danza
sulle orme di isadora
«perché il nostro corpo si rifiuta di compiere dei movimenti che dovrebbero risultare naturali?»
«danza moderna e liberazione femminile» è stato il tema di un incontro organizzato insieme con, le compagne della Maddalena lo scorso dicembre: un tema che inizialmente mi aveva preoccupato, perché nell’ambito della problematica femminista la danza risulta apparentemente come un aspetto marginale e certamente come uno dei meno drammatici. Tuttavia, essendo convinta che la danza moderna costituisce un contributo, forse parziale e inconsapevole, ma da non sottovalutare, all’emancipazione della donna, ho accettato di incontrarmi con le compagne per riassumere un po’ quelle che sono le tesi sostenute in un mio volume intitolato appunto «La danza moderna», pubblicato (il che presuppone la realistica presa in considerazione di una buona diffusione) da Longanesi.
All’incontro, che è stato di carattere assolutamente informale, hanno partecipato numerose donne, alcune che praticano questo genere di danza, altre che la insegnano, altre ancora che non ne sanno nulla, ma incuriosite, come molte femministe oggi, dalla tematica della riappropriazione del corpo.
I gruppi vari di yoga, mimo, espressività corporea sono all’ordine del giorno, ma di danza se ne sa poco e, soprattutto, se ne fa pochissima: culturalmente abituate a identificarla con il genere aristocratico-borghese del balletto classico, e dunque a darle corpo nella «sublime» immagine della silfide ballerina che volteggia sulle punte con l’evanescenza di un angelo, abbiamo sempre visto nella danza qualcosa d’inaccessibile, privilegio di fanciulli-ne di buona famiglia educate a muoversi con grazia, oppure professione destinata a quelle poche elette dal corpo perfetto che adempiono la loro «missione» attraverso stenuanti allenamenti e sacrifici continui.
É quanto ho sempre pensato anch’io, finché non ho scoperto la danza moderna. Adolescente goffa e con troppi chili in più/cercavo me stessa nel mio corpo senza riuscire a trovarmi. Il balletto classico mi piaceva, ma allo stesso tempo detestavo tutto il romanticismo deteriore implicito in questo genere, e assistevo agli spettacoli di balletto con una specie di amore-odio per quelle donne lunari e senza tempo che mi svolazzavano davanti: forme senza sostanza, modelli inaccessibili da contemplare con il distacco di chi non può. Poi, qualche anno fa, ha cominciato a muoversi qualcosa: quando mi sono resa conto che la mia riscoperta della danza in forme nuove era avvenuta di pari passo con la mia scoperta del femminismo, ho voluto approfondirne il nesso a prescindere dalla mia esperienza personale. E risalendo la breve storia della danza moderna mi sono convinta del fatto che essa è nata proprio come fenomeno femminista, anche se non sempre consapevole. Il libro che ho scritto è venuto fuori da questa ricerca storica e personale, ed è di questo duplice itinerario che ho cercato di parlare alle compagne della Maddalena, nel tentativo di suscitare un dibattito a partire dalla mia esperienza.
Se ho voluto considerare le espressioni di danza nate nel ‘900 come un contributo all’emancipazione della donna, è in quanto mi sono resa conto che, a partire da Isadora Duncan, la danza rappresenta innanzitutto una liberazione da un codice maschile. Fin dalla, sua nascita infatti la danza accademica, vale a dire il balletto classico, si configura come un fenomeno estetico saldamente gestito dagli uomini e strumentale alla loro considerazione della femminilità. I coreografi e i maestri di danza, tutti di sesso maschile, proiettano sui palcoscenici europei l’immagine della donna-silfide, e impostano il suo corpo secondo un modello astratto e spiritualizzato, cioè valorizzando quasi esclusivamente le gambe, strumento di elevazione dal terreno. Sono uomini coloro che disegnano a tavolino, in modo -simmetrico e razionale, i movimenti da eseguire nello spazio; sono questi coreografi a sclerotizzare la funzione del danzatore maschio nel ruolo di sollevatore della ballerina, di terza gamba di lei, di contemplatore inginocchiato ai suoi piedi; sono questi maestri di danza a decidere che il «sublime artificio» delle punte va riservato alle donne, benché non esista nessuna ragione anatomica perché non possano venir adottate anche dagli uomini.
La donna è dunque lo strumento da trasfigurare nel simbolo di una femminilità senza corpo, la donna-angelo, vergine e madonna, proiezione ideale di un mito caro ad una civiltà culturalmente impregnata di cristianesimo spiritualistico. Questa falsa immagine, così lontana dalla cruda realtà sociale della donna, viene riproposta dai coreografi europei lungo tutto il corso storico del balletto classico: «fioriscono» i temi favolistici e banali, vengono costruite artificiose evasioni dalla realtà, mondi incantati animati da figure di donne che sono cigni purissimi, principesse addormentate, Quando la danza si arricchisce di elementi sensuali si trasforma immediatamente in volgare esibizione d’avanspettacolo: la ballerina in tal caso è solo uno strumento funzionale all’eccitazione visiva dello spettatore. In questa duplice immagine della danzatrice si riflettono chiaramente quelle due opposte concezioni della femminilità che lungo i secoli una cultura gestita dagli uomini ha creato a proprio uso e consumo: moglie fedele e madre devota da una parte, strumento di piacere dall’altra.
Con la danza moderna viene proclamata l’eresia: ansiose di riaffermare il proprio diritto alla libertà espressiva, danzatrici come Isadora Duncan, Martha Graham, Doris Humphrey e Mary Wigman danno vita a una ricerca personale, che si sviluppa autonomamente rispetto ai canoni estetici codificati dal balletto. Sperimentano su se stesse le possibilità del proprio corpo, recuperano il rapporto diretto col terreno spogliando i piedi dalle «scarpette», spostano il perno dei movimenti dalle gambe al centro del corpo. Le civiltà non occidentali, orientali e primitive, offrono spunti nuovi da sviluppare: la respirazione, primo moto vitale, viene valorizzata, e tutte le parti del corpo vengono usate in maniera più espressiva. Il gonnellino leggero, che nella ballerina classica ha sempre coperto con pudicizia la «pericolosa» zona del bacino, viene rapidamente eliminato. E dopo che Isadora Duncan, con grande scandalo dell’Europa reazionaria, ha danzato nella sua tunica rossa per festeggiare la vittoria dei bolscevichi, Martha Graham si è applicata senza timore allo studio della psicanalisi: sessualità, emozioni, pulsioni -aggressive si manifestano nelle sue danze espressive. Le donne diventano coreografe di se stesse, e le favole d’evasione fanno posto all’impatto diretto con la realtà umana psicologica e sociale. A mio parere tutto ciò ha un indubbio significato femminista, anche se il mio punto di vista può dar luogo a varie obiezioni. Alcune di esse sono venute fuori durante l’incontro alla Maddalena, al quale continuo a fare riferimento perché si è trattato di un punto di partenza per un confronto reale con le compagne su questo problema, un confronto che io spero possa svilupparsi ulteriormente.
Si può obiettare, come è stato fatto, che quel genere di danza definisce la donna secondo un tipo di aggressività prettamente maschile, dimensionandola in una virilità che non ha niente a che fare col femminismo. O ancora si può obiettare che con tanti recuperi, natura, culture primitive, nuova sessualità, si finisce per produrre ideologismi evasivi. A mio parere tali obiezioni sono valide solo se non fanno di un rischio una realtà assoluta: varrebbe la pena innanzitutto di capire perché sono state delle donne che hanno iniziato questo tipo di ricerca sul corpo, vale la pena di esaminarne i risultati, di sperimentarli su tutte noi. Si tratta di una possibilità di presa di coscienza aperta a ogni donna, a bambini e adulti, normali e «anormali». La danza che ha fatto il suo ingresso nelle scuole e negli ospedali psichiatrici, per quel poco che le è stato permesso, ha testimoniato che ogni proiezione ideologica è soggettiva, la compie soltanto chi ne ha bisogno. Ho avuto la fortuna di assistere a risultati entusiasmanti nell’applicazione della danza sperimentale alla cura dei sordomuti e degli spastici: nessuna fuga dalla realtà dunque. E se noi donne ci allenassimo all’uso accurato delle tecniche respiratorie decifrate dalle avanguardie femminili della danza, forse arriveremmo al parto con un’autocoscienza diversa, finora sconosciuta a noi tutte. Per non parlare della gestione del proprio corpo come contributo alla comunicazione interpersonale e alla risoluzione di inibizioni e conflitti, come modo per liberarsi una volta per tutte da quella gestualità «sottomessa» tipicamente femminile che ci è stata inculcata fin dalla prima infanzia. Perché tante donne alla loro prima lezione di danza moderna rifiutano di appoggiare le natiche per terra, di muoverle, contrarle, «sentirle»? Perché il nostro corpo si rifiuta di compiere dei movimenti che dovrebbero risultare naturali? E perché in Italia la cultura ufficiale persiste aneli ‘opporre il suo rifiuto alle forme nuove di danza incrementando solo l’insegnamento e gli spettacoli di balletto classico?
Questi sono alcuni degli interrogativi emersi durante il dibattito alla Maddalena. Non penso che sarebbe inutile estendere il dialogo su questi temi a tutte le compagne femministe.