica abbiamo cominciato all’interno del collettivo ad affrontare, sia pure ancora parzialmente, alcune tematiche come la famiglia, l’aborto, la conoscenza del nostro corpo (quest’ultime attraverso incontri con le compagne del gruppo della salute della donna). In questo momento cerchiamo di scoprire più specificamente chi siamo, i nostri bisogni, le nostre frustazioni, come i condizionamenti culturali tradizionali passano, su ognuna di noi, attraverso il piccolo gruppo, per cercare anche una maggiore omogeneità fra noi. Cerchiamo in questo momento anche un contatto con altre ferroviere, soprattutto dell’esercizio, perché il collettivo è per la maggior parte costituito da ferroviere del Ministero e alcune della stazione Termini però sempre lavoratrici degli uffici.
Nostro obiettivo è sicuramente quello di lottare, come donne ferroviere, contro le carenze strutturali che abbiamo esaminato e, anche capire che ruolo giochiamo come donne all’interno di un’Azienda fornitrice di un servizio sociale. Questo però, di pari passo e nella prospettiva di una nostra liberazione, come donne che vogliono vivere la propria diversità, quella che è frutto di una nostra scoperta e conquista e non quella che ci impongono come esseri inferiori.