creatività

pandora nella casa degli dei

«crediamo che il rapporto con le istituzioni debba fondare una critica femminista che vada oltre gli schemi tradizionali storico-maschili».

febbraio 1978

è possibile pensare, e questo almeno nasce dalla nostra esperienza di gruppo, che il movimento femminista sia oggi da un lato estremamente e giustamente preoccupato di conservare e attrezzare tutta la sua autonomia (condizione della sua stessa sopravvivenza e della sua crescita) dall’altro costretta per forza di cose (se non si vuole ridurlo ad un monastero neanche critico che riproduce un circuito interno di gratificazioni) a esprimere, nella sua autonomia tutto il suo spessore politico e fare ciò naturalmente in rapporto a tutta la «identità» del «politico» così come questa condizione generale si dà nel nostro Paese e in generale nei Paesi dell’occidente capitalistici. Questo stato di cose pone una domanda diretta: quale può essere il nostro rapporto con i luoghi storici della presenza politica e civile? dello Stato, degli enti locali, i partiti, i sindacati? in poche parole con le istituzioni? E per far cosa?
Il tentativo di rispondere a questa domanda nasce dalla nostra esperienza specifica di gruppo di operatrici delle arti visive, dalla pratica di una nuova professionalità e politica (abbiamo parlato di questo nel numero di gennaio di questa rivista) ma nasce, in primo luogo, dal bisogno di confrontarci con le altre compagne nel definire nel modo più largo possibile i gradi della nostra coscienza e pratica politica.
È una risposta parziale la nostra che pone in luce pochi elementi {e molti di essi direttamente legati al nostro lavoro) ma che sollecita, richiede una franca discussione fra donne, anche e, non secondariamente, per uscire dalla dimensione comunque utile del gruppo ed andare ad un momento più generale di un’altra coscienza: quella del nostro rapporto col politico.
Noi pensiamo che se da un lato è vero che un rifiuto acritico di questo rapporto non può fare altro che rinchiuderci in un paradiso neanche tanto dorato di gratificazioni femminili è dall’altro lato anche necessario che nessuna di noi si illuda che questo rapporto, questo nostro entrare nel «politico» possa essere ridotto in termini tradizionali e maschili dei riformismi storici: dove ci si accomoda bene o male all’interno di alcune regole e alcuni modelli, ci si ritaglia un margine, un margine piccolo o anche grande di spazio, si gestisce anche una porzione di interessi sempre purché non si disturbi il funzionamento del meccanismo generale (che poi non è un dato astratto ma la pura e semplice formazione economico-sociale del capitalismo in occidente). Crediamo che il rapporto con le istituzioni debba fondare una critica femminista che vada oltre gli schemi tradizionali storico-maschili di questa stessa pratica, si debba confrontare le istituzioni con tutta la soggettività storica emergente del nostro movimento non è pensabile che i luoghi consacrati della politica dei maschi quei luoghi che hanno perpetuato la nostra condizione di subalternità vadano ad un’impatto indolore con tutto lo spessore del movimento, tutta la qualità politica femminile, la volontà di cambiamento che nasce dai bisogni delle donne: dai bisogni che diventano ragioni e ragioni politiche.
Non è pensabile che questo rapporto politico e necessario si dia senza che venga rotto neppure un bicchiere nella cristalliera delle pratiche sacrali e maschili, senza che si rompa neppure un piattino dove ci vengono servite le piccole gratificazioni utili a perpetuare la subalternità della nostra condizione, senza in poche parole, che le cose cambino in modo profondo e rivoluzionario i(così come noi donne usiamo e pensiamo di usare questa parola). E per un gruppo di operatrici delle arti visive questa parola ha un’importante significato. È il nostro modo di essere nel movimento proprio perché dall’esperienza del nostro vissuto, dai nostri bisogni siamo andate alla ricerca, alla definizione di linguaggi adeguati a significare gli uni e gli altri.
E sono bisogni rivoluzionari e linguaggi rivoluzionari. E’ chiaro che per gli uni e gli altri non cerchiamo uno spazio di accomodamento all’interno del ventre maschile delle istituzioni, ma lo spazio aperto dove essi producano, esprimano tutto il loro contenuto creativo politico e femminista. Come gruppo «Donne/Immagine/Creatività» pensiamo in altre parole, ad una equazione diretta, bisogni delle donne-linguaggi delle donne. E sono bisogni delle donne che escono dal Venerdì Santo del loro vissuto per vivere la Pasqua delle ragioni delle donne, della storia delle donne, della pratica politica delle donne. Partendo da questo dato semplice, e avvertito in condizioni disuguali e difficili da tante compagne, noi pensiamo ad un valore diverso dei linguaggi delle donne artiste e pensiamo si realizzi in un nuovo segno femminile. Un segno femminile che interviene negli spazi politici reali con cui ci confrontiamo non per accomodarvicisi graziosamente ma per cambiarli e cambiarli profondamente; proprio cambiarli nella misura (e non è una misura debole) con cui il segno femminile interviene a costruire un grado più alto della libertà ponendo il problema dei linguaggi femminili che ci appartengono come donne e come artiste.
Linguaggi che cambiano stravolgono i codici tradizionali che hanno sempre fornito la formula maschile della libertà, procedere alla trasformazione di questa formula e alla costruzione di. un’altra, griglia di comprensioni femminili di questa condizione e di questa pratica.
C’è quindi secondo noi, e c’è perché ci sforziamo di praticarla una condizione della donna artista che da un lato si sottrae ai codici maschili e dall’altro costruisce, anche se avvolta ancora da molte nebbie, la sponda dialettica di un nuovo sistema di comunicazioni, di una nuova struttura del linguaggio che per una volta non sono l’invenzione geniale dell’artista maschio, o il parto analitico dello studioso di linguistica ma nascono direttamente e l’abbiamo già detto, dai bisogni delle donne. Questo ci pare il nostro contributo su di un tema dove è importante la discussione di molte, di tutte le compagne; con tutte le esperienze, gli argomenti, gli impegni che portiamo con noi.
È anche il modo con cui pensiamo di rapportarci con nostro specifico al politico; senza spazi privilegiati e ghettizzanti per le donne e per le artiste, ma con uno spazio aperto, nostro, autonomo per la nostra voce di donne e di artiste.