testimonianze

marzo 1977

1 la bracciante del giornalismo
«Mi sento molto vicina alla condizione delle lavoratrici a domicilio, quelle che guadagnano mille lire per ogni dozzina di fiori di plastica e che, senza conoscere la fabbrica né poter vantare un’esperienza con altri lavoratori, sostengono un sistema produttivo di cui subiscono soltanto lo sfruttamento e l’emarginazione».

Sono passati più di due anni da quando ho firmato il mio primo articolo. Ma l’amore per il giornalismo, mestiere avventuroso e affascinante soprattutto per una provinciale sènza esperienza, è più antico. Risale agli anni svogliati del liceo, quando scrivevo poesie e rac-contini, e più che Catullo e Lucrezio, provavo gran godimento a leggere la Ravaioli e la Fallaci, pensando presto di diventare come loro. A ventisei anni, con la concorde disapprovazione di un padre tiranno e di un trepido candidato marito, ho lasciato il paesello per la città e dopo qualche esperienza (buona) d’insegnamento, mi sono avventurata alla conquista di questo mestiere.
Perché «avventurata»? Perché fin dal primo, in apparenza facile approccio con i giornali, ho provato la netta sensazione che nessuno mi avrebbe aiutato: come se, quello che fai, non ti fosse mai richiesto. Vuoi diventare giornalista? E mal te ne incoglie! Devi sbrigartela da te: da te saper capire cosa fa notizia, intuire quando e come proporre delle idee (di cui c’è sempre gran fame nei giornali…). Vietato chiedere, vietato sollecitare consigli e suggerimenti a chi ha più «mestiere» di te. Perché questo? Perché in un Paese in cui hanno sempre imperversato le grosse firme e i formidabili manipolatori di notizie (mentre in America, ci avete pensato? Due giornalisti hanno fatto cadere un presidente!), fare il giornalista sembra essere una sorta di investitura riservata a pochi eletti. Quelli, per intenderci, che con pieno sdegno scrivono contro la disoccupazione intellettuale, ma non rinuncerebbero mai ai loro cinque contratti di collaborazione oltre alla poltrona di redattore nel «bolo» giornale. Allora non è difficile immaginare l’indifferenza e il fastidio (abilmente simulati) che suscita una autentica «drop aut» della situazione come me: donna, meridionale, figlia di «nessuno» senza il lustro di antenati e conoscenze o legami con i padroni o almeno i gregari più illustri della carta stampata.
Ed ecco il primo bilancio di un paio d’anni di bracciantato. Oltre alla tessera di pubblicista (che ho esibito come un trofeo fra l’indifferenza generale) e il consueto ritornello «Sei brava, scrivi per giornali importanti, non puoi lamentarti», non ho conquistato granche. Non ho un contratto di lavoro perché ho perso tempo, ma solo ai fini contrattuali, con un quotidiano che ha mutato rotta politica con la nuova gestione e con un «femminile» in storica fama di povertà; son sempre pagata a «pezzo» (malissimo) e mi posso considerare a tutti gli effetti una rappresentante del lavoro nero. Potrei chiudere baracca e burattini, come si dice. Ce n’è di che! Invece. Invece mi sorregge una feroce tenacia, e accanto a crisi di stanchezza ho momenti di autentica gioia e ironia, e la certezza che vincerò la mia battaglia. Perché mai? Sono orgogliosa d’aver fatto una scelta e di viverla fino in fondo. Tutto qui.
Masochismo o sfrenato orgoglio? Mah! Nessuna donna che conti solo sulle proprie forze riesce a lavorare e imporsi senza fatica, soprattutto nel lavoro cosiddetto intellettuale. Dunque non sono un’eccezione, e non saranno certo gli ostacoli a farmi rinunciare. Anche perché il mestiere che ho scelto di fare mi piace, anche adesso che ne conosco soltanto gli aspetti meno gratificanti, di durissimo tirocinio. E mi piace farlo da artigiana, cercando di veder più gente possibile, di andare in giro, di capire «dal vivo» come stanno le cose. È la fase della ricerca, che preferisco a quella conclusiva dello scrivere. Strani gusti! La maggior parte dei giornalisti fanno tutto per telefono (presto, presto, bisogna far presto) e non di rado si servono di collaboratori per poi elaborare il materiale a tavolino. Ma accanto a questa passione per la ricerca, e a qualche soddisfazione che, sia pure da esterna e precaria ho di tanto in tanto, ci sono gli aspetti intollerabili che condizionano notevolmente lo esito del mio lavoro. E non penso soltanto all’argeni de poche che riesco a raggranellare a fine mese, ma alla sensazione, molto frustrante, di lavorare isolata, senza essere coinvolta nell’operazione complessiva della nascita del giornale. Quanto avviene nelle redazioni dei giornali a cui collaboro mi è quasi del tutto estraneo, soprattutto per gli aspetti tecnici (tipografia, impaginazione ecc.) da cui un giornalista professionista non può prescindere. I miei rapporti sono limitati a brevi, frettolosi, burocratici incontri con i capi servizio e i capo redattori. Al giornale interessa il «pezzo». Punto e basta. E per una come me che volesse ribellarsi a questa logica alienante e schizoide, ci sono decine di giovani disoccupati disposti al garzonato più duro. Dunque bisogna resistere. Ma se dovessi trovare un paragone fra le altre donne che lavorano, direi che in questi anni, che io considero per altri aspetti positivi e ricchi (soprattutto di guai), mi sento molto vicina alla condizione ‘ delle lavoratrici a domicilio, quelle che guadagnano mille lire per ogni dozzina di fiori di plastica, e che senza conoscere la fabbrica né poter vantare una esperienza con gli altri lavoratori, sostengono un sistema produttivo di cui subiscono soltanto lo sfruttamento e l’emarginazione. Senza alcun potere contrattuale, esse sperimentano sulla propria pelle che le difficoltà per chi vuole lavorare sono tante, ma che tutto congiura sistematicamente contro chi vuole essere indipendente ma ha il curioso destino di essere donna.
R.P.

2 qua nessuno ti insegna niente
L’inizio, quattro anni fa, mi sembrò facile e piacevole: un vero colpo di fortuna! Mi presentai al redattore capo. In mano avevo poche carte: niente laurea, nessuna specializzazione, un grande casino mentale, in pratica solo la voglia di uscire dalla gabbia dorata di un’infanzia e adolescenza senza grossi problemi materiali ma cadenzate da continui conflitti con la famiglia, la scuola, l’ambiente in cui vivevo. Una sola certezza: volevo trovare un lavoro per sfuggire al destino «dorato» e alienante delle donne della mia condizione sociale. Mi ricordo che il primo giorno che entrai al giornale ero «mascherata». Esasperata dall’esperienze di lavoro precedenti (ore di discorsi per poi sentirsi dire «ma lo sa che lei ha delle belle gambe»), cercavo di nascondere la mia femminilità. Pantaloni, golf enormi, capelli raccolti, sempre così. E, infatti, si sparse subito la voce in redazione (allora erano quasi tutti maschi) che avevo le gambe storte. Devo dire che nessuno, tranne un collega noto per la sua «bontà», mi ha insegnato qualcosa. Anzi la frase che girava era «qua nessuno ti insegna niente, devi rubare spazio agli altri». Così seguendo questa logica (ognuno col suo settore, per carità tutto quello che fa il tuo collega è spazio – prestigio – soldi – fama sottratti a te), la competitività è altissima. Di questo clima, naturalmente me ne sono accorta poco per volta. È stato un lento risveglio. All’inizio, invece, c’era solo una enorme soddisfazione: a 23 anni mi ritrovavo in un settimanale di grosso prestigio, tra colleghi giovani e intelligenti, con la possibilità di incontri stimolanti e oltretutto un buon stipendio. In più la grande chance di lavorare in uno dei ‘rarissimi giornali liberi dove nessuno viene mai censurato politicamente, e il giornalista visto non come protagonista, esperto, Solone che ammannisce la sua verità agli altri ma come operatore dell’informazione, spersonalizzato al massimo e quindi, in pratica, molto lavoro di gruppo. Quando ho cominciato a prendere coscienza dei ruoli, della competività, dell’alienazione? Certamente quando mi sono trovata moglie e madre lavoratrice. Sommate un marito (oltretutto giornalista), un figlio che ha bisogno di te, e un giornale dove ti richiedono di essere sempre disponibile (giorno e notte, sabato e domenica a Pasqua e a Ber l’agosto), scattante e grintosa, uguale la schizofrenia. Dopo due anni di corse tra una intervista e la baby-sitter che se ne deve andare via, di giornate di lavoro con notti in bianco perché il bambino ha gli orecchioni ho preso la drastica decisione di spendere più della metà del mio stipendio in una vicemadre a tempo pieno. Ora la notte, quando non lavoro, dormo ma cosa penserà di me mio figlio? Certo rispetto alla grande maggioranza delle lavoratrici sono una super privilegiata, ma spesso mi chiedo se ne valga la pena. E il dubbio si trasforma in rabbia e la rabbia cresce quando mi accorgo della superficialità del nostro lavoro. Ho crisi settimanali ritmate dalle scadenze che ci vengono richieste. Il mercoledì sono buttata su un argomento, il lunedì seguente è finito e si ricomincia. Svolazzo tra fatti grandi e piccoli, tra facce sconosciute, tra taxi e camere d’aspetto e alla fine mi sorge il dubbio «ma avrò capito qualcosa?». Eppure, un giorno di più, un solo giorno, per pensarci su non c’è. «È pronto il tuo pezzo?» e io giù a battere a macchina. Il quarto potere, la stampa libera e democratica, gli scandali da denunciare eccetera eccetera. Tutte cose sacrosante, ma non giudicatemi arrendevole e qualunquista se vi faccio una confessione. Ogni tanto penso che quella manciata di righe, vi giuro tanto sudate, per sei giorni al massimo avranno «l’onore della stampa» ma il settimo finiranno ad avvolgere un pacco di spinaci. È questo sottile dubbio che fa nascere, credo nei giornalisti, la nevrosi da complimento e la nevrosi da libro. La pnima è l’attesa spasmodica del giudizio del direttore, del redattore capo, dei colleghi, del lettore. La seconda spinge molti a sentirsi degli scrittori mancati e quindi a cercare, costi quello che costi, di scrivere e pubblicare un libro. Almeno quello non finisce al mercato! Il clima è questo ma potrei raccontare molte altre cose: le serate tra giornalisti (si parla solo di giornali-direttori-tirature), il balletto delle offerte di lavoro ricevute da altri giornali (se vere tenute rigorosamente nascoste se false sparse abilmente in giro per far alzare le proprie quotazioni), le teorie (purtroppo vere) secondo le quali disoccupati, emigrati, spastici, etc. con relative foto fanno precipitare le tirature dei giornali e quindi è meglio parlarne poco, e mai metterli in copertina. Perché in fondo siamo d’assalto, siamo democratici, siamo magari anche compagni ma il giornale è pur sempre un prodotto da vendere. E i giornalisti sono tanti piazzisti, alcuni lo sanno vendere meglio, altri peggio.

«Perché in fondo siamo d’assalto, siamo democratici, siamo magari anche compagni, ma il giornale è pur sempre un prodotto da vendere. E i giornalisti sono tanti piazzisti, alcuni lo sanno vendere meglio, altri peggio».

3 avrò mai un contratto
Quando, da piccola, mi chiedevano cosa volessi fare da grande, non avevo mai il coraggio di dire «la giornalista», come pensavo, e rispondevo sempre «la professoressa», apparendomi il primo un mestiere irraggiungibile, affascinante, avventuroso, rischioso, interessante, insomma «da uomini» e del resto ero assolutamente convinta non tanto del fatto che non ne sarei stata,_ capace, ma del fatto che mai al mondo mio padre mi avrebbe permesso, che so, di partire per un servizio, o di apparire in televisione mentre intervistavo un pericoloso gangster latitante, o semplicemente di disporre del mio tempo a seconda delle necessità di lavoro («cosa vai in giro, le donne per bene non girano la notte, e poi ti devi trovare un lavoro che ti lasci tempo per la famiglia, in futuro, la tua occupazione prima devono essere il marito e i figli» e via discorrendo). Così, non gliel’ho mai nemmeno chiesto, a mio padre, se «potevo» provare a fare questo lavoro che come idea (romantica e del tutto irreale, peraltro) mi piaceva tanto, e, castrandomi da sola, (maledetta abitudine difensiva contro la quale combatto ancora quotidianamente), imparai disciplinatamente a farmi piacere un lavoro più tranquillo, di poche ore al giorno, di tipo «culturale», sedentario, prevedibile (il ’68 ancora non era arrivato), insomma «da donne»: l’insegnante. Lavoro che poi in realtà ho svolto per alcuni anni i] meglio possibile, ma che comunque, c’è poco da fare, non era quello che io volevo e che comunque avrei accettato meglio se non avessi sentito «socialmente», la coercizione a doverlo scegliere in quanto etichettato come lavoro per donne, e perciò di serie B. Anche il mio «fidanzato» era contento della professione che avevo orma’ «scelto», non solo, ma riuscì — e fu mia la colpa di subire ancora come una stronza — anche a tarpare le mie velleità di rimanere a lavorare all’università (e così rinunciai a una borsa di studio per Parigi: «meglio alle medie, là sono tutti ragazzini, e le colleghe tutte donne, all’università ci sono gli studenti che magari sono fichi, e i professori ancora più fichi»). Il ’68 l’«immaginazione al potere», la rivoluzione culturale, sembravano non intaccare la mia ovvia squallida vita borghese, ma la faccia rabbiosa, felice, dura, entusiasta delle ragazze e dei ragazzi che occupavano l’università (che frequentavo regolarmente: lettere, naturalmente, e leggevo pure Marx ed Engels) mi mettevano addosso un’inquietudine appiccicosa che mi riempiva d’angoscia, e mi tormentava di invidia. Separavo la mia vita dalla mia coscienza, non avevo il coraggio di andare con loro, che sapevo «giusti», avevo paura della Famiglia (calabrese, socialdemocratica, con tutti, proprio tutti, gli annessi e connessi tradizionali). Insomma, per farla breve, ho Vissuto una vita di merda, proprio da manuale della perfetta stronza, fino ad arrivare perfino al matrimonio con l’esemplare di fidanzato prima descritto. Ma, per fare questo, avevo esercitato da sempre e metodicamente una tale violenza su di me, che a un certo punto la mia coscienza di persona si è ribellata. Proprio così, una domenica mattina, di botto (come nei film, una scena liberatoria bellissima), mi sono svegliata e ho mandato affanculo tutti-tutti, il maritino, il babbino, la mammina, la scuolina. Sono andata a vivere per conto mio, ho cominciato a fare politica, ed ho dato il via, ebbene sì, alla mia folgorante carriera di giornalista.
L’approccio è stato abbastanza casuale, e direi, fortunato (si fa per dire). Ho potuto iniziare con una certa facilità — senza raccomandazioni — a collaborare per un grosso settimanale democratico. L’ambiente era giovane, simpatico e, almeno apparentemente, molto disponibile. In effetti mi furono insegnati i trucchi del mestiere, mi furono dati in parte gli strumenti per imparare velocemente (prassi necessaria affinché io divenissi il più presto possibile in grado di lavorare e rendere, rendere, rendere). Senonché, man mano che acquisivo sicurezza di mestiere cominciavo a stancarmi del modo in cui ero utilizzata, mi rendevo conto che il mio ruolo, di collaboratore donna, anche se non vistosamente ghettizzato, lo era però, inevitabilmente, e a vari livelli. In assoluto, appunto perché «esterna» (si fa per dire, vivevo praticamente in redazione, facevo veramente di tutto, dal portare le buste alle trasferte da inviata) non dovevo mai presumere di poter sconfinare nei territori presidiati dai redattori; in relativo, appunto, in quanto donna. Li difficoltà di presentarsi come persona credibile e dagli interessi «seri» (sennò fatalmente ti fanno fare cazzatelle di costume e di folklore, settori ingiustamente screditati e perciò destinati alle donne, mentre i collaboratori maschi vengono da subito instradati su settori «da uomini» — politica, economia, cultura — e certamente con più futuro) procede di pari passo con la fatica di non dimenticare mai che è meglio non essere troppo femminista altrimenti si diventa una spaccapalle. Rendersi accettabile, se per le donne è più facile a livello epidermico (uh!… una nuova collaboratrice. Cos’è? ‘Bbona o racchia, mai intelligente o cretina), è veramente duro a livello intellettuale e professionale. È difficile riuscirci, se la prova non la superi mai definitivamente. Alle donne in genere, non si permettono errori, cedimenti. Se sbagli una volta devi cominciare tutto da capo.
Dopo due anni di efficienza riconosciuta scrivi male un pezzo, non rendi per un po’ perché sei esaurita, perché ti passa sotto il naso un’ennesima possibilità di lavoro sfumata, perché hai abortito (dal momento che non ti puoi permettere il lusso di mantenere un figlio che desideri tanto)? Nessuno ti chiede cosa hai, se stai male, cazzo sono anni che lavoriamo insieme, che ci vediamo tutti i giorni, io intuisco dalla faccia se uno sta male, già, ma la mia di faccia non conta, cosa ho dietro e dentro non interessa, tu sei una collaboratrice non funzioni e chi se ne frega. E allora ricominci, abbozzi, cerchi di rilassarti e di non drammatizzare chiedi tu spiegazioni e soprattutto ti giustifichi, assurdamente per cose di cut non hai colpa, per reazioni magari improduttive, ma tanto umane. Non è è giusto. E questo non vuole essere un lamento, un ennesimo piagnisteo, ma una denuncia, per quello che può servire. Magari servisse (mo’ ce vo’ la retorica) per chi continuerà questo lavoro. Perché non sono mica tanto sicura che questo giornalismo, così come è fatto adesso, possa avere un futuro. La superficialità, la noia del linguaggio, il conformismo, il non impegno (quello vero, non quello parolaio, da cui siamo sommersi), la scorrettezza dominano. È l’arroganza del potere, la tracotanza dei creatori del consenso. A me è stato detto chiaramente — certamente per il mio bene — che io abitualmente «bravissima» forse a un certo punto non funzionavo più per motivi che erano, nell’ordine, i seguenti: 1) perché penso troppo; 2) perché non sono sufficientemente cinica; 3) perché cerco di essere troppo corretta (cioè mi faccio coinvolgere troppo a livello di coscienza) con le persone o le situazioni di cui scrivo; 4) perché sono troppo «impegnata»; 5) perché frequento persone «non del giro» cioè non giornalisti professionisti (che potrebbero insegnarmi tante cose e indirizzarmi meglio su come ci si comporta); 6) perché faccio autocoscienza con delle mie amiche — alcune collaboratrici — e ci roviniamo a vicenda. Bene, io sono ancora nel limbo del precariato, non ho ancora un contratto da giornalista professionista, e tutte le cose che mi hanno rimproverato i miei capi sono vere, e il bello che sono proprio quelle che danno un senso al mio modo di vivere e di lavorare. È proprio così che io intendo rapportarmi con me stessa, i miei amici, la gente, il mio impegno politico, il lavoro. Ce lo avrò mai, un contratto?

4 la battaglia del grembiule
Sono entrata alla RAI nel 1955, con una laurea in lettere, un diploma in pianoforte, alcuni anni di insegnamento, di cui uno in una Università americana. Assunta come funzionarla artistica, per prima cosa pretesero che indossassi il grembiule. Tutte le donne, alla RAI, avevano l’obbligo di mettere il grembiule nelle ore di lavoro. Gli uomini no. Mi rifiutai; fui convocata prima dal vicecaposervizio, poi dal caposervizio, infine dal capo
del Personale. Con molte scuse dato che ero una «vera signora» (disse, baciandomi la mano), mi rinnovò l’invito a ubbidire e non turbare la serena atmosfera del lavoro femminile, dovuta al fatto che — col grembiule — le donne si sentivano, secondo lui, tutte uguali, si evitavano le frustrazioni dovute a paragoni fra la meno elegante e la più elegante, non si correvano rischi di abbigliamenti scollacciati e di cattivo gusto che avrebbero potuto eccitare gli uomini e distoglierli dal lavoro, e via con argomenti di questo genere. Gli domandai perché non fosse in tuta (la domanda lo sconvolse) e finì che dovetti richiamarmi alla Costituzione. La spuntai. Fu la prima battaglia femminile alla RAI, la «battaglia del grembiule», conclusa con successo. Vestita finalmente, come tutte, dei miei panni, mi dovetti presto accorgere che esisteva un’altra discriminazione contro le donne: quella della carriera, delle promozioni cioè. Tutti i miei compagni di corso erano stati promossi, e io — dopo quattro anni — ero nella stessa categoria iniziale, la «C». Bussai alla porta del Direttore Centrale (da cui dipendevano le promozioni), gli chiesi se era soddisfatto del mio lavoro e lui mi fece molti elogi. Gli domandai allora, perché non venissi promossa. Come potevo pretendere — disse — di aridare in categoria «B», quando le donne in «B», alla RAI, si contavano sulle punte delle dita di una mano? Replicai che presto non sarebbero bastate neppure le punte delle dita dei piedi, perché, dal momento che le donne svolgevano lavori non diversi da quelli degli uomini e erano in possesso di titoli di studio rilasciati senza distinzione di sesso; avevano diritto a un trattamento uguale a quello dei colleghi maschi. Definii il comportamento della RAI, e suo, anticostituzionale. La parola lo colpì. Fui promossa. E dopo di me, molte altre.
Il mio era un lavoro giornalistico: redigevo un Notiziario Stampa Radio-TV, quotidiano, tiratura duemila copie, con tanto di licenza del Tribunale di Roma, diretto da un giornalista professionista. Chiesi la novazione di contratto, da impiegatizio a giornalistico. Dissero di no. Mi rivolsi alla Federazione Stampa per un parere che fu positivo. Esibii il parere, e inoltre varie testimonianze, articoli, lettere, ecc. Ero diventata intanto Vice Capo Servizio Stampa, inquadrata in categoria «A». Secondo loro era il massimo, che volevo di più? Inutile portare gli esempi dei tanti uomini, entrati dopo di me al Servizio Stampa «, dopo un po’, trasferiti in una delle testate giornalistiche, col loro bravo contrattino di giornalisti in tasca. Nella mia cartella personale loro avevano scritto «intrasferibile», avevano cioè decretato che sarei dovuta rimanere a quel posto per sempre, senza mai poter diventare Capo Servizio Stampa (bisognava essere giornalisti per ricoprire questo incarico), praticamente bloccata, paralizzata. Mi stavo preparando alla vertenza sindacale, quando improvvisamente il nodo si sciolse. Era il 1970, avevo perso quindici anni di lavoro. A quarantasette anni ho coronato la mia legittima aspirazione ad avere il contratto giornalistico, corrispondente al lavoro che svolgevo da tanto tempo. Fui trasferita al Giornale Radio ma, in redazione, le cose andavano male per le donne. A parte il fatto che erano appena una trentina su 800 giornalisti della RAI, le notizie importanti, qualificanti, la politica interna, le interviste, i dibattiti, erano appannaggio degli uomini. In televisione, le nostre facce apparivano soltanto nell’edizione (per nonne e bambini) delle 17,30. Al telegiornale delle 20, c’era il divieto di presentare non solo la nostra faccia ma anche la nostra voce. Così, facemmo un’altra battaglia, tutte insieme, per il diritto a un uguale trattamento coi colleghi maschi. Poi, venne la riforma. E con quella qualcosa è cambiato; forse non in tutte le testate, ma per esempio nella mia — il GR3 — non esistono discriminazioni fra uomini e donne. Intanto, è il Giornale Radio che ha la massima percentuale di giornaliste (il 20%), e poi si distingue per lo spazio che dà alla donna, sia giornalista, sia cittadina. Nel GR3 c’è posto per le femministe — che per la prima volta nella storia della radio hanno avuto una rubrica tutta per loro — e c’è posto per i temi, i problemi che riguardano il mondo femminile. E finalmente ognuna fa il lavoro che sa fare meglio e che le piace di più. Lucia Netri fa il sindacale, Elena Scoti si occupa di femminismo, Paola Avetta sta ai servizi parlamentari, io svolgo inchieste e servizi culturali, e c’è, come inviato speciale, Pia Moretti, forse l’unica donna redattore capo centrale d’Italia. Insomma, le battaglie servono, anche se sono faticose. Mi rendo conto che, in generale nella stampa, la situazione è ‘ rimasta molto discriminante e difficile per la donna. Ed è per questo che io non smetterò di combattere finché l’ultima delle mie colleghe non avrà avuto quello che le spetta, e non vedrà riconosciuti i suoi diritti ad essere considerata una cittadina di categoria A come gli uomini, e non B, C, D, E, eccetera.

«Insomma le battaglie servono, anche se sono faticose. Mi rendo conto anche che, in generale nella stampa, la situazione è rimasta molto discriminante, è difficile per la donna. Ed è per questo che non smetterò di combattere».

5 il politico è privato
Ho cominciato tardi a fare la giornalista: avevo più di trent’anni. Prima, avevo fatto attività politica: ero stata responsabile femminile del Poi in Abruzzo responsabile della propaganda nella federazione di Pescara, poi consigliere comunale e assessore, facevo parte sempre del Comitato Federale e della segreteria. Nel Pci, in quegli anni, le donne non solo non venivano discriminate, ma anzi se ne sollecitava la partecipazione e l’inserimento negli organismi dirigenti. A certe condizioni, naturalmente; si richiedeva grande spiritio di sacrificio, capacità di dedizione, disciplina. Non credo di aver avuto, per anni, una domenica libera. Le ferie estive non duravano più di quindici giorni, i «permessi di maternità» non più di un mese. Si usava così, la cosa ci sembrava normale e in certo modo ci esaltava. (Il fascino dell’austerità viene da lontano!).
Non avevo fatto troppa fatica ad accettare queste norme. Mia madre, una donna straordinaria, ci aveva insegnato alcune cose fondamentali : che non è necessario un uomo, anzi forse è dannoso, per essere felici; che bisogna dare alla propria vita una rigorosa disciplina (mangiare poco, fare ginnastica la mattina, e lavorare e studiare sempre in qualsiasi condizione). Le ho rimproverato a lungo di amare il suo lavoro più di noi tre figlie, lei diceva che non era vero, ma ho sempre pensato che non dicesse la verità; solo più tardi ho capito che erano due amori — quello per il lavoro e quello per i figli — di qualità diversa. Voglio dire che tra le cose che mi aveva insegnato, mia madre e le cose che mi chiedeva il partito c’era una stretta continuità, ed io trovavo naturale quindi lavorare molto, studiare, e non consideravo, così come non considero ancor “oggi, che il tempo dedicato ai comizi o alle riunioni (anche di domenica) fosse sottratto ai miei figli o alla mia vita personale. Ho avuto due figli. Avevo un marito che non è mai andato a prenderli a scuola. Ma il fatto che fosse dirigente di partito (ed abruzzese per di più) lo assolveva ai miei occhi di questa mancanza, o comunque mi faceva pensare, sia pure a denti stretti, che non poteva che essere cosi, fu molto faticoso; forse (ma non saprei dirlo con certezza) qualche volta pensai anche che era ingiusto.
Il mio primo direttore, quando cominciai a lavorare a Vie Nuove, fu una donna: Maria Antonietta Macciocchi. La stimavo (e la stimo) molto per la sua eccezionale capacità di lavoro, la sua tenacia, il suo disordinato fervore intellettuale. Era un direttore molto esigente; era convinta di dirigere, che so io?, il New York Times e pretendeva spesso l’impossibile. Perché a un certo punto venne allontanata dalla direzione del giornale? Non esattamente perché era una donna, ma perché aveva o le venivano attribuiti dei difetti che in una donna vengono considerati imperdonabili. (Varrebbe la pena di tornare un giorno sul tema: qualità e difetti di un militante e loro apprezzamento nel Pci). Io passai all’Unità, come redattore parlamentare. Non ho mai avuto nel quotidiano del Pci l’impressione di essere discriminata in quanto donna. Allora i giornali chiudevano molto tardi nella notte, l’idea che il lavoro notturno fosse vietato alle donne non sfiorò mai né me né i miei colleghi. Successivamente sono passata a dirigere «Noi Donne», il ‘settimanale delPUDI. Ricordo questa esperienza come una delle più ricche della mia vita professionale, per la possibilità di stabilire un contatto reale con le lettrici e le loro esigenze. Non è elegante vantare primogeniture ma credo che fummo il primo giornale femminile a proporre la socializzazione dei lavori domestici (attraverso la istituzione di una fitta rete di servizi sociali e una diversa tipologia edilizia), ad avanzare il tema del superamento dei «ruoli» femminile e maschile, a scoprire la funzionalità al sistema economico attuale del lavoro della casalinga, a denunciare i -difetti e i vizi dell’«uomo di sinistra». Se non sbaglio furono proprio questi servizi sull’uomo di sinistra, scritti da Giuliana dal Pozzo, a suscitare le maggiori proteste e malcontenti. Nel 1969 passai a Paese Sera dove ho svolto per alcuni anni funzioni di inviato e quindi di caposervizio degli interni. Non so se i colleghi abbiano mai provato disagio per di fatto di. essere diretti da una donna: il problema è sempre stato al di là del mio orizzonte mentale. Lio lasciato il giornale per contrasti con il suo gruppo dirigente, contrasti che non avevano alcun rapporto con il fatto ch’io fossi una donna. Adesso, da un anno, lavoro come inviato di politica interna a Repubblica. È un giornale in cui c’è un’alta presenza di giornaliste; molte sono collocate di posizioni di notevole prestigio,
da Barbara Spinelli inviato e commentatore di politica estera, a Vittoria Sivo responsabile del settore sindacale. Mi avete chiesto una testimonianza, che vi rendo volentieri anche se sospetto che non conforti la vostra impostazione ideale. Probabilmente si può dire di me (e qualcuna delle mie amiche femministe me lo rimprovera) che io sono un «negro bianco» nel senso che ho assunto comportamenti, mentalità e valori tipici degli uomini. Fare il giornalista mi piace anche se (o forse proprio perché) è una attività che richiede una grande identificazione professionale, che lascia poco spazio alla vita personale. Ma se il «privato è politico» anche il «politico è privato»: ho sempre trovato più divertente preparare una inchiesta che una torta, partire per un bel servizio che per un week end con un uomo. Può darsi che sia mancanza di fantasia, ma io mi ci trovo bene.

6 dalla moda alla rabbia
È imbarazzante scrivere la propria storia quando si sa che è simile a mille altre dello stesso settore, banale, appiccicosa e, oggi, dopo 18 anni di lavoro, anche lacrimosa e stanca. 18 anni di articoli, due soli dei quali con regolare contratto di serie «b», collaboratore fisso pur facendo l’inviato speciale.
Questi i dati: nel ’58 ho cominciato a scrivere perché mi piaceva molto e perché avevo fatto anche una università per farlo. In quell’anno però le signore appena sposate facevano, logicamente, solo bambini e non articoli. Tanto meno se figlie di architetto e mogli di architetto! Ero una «signora» che scrive per passare il tempo, non degna quindi di contratto, ma solo di molta considerazione. In tanti anni ho incontrato un discreto numero di direttori: dei muri di gomma sui quali si sbatte senza, rumore. Disposti raramente al dialogo e sul piano di lavoro e su quello economico. Esser la moglie di un architetto è stato per lungo tempo un handicap, meglio sarebbe stato esser un «caso» da sistemare. Dal ’58 al ’64 ho lavorato per quotidiani di provincia: Napoli, Venezia, Catania, Palermo, Torino, sempre senza contratto — guai a pensarlo! — sempre a pezzo, all’inizio anche senza rimborso spese.
Nel febbraio del ’68 fui chiamata a lavorare ad un quotidiano di Roma con la promessa di un contratto nel giro di un anno. Ne ho ottenuto uno di serie «b» solo dopo sette anni! Sette anni di cordiali incontri, signorili discorsi, gentili richieste sui quali ha sempre pesato un «no» quasi tassativo.
In «provincia» scrivevo di molti argomenti oltre alla moda, viaggi, politica, libri, mostre, A Roma, città nella quale ho un giro di amicizie e conoscenze enorme perché appartengo ad una famiglia molto numerosa, sono stata relegata alla moda, specialità castrante e per lungo tempo unica. Dal ’68 però ho dimostrato molte volte di essere un buon tappabuchi in altri settori, ultimo quello delle donne che mi ha rivelato però femminista e quindi da mettere a parte. Da due anni chiedo di potermi interessare di altri argomenti oltre alla moda, ma il no si riaffaccia incomprensivo e deciso. Per tre anni ho scritto per ima pagina specializzata di pubblicità redazionale, operazione niente affatto conveniente sul piano professionale e tanto meno economico,
La buona volontà doveva servire a rientrare, con 260 \ pezzi all’attivo in 36.5 giorni, in quella ristrutturazione che il giovane direttore stava elaborando e che tutti aspettavano per «sanare» scontenti e situazioni. Niente invece: sono rimasta il collaboratore esterno, un po’ più orfano di prima, unica gestrice del settore moda, redditizio per il giornale in pubblicità e lettori, le cui formule sono rimaste identiche anche se il settore è cambiato e molto. Così a 40 e più anni ho provato di persona quella depressione descritta, ironia, proprio sulle pagine del «mio» quotidiano da Servadio: la depressione della signora che non vede adeguati orizzonti davanti ai suoi occhi e che tira le somme. Una laurea, due lingue parlate e scritte, una certa curiosità e cultura, una buona fotografa: esterna, di fronte ad un muro di gomma fatto di uomini. Non ho un tavolo, non una sedia, al giornale solo una casella per la posta. Riveritissima, ma esterna, senza possibilità di scrivere altre cose — recensioni dì libri, per esempio, di mostre, cose di «donne» — né di mettere a fuoco le qualità organizzative che posseggo e che mi sembra di capire sarebbero interessanti in un giornale. Intanto sono giornalista professionista ed ho» maturato diritti diversi per godere i quali dovrei fare altri discorsi gentili ed altre battaglie che, confesso, mi trovano sfiduciata e stanca. L’80% degli articoli che scrivo è da «inviato»; ho chiesto di cambiare le formule di lavoro, ho chiesto di… cercato… pensato… il muro di gomma assorbe tutto. Evidentemente mi propongo ad un livello e con un dialogo non giusto. Pretendo, è forse troppo, che dopo anni mi si scopra per quello che valgo e che so di poter fare! Anche se la storia principale è con il quotidiano ho lottato nel frattempò con molti settimanali e mensili; sempre eia collaboratore — lavori già in un quotidiano! — e sempre senza contratto — ha già un altro posto! Articoli di «moda» e ogni tanto di colore. E di altri argomenti. Nel ’76 ho rotto la barriera con i libri: ho fatto 11 primo. Una esperienza. Poi, richiesta, ho scritto per importanti testate straniere. Nemo proprietà in patria: che scarsa consolazione! Ho avuto proposte per altri libri: li farò tutti. Ne proporrò altri. Aver messo la «moda» ad un livello serio, economico, sociale oltre che > di attualità e costume non è servito. Lo scudo lucente della stupida educazione vecchio stampo, vecchia famiglia numerosa, si è ammaccato, dopo la rabbia adesso la depressione. Per uno spazio vitale mancato, per un contratto che non arriva, per qualche lira in più. Per qualche battaglia pulita. Per scuotere la gente da un mondo di cose inesatte e troppo frivole. Per interessarsi di problemi di donne, come me, cui il «mio» quotidiano però chiude le pagine. Le apre a colleghi con i baffi. Ed ha un direttore giovane, quanto me, tutto preso pero nel sottile gioco della politica. Le donne? Che sono? che vogliono?

«lo trovavo naturale quindi lavorare molto, studiare, e non consideravo così come non considero oggi, che il tempo dedicato ai comizi e alle riunioni fosse sottratto ai miei figli o alla mia vita privata».