Nicaragua: le donne non sono tornate a casa

luglio 1980

Se non fosse per l’intestazione — “Managua, 9 marzo 1980” e per la sigla che campeggia sulla copertina dell’opuscolo «Associazione delle donne nicaraguensi» — lo si direbbe la traduzione spagnola di un passo de «La coscienza di sfruttata» o di un pamphlet del «Gruppo per il Salario al Lavoro Domestico”.
Invece è il discorso che Gloria Carrion, segretaria della associazione, ha tenuto a conclusione della “settimana della donna”, celebrata in Nicaragua per la prima volta, dopo la caduta di Somoza. A neppure un anno dal crollo della dittatura somozista, avvenuto il 19 luglio scorso, dopo una tenace lotta che ha visto le donne in prima linea, l’intervento della Carrion, pubblicato con rilievo dalla stampa del piccolo paese centro-americano, è il segno della lucida determinazione con cui le nicaraguensi lottano per affermare i propri diritti: in primo luogo quello di non essere “rimandate a casa” dopo la rivoluzione, dì nuovo condannate alla “atrofizzante dimensione della casa e del privato” come è accaduto nel passato a migliaia di rivoluzionarie.
«Siamo coscienti — scrive infatti la Carrion — che la nostra lotta di liberazione non è terminata e che, nonostante l’enorme autorità politica che ci siamo guadagnata, l’enorme rispetto che hanno per noi i nostri compagni… tuttavia dobbiamo avanzare le nostre specifiche rivendicazioni… Stiamo cominciando la nostra lotta, perché stiamo iniziando a ricostruire la nostra storia, perché appena oggi la nostra voce comincia a farsi ascoltare con forza. Chiediamo al nostro governo che vengano abolite le leggi che istituzionalizzano le condizioni di sfruttamento e oppressione della donna, a cominciare da quelle sul lavoro e sul ruolo della casalinga. Vogliamo la partecipazione della donna alla definizione della politica della alimentazione, della salute, dell’igiene, dell’educazione, dell’impiego e del salario in modo che vengano rispettate le esigenze delle donne… Chiediamo una politica globale che integri la donna come “soggetto” nel processo rivoluzionario e che spezzi il ritardo culturale, sociale e economico che ancora pesa su di lei…”.
Frasi che a noi femministe occidentali possono sembrare ovvie ma che hanno un’audacia sorprendente in un paese del Terzo Mondo, semidistrutto da una lunga guerra civile, segnato da una miseria secolare, (con un tasso d’analfabetismo dei 50 per cento (85 nelle campagne), con condizioni igieniche disastrose (6,5 medici e 2,5 infermieri ogni 10.000 abitanti, scarsissimi centri sanitari), una economia rovinata da decenni di malgoverno somozista e dai danni bellici (drastiche riduzioni nella produzione di caffè, cotone e di tutte le materie prime, distruzione di centinaia di fabbriche, un debito estero di più di un miliardo e mezzo di dollari).
In queste condizioni, la sfida delle donne nicaraguensi alla “cultura del sottosviluppo” di cui il “machismo” è, in America Latina, parte integrante e difficilmente sradicabile, non può che provocare stupore e, al di là dello stupore, un ammirato rispetto.
Perché queste prese di posizione, nonostante le incredibili difficoltà della fase di ricostruzione, si sono immediatamente concretizzate in iniziative di portata storica. Per prima cosa è stata riorganizzata l’associazione, ribattezzata “Luisa Amanda Espinosa” dal nome di un’infermiera morta in seguito a uno sciopero della fame contro il regime: fondata nel 1977 e già attiva nella lotta di liberazione a fianco dei sandmisti, può ora contare su una capillare presenza nel paese (oltre a Managua, ci sono centri a Matagalpa, Madriz, Zelaya, Cholantes, Rivas, Carazo e Chinandega). Particolare attenzione è stata data alla situazione della donna contadina, da sempre la più dimenticata: il 16 dicembre 1979 c’è stata la prima assemblea nazionale delle contadine, con 700 delegate di varie comunità rurali. Per parteciparvi, 500 donne sono scese dalle montagne, affrontando giorni di cammino a piedi lungo strade scomode e approssimative.
L’associazione ha organizzato un’intensa presenza femminile nelle attività dì riforma più qualificanti della giunta sandinista: dai collettivi di produzione completamente composti da donne al volontariato nella campagna di alfabetizzazione, che vede circa 200.000 attivisti alle prese con 900.000 analfabeti in età superiore ai 10 anni.
Nel settore della salute, estremamente malridotto, le donne si sono inserite con slancio: nel giro di pochi mesi sono stati istituiti corsi per assistenti sanitarie di quartiere, coordinati con il ministero della sanità. Più di 250 donne svolgono già questo incarico nelle zone cittadine e le associazioni femminili si stanno impegnando per espandere il servizio a tutto il paese. Un forte impulso è stato dato alla creazione di centri per lo sviluppo infantile e a servizi di vario tipo che mirano a liberare la donna dal lavoro domestico. “Questo perché — spiegano le dirigenti dell’associazione — ci preme che le attività domestiche vengano riconosciute come lavoro sociale, necessario al benessere dell’intera società e smettano di essere ritenute responsabilità “naturale” ed esclusiva della casalinga”. Le donne fanno pressione anche perché vengano cambiate le leggi che ancora operano una discriminazione tra i sessi: ad esempio quella sul divorzio (che si può ottenere per colpa della donna se questa commette adulterio an che una sola volta, mentre il marito è adultero solo se impone la presenza dell’amante nella casa in cui vive con la moglie), sull’aborto (ancora non legalizzato) sull’occupazione (in cui la donna non è ancora sufficientemente tutelata). “La rivoluzione sta formando un nuovo tipo di donna con diverse aspirazioni e una precisa coscienza della sua dignità”, ha scritto su “Barricada” Dora Maria Tellez, leggendaria guerrigliera e, a soli 23 anni, comandante militare della città di Leon. Che tipo di risposta darà la nuova società nicaraguense a queste esigenze è ancora un’incognita e dipende in gran parte dalle possibilità di sopravvivenza che verranno date a questa isolata, fragile, ma fiera rivoluzione. Il fatto però che questi bisogni siano stati così nitidamente individuati e che per soddisfarli le donne stiano concretamente lavorando, difendendo con le unghie e coi denti un’autonomia conquistata a caro prezzo, è già, nel panorama arretrato e spesso disperato dell’ America Latina (basti pensare ai vicini Guatemala e San Salvador) una vittoria da non sottovalutare. Da seguire con attenzione, anzi, perché quello che succede in questo remoto, minimo paese del Centro America, riguarda da vicino tutti i movimenti delle donne occidentali. I quali, oggi più che mai, devono tenere gli occhi bene aperti sui segnali di risveglio, anche se contraddittori, che arrivano dal Terzo Mondo e sostenere con solidarietà concreta il difficile processo di liberazione delle donne di quei paesi.