lavoro: l’andropausa del quarto potere

dopo Taormina, che è stata la prima breccia nella roccaforte maschilista della stampa, le giornaliste si sono impegnate ad organizzare un convegno, che dovrebbe svolgersi in aprile, probabilmente a Milano, sul tema «Donna e informazione».

marzo 1977

il 1976 ha segnato l’inizio della lotta delle giornaliste. Lo scontento diffuso tra molte donne che lavorano nei giornali — sia perché emarginate e dequalificate, sia per il modo di «fare gioN nalismo» imperante nel mondo della carta stampata, sia per il «prodotto», il giornale, in cui le donne hanno scarse possibilità di riconoscersi — si è concretizzato in una serie di iniziative. Il documento che pubblichiamo, letto al convegno della stampa di Taormina dell’ottobre scorso (in cui, per la prima volta, era stata eletta alla vicepresidenza una donna, Anna Bartolini, del «Corriere della Sera») è una sintesi della situazione in cui si trovano le giornaliste e degli obiettivi che si pone il neonato movimento. Dopo Taormina ci sono state, a Roma, a Milano e in alcuni altri centri riunioni e incontri per decidere come far uso di questa conferenza, la prima di questo tipo in Italia. A Roma le donne che lavorano nei giornali hanno formato cinque gruppi di studio: sulla «professionalità», sul sindacato dei giornalisti, sul «lavoro nero», sulla «qualità» del prodotto, e di analisi dei questionari che sono stati distribuiti tra le giornaliste. Oltre all’intervento di Taormina, pubblichiamo qui alcune testimonianze. Ci riserviamo di pubblicare i documenti, che le compagne giornaliste stanno elaborando, nel prossimo numero, insieme all’analisi del congresso.

xv congresso nazionale della stampa
(Taormina, 11-16 ottobre 1976)
Relazione del Gruppo Donne di «Rinnovamento Sindacale» Vogliamo chiarire subito che siamo perfettamente consapevoli di essere a questo congresso in poche, anzi pochissime: sette elette nella corrente di «Rinnovamento» della Lombardia, sei elette dalle altre associazioni regionali. Siamo poche ma fortemente unite tra noi e con le colleghe che rappresentiamo. Abbiamo portato nelle riunioni di lavoro preparatorio non una forza di corporativismo femminile all’interno di una professione già a forti tendenze corporative, ma quella solidarietà che sta diventando uno dei punti di forza del movimento delle donne. Negli ultimi anni, il Paese è maturato soprattutto per l’avanzata delle donne. Ogni battaglia, da quella per la casa a quella per la scuola, per il lavoro, i diritti civili, ci ha visto protagoniste. Invece la nostra partecipazione non è stata determinante nei mass media. C’è stato però un risveglio (ricordiamo di caso della lotta delle giornaliste della RAI). Le colleghe della Lombardia con un lungo e paziente lavoro — svolto per più di un anno — sono riuscite a far votare nelle ultime elezioni il 70 per cento delle iscritte professioniste ed il 40 per cento delle pubbliciste; contro il 60 per cento dei colleghi professionisti ed il 30 per cento dei pubblicisti. Nel 1974, la percentuale totale dei votanti non aveva superato il 38 per cento. Questa cresciuta partecipazione sindacale è maturata con una inchiesta, la prima del genere, organizzata da un gruppo di colleghe e condotta con un questionario tra pubbliciste e professioniste iscritte appunto alla Lombardia. Il nostro lavoro ha confermato la discriminazione delle donne nei mezzi d’informazione. Ne diamo qui una rapida sintesi. Le professioniste iscritte alla Lombardia (al 1975) erano 190, le più numerose rispetto ad altre associazioni, perché in Lombardia si concentrano la maggior parte delle testate a diffusione nazionale. Hanno risposto al questionario in 140, cioè il 74 per cento. Ebbene, il 54 per cento delle giornaliste lavora per testate femminili, come bassa manovalanza con un accesso molto difficile alle poltrone direzionali, riservate nella stragrande maggioranza dei casi, ai colleghi. Il 71 per cento di queste colleghe non ha qualifica superiore a quella di semplice redattore. Vi sono solo tre direttori e sette caporedattori su 140. Dalle risposte risulta inoltre che soltanto 24 colleghe lavorano nei periodici nazionali di attualità; ma con quali mansioni?
Moda, arredamento, cucina; lo stesso vale per le 19 che lavorano in un quotidiano (salvo le eccezioni che confermano la regola). Così tante di noi sono state costrette a lavorare nella stampa femminile perché quotidiani e settimanali politici e di attualità non accettano che una piccolissima percentuale di colleghe nel loro staff. Se non ci fosse stampa femminile, non esisterebbero oggi giornaliste; o sarebbero per il 90 per cento disoccupate. Vogliamo offrire alcuni esempi lampanti. I giornalisti professionisti iscritti all’Albo dell’Ordine (al 1975) erano 6.073 di cui 498 donne (ora le percentuali sono cresciute). Ecco alcuni dati di testate: alla RAI lavorano circa 800 giornalisti di cui 36 donne. Al Corriere della Sera su 142 giornalisti, 5 donne; all’Informazione, su 63, 5 donne; La Stampa e Stampa Sera, 16 colleghe su 237. Al Messaggero, una sola redattrice di moda su 144 redattori (e molte collaboratrici per la terza pagina e quella degli spettacoli con il metodo di una convulsa rotazione). Al Giorno, 6 su 187; a Paese Sera, 13 colleghe su 200; al quotidiano II Tempo, 6 donne su 170; alla Repubblica, 11. regolarmente assunte su 65; all’ANSA, 23 su 236. Nei quotidiani di provincia la situazione non è migliore così come nei settimanali, anche in quelli che si dichiarano all’avanguardia. Per quanto riguarda le pubbliciste, risulta che le collaborazioni offerte alle testate non sono altro che un vero e proprio lavoro nero, una manovalanza di riserva che serve a calmierare il mercato delle assunzioni, che non fa fare carriera, che spezza l’unità sindacale dei lavoratori nel settore dell’informazione. Infatti, su 93 pubbliciste che hanno risposto alla nostra indagine, 62 non hanno un contratto perché hanno paura di chiederlo temendo di perdere quella collaborazione e perché, se chiesto, gli è stato rifiutato. Ma le discriminazioni hanno un’origine più a monte, nel momento dell’inserimento professionale.
Dall’inchiesta è risultato che il 26 per cento delle professioniste ha impiegato da sei a dieci anni per ottenere l’iscrizione all’Albo e molte sono state le reticenze nelle risposte sul tempo impiegato per ottenere un contratto regolare. Noi siamo perfettamente consapevoli che in Italia si legge poco, anzi si legge sempre meno (quattro milioni e mezzo di quotidiani al giorno) ma siamo consapevoli che questo è proprio l’atto di accusa più palese contro la qualità del prodotto giornalistico. Ebbene perché non tentare di rompere questa corsa sulla china in giù anche con l’apporto della nostra professionalità? La frattura che esiste tra la stampa e la società, tra la stampa e le donne, può essere eliminata proprio con un nostro inserimento professionale; ci seritiamo di affermare che più donne leggerebbero quotidiani o settimanali d’informazione se su quelle pagine trovassero interpretazioni più coerenti con la condizione femminile e umana in genere.
A questo punto vorremmo fare un inciso: quando si parla di lettori di giornali si continua a dire che gli uomini leggono il quotidiano, le donne la stampa femminile, dando già a questa affermazione un implicito valore dispregiativo verso la donna e verso la stampa che legge. A parte il fatto che la stampa femminile con i suoi budgets pubblicitari ha retto sulle sue spalle l’editoria spocchiosa dei grandi settimanali politici; a parte il fatto che essa è un buon prodotto editoriale, in molti casi va sfatata l’idea che gli uomini leggono i quotidiani o i grandi settimanali d’informazione. Non è vero. Se la maggior parte delle donne legge fotoromanzi e periodici per lei confezionati, è pur vero che la maggior parte degli uomini legge Tex, il Monello, l’Intrepido o la pagina sportiva dei quotidiani. C’è un altro fenomeno che noi giornaliste denunciamo. I giornali diventano sempre più isolati dal mondo: fatti e letti quasi esclusivamente dalle stesse persone e cioè da figli, mogli, amanti, amici di giornalisti, politici, industriali, intellettuali, una casta molto precisa che detiene il potere e lo esercita attraverso le sue clientele. Questo spiega il carattere così corporativo della nostra professione arroccata in un Ordine che è la proiezione della società cui la stampa si rivolge. Siamo dunque contro la lottizzazione mafiosa del lavoro giornalistico che ha portato al decadimento della funzione della stampa in un Paese democratico. Il nostro apporto di donne giornaliste che vorrebbero lavorare meglio in giornali migliori, non può non soffermarsi anche su un punto cruciale del nostro modo di lavorare. Parliamo dell’umiliante concorrenza all’interno delle testate, per strapparsi j servizi uno con gli altri, dentro una logica di arrivismo di cui poi direttori e padroni si servono per dividerci e caricarci di diffidenza e dispetto. Questo modo di lavorare non premia il giornalista che si sottopone a scorrettezze che non gli meritano riconoscimenti; non premia il lettore che è ben lontano dalla logica corporativa nostra per cui una notizia data prima o con più particolari vale di più, non premia il giornale se non per sporadici e miserabili trionfi perché vende di più: premia solo direttori e padroni, a prezzo della nostra coscienza civile e sociale a cui dovrebbe premere che certe notizie (pensiamo a certi scoop sugli scandali del potere) non siano medaglie del giornalista che le ha trovate o del suo giornale, ma vengano diffuse il più ampiamente possibile, vengano lette dal maggior numero di persone possibile.

«Non abbiamo nessuna intenzione di partecipare a questo congresso in modo subordinato, siamo qui per due ragioni: discutere dell’inaccettabile discriminazione verso le donne che domina anche nel settore della stampa; contribuire a risolvere i gravi problemi della nostra professione con un apporto nuovo e più combattivo»

proposte
Il 64,8 per cento delle pubbliciste che hanno partecipato all’inchiesta ritiene che si debba arrivare ad una unità contrattuale per tutta la categoria. I pubblicisti ritengono infatti che per loro dovrebbe essere possibile un accesso al professionismo con esame al quale si possa accedere su esibizione di una completa documentazione dalla quale risulti che si tratta, come il nostro sondaggio ha dimostrato, di collaborazione continuata (il 72,5 per cento delle giornaliste senza contratto svolge una collaborazione continuativa) su testate di rilievo nazionale (26 collaborano a quotidiani. 24 a periodici di attualità a grande tiratura, 16 a giornali femminili e così via). La mancanza di un contratto impedisce, indipendentemente dalia professionalità, ai collaboratori di potere accedere alla professione. Una delle conseguenze negative di questa suddivisione pur a parità di professionalità è l’assoluta mancanza di tutela assistenziale e previdenziale. Solo 27 delle 93 pubbliciste hanno sottoscritto un’assicurazione volontaria e godono del gabinetto medico dell’Associazione.
Un’alternativa possibile alla soluzione sopra indicata sarebbe la estensione più ampia possibile dell’Articolo 2 del contratto di lavoro giornalistico che come è noto si rivolge alle collaborazioni continuative. Per raggiungere questo obiettivo occorre svolgere un’opera di sensibilizzazione dei Comitati di redazione, dei fiduciari di testate, affinché effettuino un controllo sul lavoro degli esterni. L’opera di sensibilizzazione dovrebbe portare ad inserire in tutti i Comitati di Redazione un rappresentante dei pubblicisti che possa quindi controllare il lavoro dei collaboratori. Lo obiettivo è anche quello di creare un collegamento più stretto tra redazioni, comitati di redazione ed esterni. Una maggiore collaborazione tra giornalisti professionisti e pubblicisti dovrebbe portare le redazioni a non ostacolare né boicottare il lavoro dei collaboratori i quali, a loro volta, dovrebbero maggiormente partecipare ai problemi di fondo, alle scelte politiche delle varie redazioni.
Un’altra condizione è quella di un controllo da vicino di ogni editore affinché, chiarito il contenuto, la sostanza e la corretta applicazione dell’Articolo 2, vengano evitate comode scappatoie e non vengano evasi gli obblighi contrattuali. Un maggior controllo metterebbe a repentaglio sempre di più la possibilità di lavoro per i collaboratori esterni ma con il tempo porrebbe fine allo sfruttamento di questa manovalanza intellettuale che come abbiamo visto svolge quasi esclusivamente lavoro giornalistico in condizioni non accettabili nella gran parte dei casi. Un’altra battaglia importante va combattuta per l’applicazione degli scatti dell’indennità di contingenza ai giornalisti collaboratori che abbiano un contratto ex Art. 2.

«Non vogliamo essere assunte nei giornali in quanto ” star “, prime donne, grandi firme, neppure in quanto mogli, figlie, parenti di altri giornalisti, né in quanto esperte di cucina o di crochet, ma come ” persone ” con qualità per lavorare e riuscire come i colleghi, con le giuste e meritate prospettive di promozione e di carriera»