lavoro: fabbrica femminismo un dialogo necessario
«con l’autocoscienza che mi veniva suggerita come potevo risolvere il problema dello sfruttamento in fabbrica, che il giorno dopo mi trovavo sempre presente e non distaccato»
la fabbrica
La situazione della mia fabbrica, la Fatme, è che è composta per la maggior parte di donne, più della metà circa, che si sono molto ridotte negli ultimi tempi perché il padrone da due anni a questa parte sta ristrutturando. C’è una crisi in atto e la ‘risposta è licenziamento, soprattutto delle donne, con tutti i ricatti possibili e immaginabili, compresa l’offerta di soldi fatta a quelle che avevano più di due figli perché se ne andassero. Questo vuol dire che almeno da due anni più di 200 donne si sono licenziate, senza contare tutte le contrattiste che sostituivano le donne in riposo-parto e che non sono state più riassunte, La manodopera femminile della Fatme è piuttosto dequalificata; tra il primo e il terzo livello, si sa, il passaggio è automatico, c’è la possibilità di arrivare al quarto per grossa fortuna, ma ci deve essere una figlia di papà con qualche laurea per arrivare al quinto; la quinta super è irraggiungibile, e sappiamo che i livelli, nelle industrie metalmeccaniche, arrivano fino al settimo.
la nocività
In Fatme esistono lavorazioni molto pericolose. Ci sono stati ultimamente dei casi di intossicazione gravi, perché chi ne è rimasto colpito si porterà appresso un’allergia agli organi genitali e in tutto il corpo che durerà tutta la vita.
La causa sono una resina e un indurente di questa resina, materiali che servono per fare le capsule dei telefoni, quelle che stanno nel ricevitore e nel microfono. La combinazione di questi elementi provoca un tipo di reazione chimica letale per l’organismo. Come consiglio di fabbrica abbiamo pensato di organizzare delle mostre per l’8 marzo e delle assemblee proprio rispetto a questo fatto. Un altro problema è dato dalle lavorazioni di saldature a stagno, uno dei lavori più dequalificati che esiste in fabbrica ed il più pericoloso; sappiamo che all’Autovox, lo stesso tipo di lavorazione è stata analizzata ed è stata individuata come una delle principali responsabili degli aborti bianchi. Come fabbrica abbiamo scelto di fare un seminario 150 ore su queste cose in una scuola vicino alla Fatme, proprio per permettere a tutte di seguire questa ricerca sull’ambiente di lavoro, la nocività e la medicina preventiva. È dal 1953 che si sa che certe sostanze sono pericolose, ma non si è ancora fatto niente.
Mettere in discussione questo tipo di lavorazioni nocive, vuol dire mettere in discussione l’organizzazione del lavoro in fabbrica, organizzazione che è castrante per l’uomo e ancora di più per la donna, vuol dire mettere in discussione una certa linea sindacale che vuol far passare la ristrutturazione, che ha accettato l’ingresso di certe macchine in fabbrica, che accetta che si faccia lo straordinario, che vengano aumentati i ritmi. Lottare su questo vuol dire prefigurare una società a misura di essere umano, di persona. Le 150 ore le vedo proprio inserite in questo discorso, come appropriazione di strumenti per poter affrontare una lotta in fabbrica, e non semplicemente per prendere un diploma o per acquisire delle conoscenze tecniche in senso lato.
la ristrutturazione
Quest’anno io seguo il seminario universitario sull’Informatica – Elettronica, perché lo ritengo importante per un discorso sul reparto dove lavoro e dove lavorano con me tutte donne. Siamo perforatrici meccanografiche, uno dei lavori più dequalificati e alienanti che possano esistere; è come essere una specie di scimmietta che ricopia i documenti, senza capire quello che c’è scritto sopra, che ha dei fogli codificati, assolutamente incomprensibili, che deve riportare su scheda e su nastro. Sempre di più si sta usando il centro di elaborazione dati per modificare la struttura produttiva della fabbrica; prima le lavorazioni erano quasi artigianali, adesso le vogliono far diventare elettroniche. L’esperimento è in atto in un magazzino in cui hanno costruito degli scaffali alti otto metri con carrelli elevatori dove lavora una persona là dove ne lavoravano trenta; il centro meccanografico perfora il percorso di un certo tipo di materiale giacente negli scaffali e l’operaio, che prima individuava il processo e lo preparava, adesso è ridotto ad essere solo un manovale dequalificato. Anche nel nostro reparto siamo in fase di ristrutturazione: devi essere una specie di macchinetta, che si possono permettere di spostare a loro piacimento e a cui possono aumentare indiscriminatamente i ritmi e lo straordinario. In questa ottica di studio dell’organizzazione del lavoro con il fine di cambiarla ho affrontato le 150 ore, ma non soltanto io come Gloria, vice-delegata di reparto, ma perché tutto quello che si fa nel seminario lo si possa poi riportare in discussioni con le altre compagne, che si appropriano di sempre maggiori strumenti di conoscenza; è un discorso tra donne, che può essere utilizzato da tutte le donne e che prima di tutto è politico.
il femminismo
Quando ho cominciato ad avere contatti col movimento femminista, all’inizio con il gruppo di Pompeo Magno, intendevo fare con altre compagne un lavoro sulla borgata dove abito (Torre Gaia); ma la compagna femminista che venne fece solo un discorso sul sesso, sull’aborto, cose senza dubbio molto importanti, ma che erano fuori da una logica che poneva problemi strutturali molto più gravi.
Il secondo contatto che ho avuto con il femminismo è quando mi sono inserita nel collettivo di Radio Donna ed ancora quando mi sono collegata con Capo d’Africa. Quello che ho sempre cercato e non ho mai trovato è stata un’unità su quelli che io, come tutte le compagne della borgata, ritenevamo fossero problemi prioritari; parlare dell’uomo in quanto tale, della donna in quanto tale, del sesso, di condizioni cioè, non era parlare dello sfruttamento doppio che la donna subisce nella società capitalistica. Con l’autocoscienza che mi veniva suggerita come potevo risolvere il problema dello sfruttamento in fabbrica, che il giorno dopo mi trovavo sempre presente e non intaccato? Io ho sempre cercato di proporre obiettivi politici che fossero unificanti per tutto il movimento delle donne, che esiste e che si ingrandisce sempre di più. Quando sento che mia madre, che altre donne della borgata vogliono muoversi, vedo anche che non si riconoscono appieno nel movimento femminista quando propone solo analisi a livello di ruolo. Il mio dubbio è che queste cose escano da compagne che non vivono una reale condizione di sfruttamento strutturale. Non basta fare una manifestazione sulla violenza, se poi non se ne fa un’altra sugli aborti della Voxon. Il discorso sugli asili, sui consultori rischia di rimanere un intervento a livello missionaristico, se non si affrontano i problemi alla radice, se non si denuncia e non si lotta contro un certo tipo di organizzazione del lavoro, che non è quello di segretaria, ma quello di duecento persone dentro a un reparto che saldano lo stagno, che hanno i fumi dentro al cervello, che hanno i buchi sulle dita e i polmoni pieni di stagno e di piombo. Tutto questo va visto prima di tutto in un’ottica di classe, ma tutte le volte che ho fatto questi discorsi con le compagne femministe mi hanno detto che cercavo di fare delle belle lezioncine di marxismo e che con i problemi delle donne non avevo niente a che vedere.
la borgata
La mia situazione, come ho detto, è quella di una borgata nei dintorni di Roma, una situazione assurda, dove i servizi sociali non esistono, le scuole, le strade, le fogne e in certi posti anche la luce non esistono, proprio per la speculazione che la D.C., da trenta anni a questa parte, ha fatto passare, con la lottizzazione indiscriminata, i terreni agricoli, la costruzione della casa della domenica, diventata poi un palazzone con affitti da 200.000 lire al mese.
In borgata le donne sono prevalentemente casalinghe, emarginate, che magari la domenica costruiscono la casa insieme al marito, che mandano avanti la famiglia con pochi soldi, che hanno l’educazione dei figli sulle spalle.
il colIettivo
In fabbrica abbiamo creato una struttura di delegate e vicedelegate; qui in zona abbiamo sentito l’esigenza di un collettivo. Si è fatto anche, l’anno scorso, un lavoro teatrale di Cecilia Calvi che andava ad affrontare la situazione della donna nel tempo, rispetto ai vari tipi di società che ci sono state e al ruolo della donna che cambiava funzionalmente rispetto ad esse. A questo spettacolo sono venute parecchie donne, ci saranno state più di cento persone e abbiamo avuto la richiesta di andare avanti, di non fermarsi soltanto a livello di spettacolo, che poi è sempre una cosa imposta perché non tutte hanno partecipato alla organizzazione del lavoro e ne possono solo discutere dopo. La spinta di tutte le donne ha portato alla creazione di una struttura di consultorio, soprattutto come centro di medicina preventiva. Il boicottaggio da parte del PCI è stato quasi immediato, e momentaneamente la gestione è sua, ma abbiamo intenzione di ricominciare tutte insieme con maggior forza per battere una strada piena di difficoltà ma anche piena di contenuti.