la donna nel cinema italiano
«l’eterno femminismo nel cinema italiano» questo titolo ci ha accompagnato per quindici giorni al Politecnico, dove la diva italiana ci raccontava la non mai narrata storia delle donne nel cinema. Infatti in questa rassegna si è voluto considerare prevalente la visione più generale, prendendo per spunto particolarmente il cinema italiano, dell’evoluzione della diva nell’arco di anni che va dall’inizio praticamente della cinematografia nazionale fino ai giorni nostri, percorrendo così una galleria di personaggi femminili attraverso le varie epoche storiche. I cicli di films che ininterrottamente venivano proiettati, dimostrandoci da un anno all’altro, il cambiamento nel gusto e nello stile delle nostre più significative dive, ci ha viste coinvolte, forse ancor prima della riflessione critica, nella nostra emotività: come recepivamo noi nel passato queste trame filmiche e come le abbiamo vissute oggi nella sala? Mentre ora, per noi, certe situazioni sono paradossali, ieri, invece, eravamo coinvolte nell’identificazione nostra con «le eroine» dei films: l’assorbimento era completo davanti a storie d’amore, generosamente propinateci, perché l’amore rappresentava l’unica grande avventura che la donna poteva vivere all’interno della «fiction». Quasi sempre il livello di coinvolgimento ci ha viste partecipi e convinte spesso, di una realtà femminile di madonne o puttane, angeli del focolare o demoni distruttori di famiglie, a sostegno generalmente dello intrecciarsi della vera storia del film attorno al personaggio centrale: l’uomo.
La nostra convinzione, influenzate dal flusso magnetico della celluloide, era basata sull’essere donna come vita di sacrifici, amori e sudditanza infine. Oggi, con il femminismo abbiamo capito: l’amarezza di essere assenti nella storia del cinema, non solo come registe, ma soprattutto come dive, manipolate queste dalla tendenza culturale maschile, che per anni ci ha strettamente unite, noi spettatrici, nel chiuso della nostra poltrona a vivere sogni costruiti nel nulla, loro, immagini vacue, non corrispondenti, inesistenti perché escluse dalla storia. La riedizione di questi film ci ha aperto la strada alla riflessione sulla condizione di colonialismo culturale, che seppure soggetta a delle storiche variazioni, ha mantenuto tuttavia costante lo sfruttamento della immagine femminile a specchio della condizione più ampia di sfruttamento ed oppressione della donna nella società. Queste analisi trovano conferma proprio là dove nel cinema «popolare» italiano viene offerto ancor meglio, forse, del cinema impegnato o d’autore, il cambiamento sensibile alle epoche storiche nell’evoluzione della concezione della donna. Di tutto questo il Politecnico ci ha offerto la possibilità, dimostrandoci praticamente dagli anni ’20, il cambiamento del gusto e dello stile e, elemento fondamentale, della variazione estetica, il famoso «sex-appeal».
Negli anni ’20, con la rappresentanza della gloriosa E. Bertini, in «Assunta Spina», il divismo italiano è dominato dal peso delle donne fatali, ancor più degli attori maschi: basti accennare che, una delle cause del futuro crollo dell’industria cinematografica italiana, fu dovuta all’esosità di compensi economici richiesti dalle dive del muto: «il vertice è raggiunto da G. Bertini che, nel 1919, guadagna tre milioni, seguita da Pina Menichelli (due milioni e mezzo), e poi, con un certo distacco… da L. Pini, Soava Gallone ed Hesperia con trecentomila all’anno». Le somme erano conseguenti al personaggio della «prima», in senso storico, diva la cui vita privata era circondata da un alone di mistero, di sacralità, che la rendeva irraggiungibile e magica creatura. Con l’avvento del fascismo, il fascino misterioso della femminile sensualità delle dive del muto, subisce una brusca inversione di rotta: è l’era della donna sposa e madre esemplare, regina della famiglia, che dal suo microcosmo contribuiva affinché le italiche virtù risplendessero come fulgidi esempi. Il tentativo del fascismo fu sempre di monopolizzare il mezzo cinematografico:
per un lato ci riuscì, contribuendo allo sviluppo del cinema di propaganda, ma i films a cui il pubblico amava riferirsi erano parte integrante di quel cinema di evasione, afascista diremo, che proponeva un’ora di rilassamento con le piccole storie della vita quotidiana della piccola-borghesia in particolare; creature dolci e miti si riassumono nel nome di Assia Noris — di cui abbiamo visto purtroppo solo II signor Max — mentre la fresca ingenuità dell’alunna della «Seconda B» ci ricorda un volto: Maria Denis. Il cinema di Greta Garbo e M. Dietrich, qui riproposte a chiusura finale della rassegna, nel frattempo invadevano il mercato: la risposta italiana fu Isa Miranda. Nella rassegna, due film «La segretaria privata» e «T’amerò sempre» qui nella prima versione con la coppia Besozzi-De Giorgi, ci ripropongono un tema insolito nella cinematografia di questo periodo: la donna nel lavoro, ma le date, del ’31 e ’33, ci inquadrano subito nel ricordo storico del richiamo delle donne al lavoro, dopo il crollo economico e per un futuro impiego nell’industria bellica è significativa quindi «l’apertura strumentale» ad un tema che peraltro ha la solita conclusione: sposa e madre felice, magari con il proprio principale. Da questo punto di vista è interessante paragonare questi films ad uno, presente nella rassegna, appartenente all’ultima propaggine del neorealismo «Roma: ore 11» per confermare, ciò che fino ad ora abbiamo portato avanti: la profonda differenza di rappresentazione di uno stesso tema, nata appunto dalle influenze storiche dei periodi a cui rispettivamente appartengono. Gli anni ’50, invece, sostituiscono alle pallide signorine timorate le «maggiorate fisiche» che al politecnico ci sono state riproposte nelle figure di S. Loren, G. Lollobrigida, M. Allasio.
Era il cambiamento di nuovo del gusto estetico aderente a simboli femminili, che venivano proposti nei vari concorsi di bellezza, di cui ricordiamo il più famoso del 1947; questi concorsi davano in pasto al pubblico un prodotto a metà strada tra la sensualità prorompente — per ricordare E. Rossi Drago nel film «Sensualità» del 1952 — ed un fascino familiare e casalingo, che turbasse quindi a metà la fantasia erotica dello spettatore. La diva si trasforma così in miss che deve rappresentare il volto del benessere nazionale unito al tempo stesso alla espressione dell’affermazione di alcuni ceti popolari nel dopoguerra: la Lollobrigida impersonificava questi due elementi «made in Italy», con l’affermazione di «Pane, amore e fantasia». È il trionfo della giovane villanella, espressone della purezza folcloristica contadina, dal temperamento di fuoco e malizioso ma sempre riconducibile all’ingenuità paesana. La Loren, invece: «è uno sviluppo intensivo delle proporzioni della Lollobrigida: più alta, più larga, più volgare, più esplosiva; bocca più grande, occhi più aperti, seno più travolgente»; basta paragonare questo profilo alla Loren dei giorni nostri, realizzata con un ricco matrimonio, ed interprete del «Viaggio», raffinata ed eterea. Il suo sviluppo fu come per S. Mangano, seppur con due caratteri diversi, interprete sensuale di «Riso amaro» e bellezza evanescente in «Morte a Venezia». La riproposizione di molte altre attrici infine ci ha permesso la possibilità di una ricostruzione storica della donna nel cinema, che è da dedicare soprattutto ad una attrice «completa» Anna Magnani, simbolo di se stessa e assolutamente non corrispondente ai canoni di sex-appeal. La presenza significativa di A. Magnani, a cui è stata dedicata questa rassegna, ci può far concludere sulla speranza della nascita di una donna nuova come nuova attrice, rappresentante se stessa e la propria creatività professionale, combattendo le condizioni di sfruttamento delle -immagini filmiche. È significativa la testimonianza, a tal proposito, di C. Cardinale, di cui abbiamo rivisto una serie di films: «Mi ricordo in America negli anni ’60, appena arrivata negli studios della Universal…; mi hanno lasciata in piedi come un cavallo esaminandomi dalla testa ai piedi. Per poco non mi mettevano le dita in bocca per vedere se avevo i denti sani. Mi hanno fatto camminare, girare su me stessa. E sentivo che commentavano: troppo grassa, troppe forme, fianchi larghi, spalle robuste! Subito dopo mi hanno messa nelle mani di una tahitiana… era una famosa per avere fatto i buchi nelle guance di Marlene. In quel periodo le attrici erano veramente schiave; si sottoponevano senza fiatare a tutto quello che ordinava la produzione, la sarta, la. visagista… Il fatto è che le attrici sono isolate. Ci vorrebbe una organizzazione che difenda i diritti delle lavoratrici del cinema. Se ci fosse, mi ci iscriverei subito. Per ora manca ogni legame tra noi. La concorrenza è forte e ognuna agisce per conto suo».