sorellanza

l’araba fenice

lavorare insieme, fare politica in modo nuovo, stare fra donne. Sembrava così facile all’inizio…

marzo 1978

la «sorellanza» è stata una delle più dirompenti scoperte del femminismo: ha cambiato la nostra vita, il modo quotidiano di parlare, mangiare, andare al cinema, arrabbiarsi. Ha trasformato la nostra maniera di vivere l’essere donna e noi stesse, ci ha fatto sentire forti, consapevoli, soggetti politici in grado di pesare, insieme, sulla realtà. Ma tutte noi che viviamo o abbiamo vissuto nel movimento sappiamo che esiste anche un rovescio della medaglia, penoso da ammettere perché spezza un’illusione e ci riempie di amarezza, ma che è tempo di analizzare: il nostro «star male» con le donne e tra donne. Perché le incomprensioni, le aggressività, le angosce, il non poter comunicare, la paura di intervenire, le sensazioni soffocanti che ci assalgono durante le assemblee, le riunioni, persino i piccoli gruppi?
È forse — questo «star male» — un dato strutturale del movimento, insito nella pratica stessa che stiamo sperimentando? È arrivato il momento di indagare questi aspetti negativi del nostro stare insieme, di tirare fuori gli scheletri dall’armadio, anche se questo può avere il sapore della provocazione. Abbiamo sempre sostenuto, nel movimento, la necessità di rispettare le nostre differenti storie, le nostre diversità. Ci troviamo invece, constantemente, a fare i conti con un meccanismo di ricerca della omogeneità a tutti i costi. Questa tensione verso l’omogeneità, caratterizzante di tutti i gruppi, rischia di dar luogo a un conformismo rassicurante in cui anche le contraddizioni, proprio perché vissute in modo omogeneo, diventano strumento di reciproca protezione e rassicurazione. Da questo spesso deriva una incapacità reale di contatto e comunicazione con le altre donne non omogenee, vissute come «altro da sé», sottratte alla elaborazione particolare e specifica del gruppo.

il complesso della congiura
Una seconda conseguenza è la condanna, esplicita o indiretta, delle diverse, sentite come minaccia al nido collettivo che ci si è create, come nemico. Questo determina nelle singole donne un meccanismo di autocensura per poter essere delle compagne carismatiche (più brave, più belle, più «femministe»), per non deviare dal linguaggio e dal codice di comportamento dominante. Questa esasperata ricerca di omogeneità comporta spesso un intervento moralistico sui contenuti e sulle azioni delle altre o di gruppi: se un gesto politico non è immediatamente totalizzante nel contenuto e non assimilabile a tutta l’ideologia del movimento, se è quindi parziale, viene rifiutato e condannato. Si presuppone in partenza la malafede di chi agisce, il «bieco tentativo di strumentalizzazione del movimento”: affiora il complesso della congiura, per cui non si pensa mai che un certo comportamento corrisponda ad una elaborazione diversa, ma si dà per scontato che derivi da malafede o da «gracilità morale». Quando ci si deve vedere per chiarire, spesso e volentieri si interrompono i contatti: questo dimostra una paura di una reale dialettizzazione sul contenuto, il desiderio di arroccarsi su posizioni sicure-rassicuranti. Il prezzo per mantenere questo «purismo assoluto» è l’immobilismo: meglio non far nulla che correre il rischio di essere attaccate per quel che si fa. In questo immobilismo esiste certamente un «vizio storico» rintracciabile nella condizione femminile, passiva e passivizzante; ma non possiamo negarci che questa estraneità all’azione, attualizzata al femminismo, venga esasperata dall’atteggiamento minoritario interno ai gruppi.

la riuscita sociale
Si tratta di meccanismi tipici della storia della nuova sinistra, adattati al femminismo; il vecchio vezzo del «io sono più marxista di te» diventa «io sono più femminista di te» e quindi «tu non sei abbastanza femminista». Atteggiamento che è il più antitetico possibile al femminismo, nato proprio per dare ad ogni donna la coscienza del valore della sua storia e la possibilità di liberarsi al di fuori di schemi fissi, di modelli proposti da più o meno improbabili accademie del femminismo. Questo immobilismo, figlio, come abbiamo detto, del minoritarismo interno ai gruppi e della diffidenza verso l’azione parziale, vissuta come «attentato» alla purezza politica assoluta, è una delle piaghe storiche del movimento.
Nell’aggressività che si scatena tra noi rientrano senza dubbio elementi che già abbiamo analizzato; il nostro secolare masochismo, l’abitudine a rivolgere la aggressività contro noi stesse e le altre, specchio del nostro io, il fatto che il rapporto con il collettivo riflette quello con la propria madre e oscilla quindi da una totale accettazione affettiva alla negazione della dipendenza, dal coinvolgimento al rifiuto. Ma ci sono anche altri fattori che non abbiamo mai discusso a fondo. Ad esempio l’istinto di morte nei confronti del riuscire: se una persona, un collettivo «riesce», fa qualcosa di positivo, se questo ha un’eco, ecco che si profila in lontananza il fantasma del potere e scattano i meccanismi di esorcizzazione: la caccia alle streghe è anche tra noi. La giusta condanna della presa di potere diventa indiscriminata repressione di ogni idea, azione, pensiero che non abbia il consenso del gruppo: l’eretica viene bollata, dispersa, bandita. L’aggressione tra donne è resa più lacerante dall’attuale momento di scarsa incisività politica: la lotta di trincea logora, determina chiusure, colpevolizzazioni reciproche. E pesa anche la carenza di approfondimento culturale e politico: viviamo ormai di rendita sull’elaborazione culturale di anni fa, la intolleranza diventa copertura della difficoltà di analisi.
È la tentazione di tutte le teorie, quella di trasformarsi in dogma, di ridurre la complessità della vita entro rigide dicotomie: l’intolleranza è un pericoloso segnale del fatto che rischiamo anche noi di cadere nella vecchia trappola, tutta maschile, del dogma, di rimanere prigioniere nel modello che ci siamo costruite.
Per impedire che questo avvenga non possiamo usare altro strumento che la coscienza critica, perché l’intolleranza nasce dalla abdicazione della coscienza: discutiamone insieme, facciamo i conti sino in fondo con il rischio di degradazione dei nostri strumenti politici, con la necessità di costruirne di nuovi per continuare ad esistere. Respingiamo lo oblio dell’esterno (cattivo e basta) e la voglia di rifugiarsi dentro al nido collettivo che sembra caldo, ma che alla lunga porta al torpore intellettuale e affettivo. Rivendichiamo il valore della trasgressione delle regole che noi stesse ci siamo date.