la maggioranza assente

In questa intervista a M. Angelique Savane emerge la situazione delle donne africane rispetto ai problemi: lavoro, famiglia, aborto e contraccezione.

luglio 1980

Marie Angélìque Savane, sociologa senegalese, ha diretto per diversi anni la rivista trimestrale “Famille et Deve-Iopment”, una delle pubblicazioni africane più attente ai problemi delle donne. E’ oggi coordinatrice del progetto di ricerca sugli effetti del cambiamento socio-economico sulla condizione della donna africana, promosso dall’istituto di Ricerca per lo Sviluppo Sociale dell’ONU.
Questa intervista, a cura di Armelle Braun, è stata pubblicata sul numero di giugno di CERES, la rivista della FAO.
Qual è l’aspetto più importante della ricerca che lei si accinge a condurre?
Credo che è soprattutto la caratteristica concettuale di questo progetto a esserne l’aspetto più interessante. Per una volta, e soprattutto per ciò che riguarda l’Africa, si analizzerà la condizione femminile nel quadro di una società invece di considerarla soltanto come un aspetto settoriale e secondario di questa società. Ancora oggi, si parla dei “contadini” in generale e si rifiuta di considerare il lavoro della donna come lavoro produttivo e che consente una certa forma d’accumulazione del capitale. Noi partiamo dall’ipotesi che per studiare il mondo rurale bisogna partire dalla divisione sessuale del lavoro, poiché se si vogliono introdurre dei cambiamenti, delle riforme per migliorare le condizioni di vita in campagna, bisogna conoscere la misura della partecipazione di ciascuno. Come si può parlare delle cause della povertà rurale senza mai fare menzione del tema “Donne”! Tuttavia questo avviene tutti i giorni. Per quello che concerne la produzione dei viveri, è noto, che nonostante lo sviluppo economico, questa produzione è divenuta, stazionaria o addirittura decresce, specie nel caso dell’Africa; tuttavia non si mette in evidenza il ruolo delle donne in questo settore, e fino a che non si riconoscerà la loro partecipazione o almeno sinché ci si rifiuterà di ammetterla, si potranno pure proporre tutte le partecipazioni possibili e immaginabili, non si risolverà questo problema. Per esempio, prendiamo la modernizzazione dell’agricoltura: ebbene, sempre di più si vede che le donne non ne traggono beneficio e Che essa ha un impatto abbastanza negativo sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Ma, dal punto di vista tecnico, si arriverà sempre a presentare la modernizzazione come un fatto positivo.
In che modo la monetizzazione dell’economia agricola influisce sulla struttura del potere in seno al mondo contadino e quale ne è l’impatto sulle donne rurali?
Non sì può più vedere la situazione africana o l’agricoltura africana, in modo uniforme. Secondo gli studi che si sono fatti, ci si rende conto che la penetrazione del capitale nell’agricoltura rimodella le strutture di potere del mondo rurale. E’ interessante vedere come è sconvolta la gerarchia delle classi rurali. Emergono nuove classi possidenti che non coincidono affatto con le preesistenti gerarchie locali. In alcuni, paesi, con l’ausilio di prestiti che lo Stato concede ad alcuni contadini o alla autorità dei capi tradizionali, oppure a causa del dinamismo di agricoltori che seguono il metodo di una stretta organizzazione, si vedono emergere dei contadini che hanno redditi molto notevoli. Ma si trovano pure molti più operai di una volta. In altri tempi, parecchi braccianti agricoli avevano legami con una famiglia particolare; venivano a lavorare per essa tutti gli anni e talvolta finivano con lo sposare una ragazza di questa famiglia, con l’installarsi e godere di un diritto d’uso della terra. Ma la penetrazione del capitale e la meccanizzazione hanno messo fine a. tutto- questo specie nei paesi di grandi piantagioni in cui questa situazione non è nuova. Ma questa nuova stratificazione è in corso, e non è tanto netta da poter dire immediatamente: “ecco, il contadino ha trovato i suoi mezzi ed è ricco”.
Nei paesi di grandi piantagioni, si accentua la proletarizzazione degli uomini, ed è lì che è interessante vedere cosa avviene delle donne. Ci sono persone che volontariamente emigrano dall’Alto Volta verso la Costa d’Avorio. Le donne, il più delle volte, restano nel loro paese d’origine dove fanno le agricoltrici a parte intera.
Quando le piantagioni sono situate vicino al villaggio, gli uomini diventano braccianti agricoli e le donne sono quelle che divengono le produttrici principali di derrate alimentari. Si sa già che il ruolo delle donne nella produzione alimentare è importantissimo, ma non ci è stato mai fatto sapere che esistono casi nei quali esse da sole hanno l’onere della nutrizione familiare. E il salario dell’uomo risente positivamente del fatto che le donne si occupano completamente di questa produzione senza essere retribuite, poiché una parte dei suoi bisogni vengono soddisfatti dal lavoro gratuito di queste ultime. Non solo le donne contribuiscono in modo occulto all’economia ma lo sfruttamento dei paesi del Terzo Mondo avviene in gran- parte sulla loro pelle con l’espediente del lavoro gratuito che esse fanno per mantenere la loro famiglia. Questo spiega il basso prezzo delle materie prime agricole acquistate presso i produttori, nonché il basso livello dei salari. E’ certo che se si parte dalla stratificazione sociale di cui ho parlato, gli interessi delle donne si faranno, divergenti: la moglie di un grande piantatore non sa più che cos’è l’agricoltura, una donna il cui marito ha un certo quantitativo di attrezzi agricoli (macchine, ecc.) lavora molto meno. Il marito può dissodare il campo completamente con i suoi macchinari; la moglie viene allora orientata verso la raccolta del cotone, per esempio, da cui sarà esclusa un po’ alla volta a causa della meccanizzazione di questa cultura, ecc. Ciò che ci proponiamo in questo studio
è dì porre il problema dell’avvenire delle donne nel processo di modernizzazione dell’agricoltura. Che si farà della mano d’opera femminile? Si opererà addirittura una piccola marcia indietro rinchiudendola nel suo focolare domestico, o sarà possibile creare piccole industrie o altre forme di produzione che rispondano ai bisogni delle donne? Da dove trarranno ì proventi che permetteranno loro di tirare avanti?
Per studiare il mondo rurale bisogna partire dalla divisione sessuale del lavoro
Ma l’eliminazione delle donne dal settore agricolo Le sembra irreversibile; non si potrebbe prendere in considerazione il fatto di dar loro anche una formazione tecnica?
Effettivamente sarebbe una possibilità ma è poco probabile. Parlavo essenzialmente nel quadro dei sistemi esistenti. Vedo con difficoltà in che modo i governi dei nostri paesi, alle prese con un problema di disoccupazione e di sotto-impiego maschile già enorme, potrebbe creare lavoro per le donne nel momento in cui gli uomini ne sono privi. Bisogna pure tener conto del fatto che gli uomini hanno un peso politico molto maggiore; sono molto più rivendicativi, si raggruppano in sindacati e aderiscono a movimenti politici difficilmente controllabili; le donne, dal loro canto, sono molto più ancorate alla famiglia e al focolare, nella misura in cui sono state particolarmente preparate per questi ruoli. D’altra parte, le donne non hanno accesso diretto alla terra, non hanno diritti di proprietà in molti paesi africani; come potrebbero avere accesso alla meccanizzazione? E poi, sono stati introdotti i concetti di capofamiglia, di persone che possono ottenere credito; le donne, per effetto di questa definizione, ne sono escluse. Esiste anche tutta una mentalità che occorre cambiare perché le donne siano alla pari con gli uomini. E’ possibile che si vada a sfociare in una situazione analoga a quella dei paesi industrializzati, ma non lo credo. (Penso che la divisione internazionale del lavoro è tale che praticamente non esiste alcuna possibilità che i paesi in sviluppo raggiungano questo livello. Nei nostri paesi ci saranno sempre degli “iloti”, delle zone super sviluppate, molto sofisticate, molto meccanizzate, nelle quali le contadine povere andranno a lavorare come braccianti agricole. Presentemente se dei paesi si lanciano in cambiamenti di ordine strutturale, non vedo perché non dovrebbe esserci una utilizzazione molto più efficace delle potenzialità delle donne.
Potrebbe precisare la maniera in cui si pone la questione dell’accesso alla terra per quanto riguarda le donne?
Bisogna distinguere tra la pratica e la legislazione. E’ sicuro che le leggi sono d’ispirazione occidentale e non sempre tengono conto dei costumi. In generale, le donne non sono proprietarie della terra e, in molte regioni, ogni anno o ogni due anni il marito concede un certo- numero di appezzamenti ai-suoi dipendenti o alle sue mogli. Si è molto parlato della lontananza di questi appezzamenti e del loro cattivo stato: è sempre vero. Questa terra non appartiene alle donne, appartiene al capofamiglia che ne dispone come vuole; se la moglie divorzia, perde questo diritto d’uso e deve allora tornare nella sua famiglia. Se questa possiede delle terre, gliene darà, sennò la donna lavorerà con sua madre o altrove. In certi paesi vi dicono: “Abbiamo una riforma agraria, abbiamo leggi del Demanio nazionale, ecc.”. Ma quando uno Stato si fa carico della totalità nelle terre, non avviene necessariamente nel senso dell’interesse dei contadini. Lo Stato dice: “In realtà, la proprietà è sempre stata collettiva, non si fa che riprendere una pratica tradizionale”; ma nella pratica, ciò significa che lo Stato in qualsiasi momento può espropriare dei contadini e dare le loro terre, talvolta le migliori, a grandi compagnie transnazionali che vengono a installare una agro-industria. La campagna africana sta dunque subendo uno sconvolgimento e occorre che lo si sappia e ci sì renda conto dei limiti dell’azione delle organizzazioni non governative (ONG). I governi si organizzano in modo che i poveri non vengono a trovarsi a carico dello Stato; se si studiano i piani di sviluppo, si vede che i progetti che toccano i poveri non sono assunti a carico da parte dei governi ma da organismi esterni e, nel caso delle donne, è ancora peggio; quasi tutto ciò che concerne le donne è finanziato dall’esterno, fatto che indica che in realtà i governi rifiutano di assumersi a carico il costo dello sviluppo delle donne.
Come reagire, come arrivare a creare delle attività remuneratrici per le donne?
Ci sono molte ONG e organizzazioni internazionali che tentano dì creare impieghi remunerativi, per le donne, ma è sempre molto difficile. Quei progetti sono inevitabili, ma ho anche dei dubbi, perché non si può creare una serie dì progetti di attività generatrici di redditi senza rivedere le strutture del mercato. Prendo per esempio il caso dell’artigianato. Ebbene, nei rari progetti che funzionano veramente, i prodotti dì questo artigianato sono sempre venduti all’esterno, poiché è l’organizzazione che promuove il progetto a trovare il mezzo di veicolare questi prodotti verso i paesi occidentali o verso altri paesi della regione.
Le donne dovrebbero prendere toro stesse in mano la commercializzazione del prodotto?
Anche questo, tra l’altro. Ciò che bisognerebbe innanzitutto ridestare è lo spirito d’Iniziativa, che siano le donne stesse a organizzarsi, e a questo riguardo penso che informazione ha nn ruolo primordiale da svolgere. Occorre che le donne capiscano che devono occuparsi loro stesse di risolvere i loro problemi. Già cominciano a farlo, ma lo fanno nell’ambito familiare, in modo isolato. Qualora, a livello dei villaggi e delle regioni, ci fossero delle organizzazioni di donne, questo fatto potrebbe avere un impatto importante. Basterebbe che parecchi villaggi, una regione, si specializzassero in certe produzioni per creare scambi in un mercato interno. Ritengo che a livello nazionale, bisognerebbe che esistesse una presa di coscienza e un’organizzazione di donne che coordini le attività remunerate, ma anche l’organizzazione di forma di credito a tassi d’interesse poco elevati, per esempio, delle casse popolari di donne…
Questa presa di coscienza non esiste già? Viene incoraggiata?
Esiste già a parecchi livelli. Quando si considera l’Africa, sì ha l’impressione che non avvenga nulla proprio a causa della mancanza di informazione, di coordinamento e di comunicazione. In realtà esistono molte associazioni tradizionali di mutuo soccorso, di solidarietà. Talvolta anche, le donne lavorano in comune per risolvere un problema, spesso ricorrente, che purtroppo concerne il villaggio. Il guaio è che queste associazioni non si fanno molta pubblicità e soprattutto che tutto avviene entro un contesto tradizionale in cui si accettano le gerarchie esistenti: i rapporti tradizionali tra uomini e donne non sono rimessi in discussione. Il problema è di arrivare fino a quelle donne. La poligamia si giustifica dal punto di vista economico, oppure è un costume che si perpetua pur avendo perduto la sua ragione d’essere? A chi giova di più?
Bisogna distinguere tra poligamia in città e poligamia in campagna. Nello stato attuale della nostra agricoltura, che ancora impiega dei mezzi dì produzione rudimentali, la mano d’opera è molto importante, in particolare la mano d’opera femminile. E proprio a causa dell’importanza del ruolo delle donne nei lavori agricoli, più mogli ha un uomo, più possibilità ha di avere una progenie numerosa, più braccia avrà per lavorare. Nell’ambito della vita rurale questo fatto non disturba affatto le donne poiché così possono spartirsi le incombenze. Nelle campagne le co-spose vivono un po’ come sorelle e non come delle rivali. E molto raro di incontrare in ambiente rurale delle donne che si lamentano dell’esistenza dì altre spose. E’ nelle città che la poligamia non ha più alcuna giustificazione, e nessuna donna ne vuole più sapere. Quello che la donna vuole è avere un certo rapporto, più esclusivo, con suo marito.
E gli uomini?
No, credo che hanno bisogno dell’esclusività di più di una moglie. In città, a meno di essere molto ricchi, non si può dare una casa a ogni moglie. Dunque si vive nella stessa casa. Ognuno ha la sua camera, e il marito passa due notti in ogni camera. Ma queste mogli sono abitanti di città. Il loro comportamento non è più governato da quelle norme sociali che facevano che, se pure esistevano rancori, non li si esprimeva mai; ci sono dunque rivalità, baruffe-Quanto al marito, è talvolta lui a essere il più infelice perché le mogli si uniscono contro di lui, o altrimenti sono tutte le une contro le altre, ma sempre contro di lui. Adesso, sul piano economico questo non si giustifica più affatto; l’educazione dei figli costa sempre più cara e le mogli sono sempre più esigenti; ci deve essere eguaglianza nei doni, il che vuol dire che, quando si hanno tre mogli, bisogna acquistare tutto moltiplicato per tre; è enorme! E poi, con le aspirazioni a un livello di vita migliore, non si può avere con tre mogli lo stesso comfort materiale che si avrebbe con una sola. Economicamente, la situazione diventa dunque insostenibile, almeno per le classi medie, poiché le persone ricche non hanno problemi: hanno parecchie cose. Ma tutto questo è la spiegazione di una situazione che, secondo me, deve cambiare.
Quasi tutto quello che riguarda le donne è fatto dall’esterno
Mi parlerà un po’ delle donne emigranti?
L’idea che le donne emigrino soltanto per seguire il marito è abbastanza superata. In realtà, le emigranti sono sempre più donne giovani non sposate che vengono in città a cercare lavoro. Questo in primo luogo perché c’è il problema della ripartizione delle terre, di cui già abbiamo parlato. Presentemente le ragazze emigrano sempre più giovani e, nelle grandi città africane, non è raro vedere ragazze di dieci o dodici anni lavorare come piccole cameriere per un salario irrisorio. Ma la più interessante è la popolazione tra 16 e 21 anni. Spesso arrivano senza conoscere nessuno. Ci sono quartieri in cui le persone si raggruppano per etnie o per villaggio. Esistono dunque forme di relazioni sociali di villaggio che vi si ricostruiscono, fatto che offre una certa protezione ad alcune ragazze, a una minoranza di loro. Tre possibilità si offrono alle giovani emigrate: diventare domestiche, come già abbiamo visto, diventare operaie nelle industrie che reclutano sopratutto manodopera femminile, dove esse lavorano come giornaliere in condizioni difficilissime: non c’è alcuna sicurezza sociale, nessuna garanzia dell’impiego, tra loro si trova un gran numero di ragazze-madri perché esse non sanno niente della contraccezione. Finalmente, ultima possibilità: la prostituzione. Anche su questo ci sono degli studi da fare.
Non se ne parla mai…
Non se ne parla mai, ed è fenomeno che si sviluppa sopratutto nelle grandi città africane molto turistiche, oppure, fatto ^rave, nei Tilfaggi dove Tengono a sorgere “villaggi turistici”. Generalmente si dice: “non si può fare niente per le donne emigranti, non hanno formazione”. In parte è vero. Ma spesso è il contrario, hanno un diploma di studio, non sono analfabete e parlano il francese o l’inglese. E’ proprio per questo che vengono in città, pensando che troveranno lavoro. Ma se si osserva il ritmo di sviluppo dell’impiego femminile, il mercato è già saturo e ci sarà una disoccupazione femminile, qualunque sia la qualificazione delle donne. Poc’anzi abbiamo parlato delle donne domestiche. Delle associazioni femminili avevano pensato di creare dei centri di raccolta per rispondere al problema enorme che queste donne pongono: rimangono incinte, abortiscono, spesso nelle condizioni più difficili. Questi centri potrebbero istruirle e dare loro, in definitiva, i mezzi per difendersi in città. Anche i governi debbono ripensare le loro responsabilità.
Qual è la posizione dei governi sulla questione dell’aborto? E’ una pratica accettata dalle società africane?
L’aborto in generale non è accettato in Africa, salvo in alcuni paesi che hanno una politica di pianificazione familiare, e che hanno dunque una posizione più morbida sulla questione. Ma praticamente non esiste una legislazione sull’aborto. In generale la moralità popolare l’esclude o lo proibisce. Ma, nella pratica, l’aborto è di vaste proporzioni e qualsiasi medico ve lo confermerà: più si va in giro e nelle città sopratutto, più le ragazze hanno relazioni sessuali precoci; non sono informate e l’aborto diventa un metodo di contraccezione. ‘Ritengo che i governi dovrebbero rendere meno rigide le loro posizioni in materia di educazione sessuale nelle scuole e altrove.
Per quanto riguarda l’informazione sulla contraccezione, i governi hanno dunque una legislazione “repressiva”?
Sì, nella maggior parte dei paesi francofoni la legislazione francese del 1920 (1) imperversa ancora.
Comincia a esserci un movimento di protesta, un vero e proprio movimento d’opinione pubblica?
Non precisamente, nessuno osa parlarne e credo che è questo il motivo del fallimento dei movimenti femminili. La legislazione è da rivedere, e bisogna che i governi riconoscano che la contraccezione è un diritto umano. Nel la maggior parte dei paesi anglofoni, la libertà sembra molto più grande, almeno in materia di vendita dei contraccettivi. Adesso, in un paese come il Senegal, per il fatto che esiste un’apertura al livello più elevato, si sa che si può parlarne; ho fatto più volte delle conferenze sul planning familiare nei licei, su richiesta dei direttori.
Lei ha affrontato l’argomento su “Fa-mille & Développement”(2)  per esempio.
Sì, più volte, e questo ha avuto una risonanza grandissima: si parlava di argomenti tabù!

  1. La legge del 1920 proibiva qualunque propaganda a favore dell’uso e della vendita di contraccettivi e puniva severamente l’aborto. Rafforzata nel 1923 e nel 1939, fu abolita nel 1974 da una nuova legge sull’interruzione volontaria della gravidanza.
  2. “Famille e Développement”, 66 Boulevard de la Répubblique, B.P. 1107 CD. Annexe, Dakar, Senegal. M.me Savane è stata redattrice-capo di questa Rivista fino all’aprile del 1978.