testimonianza all’indomani della rivoluzione

luglio 1980

Quanti anni hai?
Trenta.
Come sei entrata nel fronte sandinista?
Da undici anni, da quando sono entrata all’università. Come tutti ì giovani nicaraguensi avevo coscienza che esisteva una grossa situazione di ingiustizia nel nostro paese, volevo cambiare, volevo contribuire ad una lotta per il cambiamento. Come tutti avevo di fronte due alternative: quella di essere assassinata o quella di passare al lavoro clandestino. L’unica organizzazione che permetteva la partecipazione attiva era il fronte sandinista.
Quale lavoro clandestino hai fatto?
Il fronte, parlo del 1968, aveva concepito la lotta di liberazione nazionale come lavoro intensivo nelle campagne e nelle città per propagandare la nostra lotta, per far crescere la consapevolezza da parte di tutti che non era possibile vivere nella miseria, nell’ignoranza, nell’ingiustizia.
Facevi lo stesso lavoro degli uomini?
La militanza sandinista significava che le donne dovevano fare lo stesso lavoro degli uomini.
Credi che per le donne fosse più difficile fare il lavoro clandestino?
Sì, nelle nostre famiglie la donna viene abituata a dedicarsi alla casa, ad essere in una posizione subordinata rispetto all’uomo. Quando entravamo nel fronte dovevamo vivere in comunità con gli uomini, svolgere le stesse attività, l’addestramento alle armi, gli esercizi fisici. Diventava normale per noi avere la stessa mentalità degli uomini, o per meglio dire, la mentalità dell’organizzazione, del militante, senza differenza fra uomini e donne. La difficoltà reale per noi è stata quella di convincere gli uomini che eravamo capaci di fare le stesse cose che facevano loro.
Nei primi anni c’è stato il lavoro politico e tipi di attività in cui era previsto l’uso delle armi, come l’assalto alle banche, unica forma di sovvenzionamento possibile per noi e quindi vitale per sopravvivere.
Era difficile partecipare all’assalto alle banche.
Si lo era, mi sapevo che lavoravo per il popolo che non poteva parlare, che non aveva altra libertà che quella dì morire; la prima volta ho avute paura, dopo ne ho avuta meno. Del resto tutto era difficile per noi: potevano catturarti, potevi andare in galera, poi se avevi la fortuna di uscire, tornavi alla lotta clandestina. Facevamo parte di cellule di cinque persone che dovevano sopravvivere da sole, studiare, autofinanziarsi e nello stesso tempo dovevano essere in grado di aiutare un’altra cellula se ce ne era bisogno. Quando avevi dimostrato di avere sufficiente capacità di sacrificio, di lavoro, di addestramento passavi alla montagna. Questo per noi significava anche vivere in mezzo alla gente, vivere come vivono i contadini, patire le stesse ingiustizie che loro pativano. Fino allo scoppio dell’insurrezione abbiamo sempre combattuto contro la guardia nazionale in montagna, senza nessuna tregua.
Tu hai combattuto contro la guardia nazionale?
Sì, fino all’insurrezione, nel fronte interno. Questo aveva una funzione importante perché doveva dimostrare a tutti che la guardia era vulnerabile, era distruttibile, ohe potevamo farlo se eravamo insieme e ci battevamo contro di essa. Dovevamo abbattere la concezione che essa era imbattibile e che il popolo nulla poteva contro di essa.
Le donne avevano funzioni diversi dagli uomini durante la lotta armata?
Tutte le donne dovevano combattere come gli uomini. Io sono comandante dell’esercito sandinista e sono una donna.
Quante donne stavano nell’armata?
Mille combattenti circa, su cinquemila, una quantità considerevole. In certi tipi di specializzazione, come quello dell’artiglieria pesante erano poche le donne che combattevano. Però le donne erano sempre pronte a stare in prima linea, come qualsiasi uomo; no, le donne non sono state solo nelle retroguardie.
Quale era la vostra vita in montagna?
Non c’era tempo per pensare se eri uomo o donna. Tutti dormivamo all’aperto, facevamo la stessa vita, dovevamo mangiare lo stesso cibo, ci comportavamo nello stesso modo, uomini e donne.
Che cosa faranno adesso le donne dell’ esercito sandìnista?
Dobbiamo ricostruire il paese, abbiamo tutto da fare. Io non resterò nell’esercito ma farò attività di partito. Finalmente possiamo scegliere il nostro cammino liberamente.
Pensi che dopo le rivoluzioni, le lotte armate, la posizione della donna nelle società cambi radicalmente?
Noi non possiamo cambiare all’improvviso il comportamento generale della società. Sai che agiamo per influenza della società, il Nicaragua non è un caso fuori dal contesto sociale del mondo. Il fatto che abbiamo lottato insieme agli uomini ci ha dato a tutti la coscienza che noi siamo in grado di svolgere qualsiasi attività nel processo rivoluzionario. Certo nel governo ci sono solo due donne, per il momento questo non ci interessa perché sappiamo che qualsiasi attività noi vogliamo sviluppare per la rivoluzione possiamo farlo e siamo in grado di farlo. La necessità dì lottare come donne si concretizzerà nel momento in cui trovassimo degli ostacoli sulla, nostra, strada. In questo momento noi non abbiamo ostacoli. Noi siamo libere e noi siamo felici, per la prima volta. Io ti dico che io sono donna, che sono comandante e che nessun uomo dice che non eseguirà i miei ordini perché sono una donna. Nel momento in cui troveremo un ostacolo lo assalteremo.
Anche da voi esiste una repressione sessuale nei confronti delle donne. C’è un cambiamento fra adesso e prima su questo problema?
Siamo state educate ad avere enormi pregiudizi sessuali ma le compagne e i compagni del fronte sandinista avevano negli accampamenti relazioni sessuali liberamente scelte e i pregiudizi inculcati dalle famiglie finivano con lo scomparire. Durante la lotta si cambia mentalità, i valori dell’educazione tradizionalista sono totalmente annullati, come quelli religiosi. La morale rivoluzionaria ci cambia. Io mi stupisco di aver superato tutti i miei pregiudizi.
Mi sembra che in questo momento tu sia molto felice, mi vuoi dire come ti chiami?
Sono molto contenta, mi chiamo Xaviera.