sessualità: esperienze a confronto
coppia chiusa, coppia aperta, rapporto uomo-donna, donna-donna: un intreccio di problemi, di contraddizioni, di lacerazioni non risolte che segna la vita quotidiana di ognuna di noi. Continua il dibattito iniziato nei numeri scorsi di Effe.
vorrei intervenire nel dibattito che già da alcuni numeri di Effe è venuto fuori sul lesbismo, collegandomi al finale dell’articolo di Luisa che dice: «Le donne che vivono esperienze lesbiche debbono convincersi che il perseguimento di una soluzione individualistica ai loro problemi è fallace, in quanto le rende tanto più esposte al ricatto; ma anche il gruppo separato rischia di essere un’ulteriore ghettizzazione, facendo il gioco della società, confermandone il verdetto di un’identificazione separata e quindi perdente. Io credo che il primo passo sia quello di spezzare l’omertà che circonda il fenomeno omosessuale, che lo costringe, nonostante le sue dimensioni rilevanti, ad essere ignorato e trascurato. Sollevare la cappa del silenzio con cui la cultura patriarcale ha coperto questa trasgressione, non significa solo rompere l’isolamento dei diversi, ma anche far conoscere a tutte le donne un potenziale di felicità che «la società cerca violentemente e disperatamente di soffocare, affinché il regno del padre non-possa essere revocato».
L’analisi di Luisa concorda sia con l’introduzione fatta nel libro «Da donna a donna» (1), sia con una presa di coscienza compiuta insieme ad alcune partecipanti al libro, che ci hanno portato a muoverci anche a livello pratico. Per quel che riguarda l’introduzione, mi sono servita delle teorie ormai più accreditate a livello psicologico, ma castrata dal potere nelle loro conclusioni, per sostenere che esiste un transfert positivo, a livello inconscio, che si attua nel rapporto lesbico, alla ricerca di una madre migliore di quella che — non a caso — ci aveva dato il sistema.
L’uomo, impaurito dal potenziale — che ai primitivi appariva quasi magico — “della creatività femminile (esso è stato figlio per nove mesi e teme che nel coito la donna si riappropri nuovamente di lui), è turbato continuamente da fantasie di vagine dentate e castranti, ed attraverso i riti di sub-incisione, rende il suo pene il più possibile simile alla vagina che sanguina, ed orina anche accovacciato, «per poi prendere però su di sé ogni attività in cui possa esserci una creatività sublimata, creando così, il mito di Vulcano» (2). Ma per far questo, e nascondere «quelle paure che ancora non è riuscito completamente a togliersi, deve rendere la donna un’essere incapace, buona solo ad incamerare ossessivamente peni, ed a sfornare continuamente bambini. Alla figlia, la madre trasmetterà il senso della propria incapacità e di tutte le sue frustrazioni»; come se non bastasse non l’accetterà del tutto, in quanto la bambina, una volta cresciuta, toglierà a lei l’unica potenza che le aveva concesso il marito, quest’incamerazione provvisoria del pene che cresce, e scompare ad ogni parto.
«Un’identificazione positiva con la ” madre ” invece, e una ricerca inconscia di quello specifico femminile che ci è sempre stato negato, non può che essere pericolosa per il sistema».
A livello di omosessualità maschile, le figure padre figlio sono ben cristallizzate, ed ognuno ha il suo ruolo preciso, mentre nel lesbismo la posizione madre-figlia (riscontrabile mi sembra, in ogni rapporto), è circolare, serve a sperimentare, a seconda delle necessità del momento, l’archetipo della maternità in maniera nuova da quella proposta dal sistema.
Ciò può essere un fatto di crescita, una riacquisizione di quella fiducia che era stata tolta alla donna, non un vissuto solamente regressivo, come fino ad oggi la psichiatria ci aveva voluto far credere (3).
Che poi è noto come la regressione sia sempre presente all’interno di ogni essere umano: adoperando le teorie di Piaget e di Freud, potremmo dimostrare come le credenze religiose possano farsi risalire ad un livello di maturità corrispondente ai sette anni (4), e la religiosità addirittura ai primissimi mesi di vita, quando si ha un senso più ampio e meno delimitato dell’io (5). Essa però serve per quel che riguarda i credenti a farli rimanere sempre identici a se stéssi, mentre per il lesbismo si tratta di un «movimento», che si attua con l’acquisizione di una nuova sicurezza.
«Portar fuori quest’affermazione che il lesbismo non è un fatto necessariamente regressivo (nel senso di immobilismo), ma semmai di crescita, è smitizzare le mistificazioni compiute dalla scienza del sistema, e mi sembra un momento di lotta, da portare avanti».
In questo contesto, con una compagna antropologa, stiamo ultimando un lavoro che è di riappropriazione della psicologia e della sociologia da parte della controcultura, proprio per arrivare a conclusioni diverse da quelle alle quali finora ci avevano costretto, ed abituato a pensare.
Quando dico però che il lesbismo può essere una crescita e non una regressione, non credo di essere nell’identica posizione di quei movimenti femministi che predicano il lesbismo come fatto politico.
A parte che ho paura di qualsiasi ricetta e qualsiasi obbligatorietà, che potrebbero farci ricadere in formule da imporre anche ad altri, penso che quando a livello istintivo sentiamo il bisogno di un rapporto lesbico, bisogna chiarirne il più possibile i motivi, perché l’atto diventi politico, ma non pro-porcelo come fine da raggiungere, perché allora potrebbe diventare un’altra forma d’alienazione.
(1) Da donna a donna – Poesie d’amore e d’amicizia – Antologia a cura di L. Di Nola – Ediz. delle donne.
(2) Vulcano lavora col fuoco, vitale ma pericoloso, entro il ventre della montagna.
(3) Op. citata.
(4) Jean Piaget «Le jugement morale ehez l’enfant», Paris, Alcan 1932.
(5) Freud, «Il disagio della civiltà». Ed. Scienza moderna, Roma 1949.