le soluzioni possibili
le donne sembrano oggi più che mai strette in una difficile contraddizione: contraddizione di una società che tende talora a vederle in funzione delle loro capacità di produzione talora — o al tempo stesso — in funzione delle loro capacità di riproduzione. E questa contraddizione è anche delle donne stesse, perché se alcune di loro rinunciano a dedicarsi alla maternità, altre non vogliono rinunciare a questa dimensione, considerata come modo di affermazione personale e di piacere, senza però accettare di esserne completamente assorbite.
Ed è a causa di questa «dimensione del piacere» che è difficile realizzare «lo sciopero del ventre» che talune di essa hanno talora immaginato; sciopero che sarebbe tuttavia la manifestazione di un potere non sfruttato da parte delle donne che, agenti necessari della riproduzione, dovrebbero divenirne anche padrone.
La maternità come necessità sociale non si identifica con la maternità come piacere, anche se i due aspetti possono spesso interferire. Ma quali che siano le sue motivazioni, la maternità diventa sempre più un problema man mano che si indebolisce l’istituzione familiare e persino la coppia.
Diventa necessario trovare delle soluzioni perché tanto la madre quanto il figlio possano godere della più larga occasione di affermazione della propria personalità.
La prima soluzione possibile, quella immaginata dai sostenitori della «equità», e quella che molte giovani donne e giovani femministe credono di poter realizzare, consiste in un’equa divisione dei compiti domestici tra l’uomo e la donna. È la soluzione più semplice, ma anche abbastanza utopistica, perché non prende in considerazione la diseguaglianza di fatto dell’uomo e della donna in senso alla famiglia e alla società. Fino a quando durerà il primato socio-economico dell’uomo sulla donna (migliori salari, migliore carriera, ecc.) il fattore tempo tenderà a distribuire sempre la divisione dei compiti in maniera sfavorevole alla donna. L’uomo di vent’anni divide i compiti, quello di trent’anni aiuta a svolgerli, quello di quarant’anni trova il modo di evitarli. Inoltre si può ipotizzare che le motivazioni psicologiche dell’uomo verso la paternità siano meno intense (per un fattore naturale o culturale, e noi propendiamo per la seconda ipotesi) di quelle della donna, e che l’uomo non è disposto a fare tanti sacrifici quanto la donna per avere dei figli. Né la buona volontà né la virtù possono sostituirsi a una minore intensità di desiderio. Inoltre, la fragilità attuale della coppia rende la formula della divisione dei compiti parziale e transitoria. Ed infine questa soluzione non sopprime, ma finisce per accettare lo sfruttamento capitalista e industriale della riproduzione che continua così ad essere effettuata gratuitamente per fornire’ alla società, e dunque alla classe dominante, la forza lavoro di cui ha bisogno. La seconda soluzione è della stessa natura ma più moderna: l’educazione dei bambini dovrebbe essere compito non più di un uomo e di una donna in seno a una coppia ma degli uomini e delle donne in seno alla comunità in cui i ruoli paterni e materni fossero assunti da diverse persone. O ancora dovrebbe essere affidata a comunità di donne. Questa soluzione, malgrado il suo interesse è suscettibile delle stesse obiezioni della prima. La terza sarebbe costituire un corpo speciale di donne consacrate alla maternità, e che sarebbero salariate per questo lavoro, come le altre donne per attività professionali diverse. Oltre al suo carattere poco realistico, questa ipotesi favorirebbe una specializzazione dei compiti che può essere nociva. In questa ipotesi, infatti, le madri sarebbero
tutte donne senza collegamenti con la vita intellettuale, socio-economica e culturale, delle «donne donne» che rischierebbero di preparare male i figli alla loro vita futura. Va precisato per altro che questo è appunto quello che si verifica molto spesso oggi: le madri quando si dedicano esclusivamente alla famiglia, sono molto spesso donne del tutto disarmate, poco consapevoli del mondo che le circonda, e quindi molto restrittive nella formazione che esse possono dare in un rapporto a due con i loro bambini.
La quarta soluzione consiste in una socializzazione progressiva dell’infanzia, compresa la prima infanzia. I rischi di questa soluzione non vanno sottovalutati. Nello stato attuale della società, sia capitalista che socialista, questa socializzazione rischia di prendere lo aspetto di un inquadramento di tipo militare, e, per quanto ci riguarda, non di superare ma di consolidare gli stereotipi dei ruoli sessuali e della discriminazione contro le donne, come accade oggi nelle scuole materni e elementari.
Inoltre, le situazioni attualmente esistenti — asili nido, scuole materne, ecc. — non possono rappresentare un modello per il tipo di socializzazione a cui ci riferiamo .Tanto dal punto di vista della lotta femminista, quanto dal punto di vista della lotta rivoluzionaria in generale, e soprattutto ai fini della «liberazione del bambino» si tratta di istituzioni da trasformare. Pur considerando la socializzazione come necessaria e favorevole tanto alla madre che al bambino, restiamo consapevoli di quanto sia utile a ogni essere umano di formarsi passando da un ambiente all’altro. Il passaggio dal gruppo largo al gruppo ristretto dalla vita’ sociale a quella privata, dall’asilo nido alla famiglia, ci sembra un fattore importante di sviluppo. La socializzazione dell’educazione è un complemento necessario ed efficace dell’educazione familiare o post-familiare, ma essa è potenziata e valorizzata dalla persistenza di un ambietne non istituzionale (famiglia, madre, comunità).