consultori: val la pena di partecipare
femminismo e istituzioni: resoconto di una esperienza di lavoro con la Regione Lazio per la programmazione e l’attuazione di un corso per il personale addetto ai consultori pubblici.
Sulla questione dei consultori si sono riscontrate finora nel movimento almeno due posizioni. La travagliata storia dei consultori autogestiti ha insegnato che un consultorio deve essere innanzitutto un luogo dove le donne si incontrano e si confrontano: a) per una maturazione comune sui problemi della maternità, della contraccezione, dell’aborto, del controllo del proprio corpo e della sessualità e b) per organizzare momenti di lotta. Per poter divenire un reale punto di riferimento politico è indispensabile che il personale tecnico preposto al consultorio sia controllato dall’assemblea delle donne, e soprattutto occorre rompere il tradizionale rapporto passivo fra donna e medico, donna e medicina. Attraverso varie forme di self-help si è visto che è possibile per le donne riappropriarsi di quelle conoscenze che sono rimaste a lungo monopolio maschile.
Partendo da queste esperienze alcune compagne ritengono che sia già estremamente difficile realizzare queste aspirazioni in un consultorio femminista completamente autogestito e che perciò occorre dare tutte le proprie energie allo sviluppo di questi consultori, dato che quelli pubblici non potranno mai divenire «luoghi di aggregazione politica delle donne e spazi dove si porti avanti una prassi politica e una ricerca indipendente sulla salute della donna». Altre, pur riconoscendo l’importanza di queste esperienze alternative, ritengono che occorra anche lottare per l’attuazione e lo sviluppo dei consultori pubblici, cercando di usare quegli spazi che la legge -405 concede, in modo da introdurre «elementi di femminismo» nella programmazione e gestione dei consultori pubblici, dato che solo questi possono effettivamente raggiungere larghe masse di donne. Riconoscendoci in quest’ultima posizione, alcune femministe romane hanno accettato di partecipare alla programmazione e all’attuazione del, primo corso svolto in Italia da un ente regionale per la riqualifica del personale preposto ai consultori. Quanto segue è il resoconto di questa esperienza.
cronistoria di un anno burrascoso
Nell’aprile del 1976, la regione Lazio fu la prima a passare una legge regionale sui consultori. La legge ricalcava quella nazionale appesantendo però il consultorio con compiti sociosanitari più pertinenti forse alle Unità dei servizi sociosanitari. Inoltre la legge del Lazio riduceva il personale preposto a tempo pieno a due sole figure: assistente sociale e ostetrica o assistente sanitaria. Ginecologi, psicologi, pediatri ed altri esperti erano previsti solo come consulenti a tempo parziale. La legge stabiliva inoltre che entro tre mesi la regione avrebbe dovuto istituire dei corsi di formazione e riqualificazione per il personale da adibire ai consultori. Veniva anche specificato che queste attività di formazione dovevano avere un carattere pluri-disciplinare e interdisciplinare ed essere aperte anche agli utenti. Era pure precisato che: «nell’organizzare le attività indicate nel presente articolo i competenti organi sono tenuti a consultare le organizzazioni femminili».
verso una prima bozza di programma
Non è stato per niente facile tuttavia realizzare concretamente questa «consultazione delle organizzazioni femminili» e soprattutto fare in modo che fosse reso possibile partecipare alle riunioni iniziali — quando le decisioni importanti erano ancora tutte da prendere—.
La giunta del Lazio è di sinistra, dunque «aperta e democratica», e l’assessorato alla Sanità è retto da un comunista favorevole alla più ampia partecipazione, tuttavia, almeno nei primi mesi primaverili si è avuta l’impressione che il partito comunista volesse gestirsi autonomamente i momenti iniziali della programmazione dei corsi, per aprirsi poi ad un confronto a cose già mezze fatte. All’interno dello stesso PCI però c’erano forze, in prevalenza femminili, che si battevano per allargare subito la partecipazione a tutte le altre forze politiche e sociali, incluse noi femministe che premevamo per un immediato coinvolgimento. Infine quando il coordinamento, dopo un periodo di conflitti interni ed esterni al PCI, venne assegnato ad una donna, aperta anche ai contributi delle femministe, fu più facile stabilire dei contatti diretti e riuscire a sapere ad esempio che la Giunta regionale cercava dei nominativi di esperti, che avrebbero costituito una commissione per la programmazione dei corsi.
In questo primo periodo la nostra attività tendeva soprattutto a ottenere notizie, a cercare di sapere cosa
stava succedendo, chi era responsabile di che cosa, chi si doveva mobilitare per fare che cosa, ecc.. Saputo ad esempio che si cercavano «e-sperti», una sera alla Casa delle Donne si è discusso, se si voleva partecipare all’organizzazione dei corsi per i consultori, e una volta deciso in senso affermativo si è discusso su quali femministe potevano avere le qualifiche necessarie, riuscendo a proporre sei o sette nomi di donne che si erano occupate anche «professionalmente» del problema dei consultori. Si discusse anche quella sera, anche se troppo brevemente, perché si era ormai alla fine d’una riunione fiume, sui punti che si doveva cercare d’introdurre nel corso, la questione dell’aborto nei consultori, il metodo di lavoro di piccolo gruppo, anticoncezionali dalla parte della donna, riappropriazione della sessualità, l’esperienza dei consultori femministi, ecc.
Delle persone nominate alla Casa delle Donne, quasi tutte riuscirono poi a partecipare effettivamente o alla programmazione o all’attuazione dei corsi. Non tutte poterono entrare a far parte della commissione iniziale, anzi solo due, (Donata e Ulla), perché la Giunta scelse a settembre un primo gruppo di esperti, tra i vari nominativi proposti, anche in base ad un criterio politico di lottizzazione imperfetta, che replicava lo schieramento di forze esistenti all’interno del consiglio regionale. La commissione risultò pertanto composta da una maggioranza di uomini e minoranza di donne, da una maggioranza di esperti di sinistra (PCI – PSI), con alcuni DC repubblicani e due femministe ufficiose, tutte due ufficialmente nominate, come del resto tutti gli altri esperti per «pertinenza tecnica».
Il primo giorno che ci siamo riuniti alla Regione, ho pensato che non saremmo riuscite a far passare nessun contenuto «femminista», data l’estrema varietà di opinioni tecnico-politiche rappresentate nella commissione, e l’esiguo schieramento «femminista». In realtà due fattori sono intervenuti a nostro favore. Primo, diversi degli uomini nominati, non si sono mai fatti vedere, o si sono visti solo raramente — anche perché tutto il lavoro era gratuito e forse l’argomento non li toccava — per cui il lavoro effettivo è stato svolto da una minoranza in cui le donne predominavano. In questo sottogruppo è stato più facile esercitare un’influenza
derivante anche dalla maggiore effettiva esperienza che noi femministe abbiamo con questi problemi. Secondo, le funzionarle della Regione, si sono rivelate molto vicine alle tematiche femministe e hanno sgobbato giorno e notte per superare la miriade di ostacoli tecnico-politici e burocratici che continuamente facevano ritardare il lavoro.
Attraverso la latitanza di alcuni membri, e l’appoggio delle donne della Regione è stato più facile ottenere che fra gli esperti aggiuntivi, ci fossero diverse esperte femministe, così ad esempio che l’importantissimo nucleo dedicato alla contraccezione e all’aborto, uno fra i più politicamente delicati, forse affidato quasi completamente a compagne femministe (Ulla, Lucia, ‘Simonetta assistite da un medico compagno). È stato anche i relativamente semplice far adottare il metodo di lavoro di piccolo gruppo, più congeniale alla timidezza tradizionale delle donne che il lavoro in grandi assemblee; e lottare in questo seguite da tutti gli esperti, perché si ponesse rimedio ad una assurda discriminazione che voleva che, interpretando la legge, ai corsi accedessero solo le assistenti sociali, sanitarie e ostetriche (personale diplomato di sesso femminile), mentre pediatri, psicologi e medici (personale laureato di sesso prevalentemente maschile, ad eccezione degli psicologi) dovevano fare un corso successivamente in netto contrasto con gli altri articoli della legge stessa. Ci siamo però anche scontrate con i limiti giuridici, economici, burocratici che hanno reso difficilissimo impostare un programma che avesse una reale possibilità di essere realizzato. Ad esempio una volta riconsciuta l’importanza di fare un lavoro di promozione, presa di contatto e ricerca con il territorio d’appartenenza del consultorio, si è capito che, per ritardi dei Comuni, della Provincia, per il mancato trasferimento del personale ex Onmi ad esempio, la maggior parte dei partecipanti al corso probabilmente ci sarebbe arrivato, senza sapere dove sarebbe andato a lavorare, e dunque non avrebbe potuto condurre questo tipo di ricerca, Inoltre alcune di noi volevano concentrare tutto il corso iniziale su alcuni argomenti prioritari, come la contraccezione, la sessualità e l’aborto, ma appellandosi alla legge, molti membri hanno sostenuto che bisognava parlare di tutti i compiti principali affidati al consultorio, cosicché
si è arrivati ad una bozza di programma (vedi riquadro) che aveva un taglio fin troppo sanitario, affrontava troppi argomenti e dava spazio a tutta una serie di nuclei d’informazione pediatrico-sanitaria, che sono pertinenti a diversi servizi sociosanitari. Comunque nel giro di sei settimane, attraverso il lavoro massacrante d’un sottogruppo e un buon impegno settimanale della maggioranza della commissione si è arrivati a ottobre a proporre una bozza di programma.
i mesi dell’attesa
Nei mesi di ottobre, novembre e dicembre sembrava sempre che il corso dovesse cominciare da un momento all’altro, -e poi invece sorgevano sempre nuovi ostacoli. Da una parte, — e questo costituisce l’aspetto positivo del ritardo — la bozza di programma veniva continuamente ridiscussa e modificata attraverso incontri, dibattiti, assemblee, riunioni, preconvegni e precorsi organizzati da gruppi femminili e femministe, dalla Regione, dai comuni, dagli operatori da riqualificare e dal sindacato.
Dall’altra non si riusciva a sciogliere i nodi burocratici, e politici che impedivano l’inizio effettivo dei corsi. In questo stesso numero Lucia elenca alcuni di questi conflitti di competenza tra regione e comuni e provincia, e tutta una serie di ostacoli buro-politici, ai quali vanno aggiunti però le meschine lotte di potere fra partiti, partiti e sindacati, fra enti pubblici, i ritardi, le indifferenze, le lungaggini volute ecc. In questi mesi praticamente solo la cocciutaggine di alcune impiegate della regione, che avevano praticamente sposato la causa dell’apertura dei corsi costi quel che costi ha impedito che tutto venisse ingoiato nell’immenso marasma della moltitudine dei problemi sanitari, che facevano passare in secondo piano la questione dell’apertura dei consultori pubblici. E qui bisogna essere ben chiare e fare anche l’autocritica. I consultori nella mente dell’assessore e non solo nella sua, erano di fatto un problema meno grave, meno urgente degli ospedali senza fondi, delle crisi ricorrenti del sistema sanitario ecc. In parte anche perché i problemi che riguardano prevalentemente noi donne, dunque i nostri servizi, sono sempre secondari in parte anche perché è venuta a mancare una mobilitazione massiccia su questa questione, per ragioni che andrebbero esplorate più a fondo, Forse una buona parte delle compagne non sente i consultori pubblici come «nostri», forse siamo state distratte da altri problemi, forse ancora anche in questo campo, ci troviamo di fronte ad una crescita del movimento, e dunque a ritardi, lacune e balzi in avanti discontinui. Oltre a questa relativa «assenza di pressione», gli ostacoli burocratici (ad esempio la difficoltà di trovare un luogo in cui tenere un precorso per i coordinatori, anche perché in questo grigio periodo di disoccupazione anche un lavoro precario per 18 giorni diventa un motivo di competizione), continuamente mostravano come sia lento, faticoso «costruire qualcosa». Finalmente a febbraio si è rischiato di cominciare il corso.
il corso
Ho usato il verbo rischiare, perché si è osato iniziare senza sapere di preciso il numero dei partecipanti,specie di medici e psicologi ammessi in un secondo momento, e infatti i partecipanti, anzi le partecipanti, (quasi 180 donne su 200) hanno continuato a iscriversi fino alla terza settimana, riproponendo enormi problemi di formazione e riformazione dei piccoli gruppi di lavoro. Non solo, ma nonostante già da ottobre la regione avesse sollecitato comuni ed enti competenti a decidere l’ubicazione dei consultori e a scegliere il personale, in modo che le frequentanti al corso sapessero dove andavano a lavorare, a febbraio quando il corso è iniziato solo una esigua minoranza di fortunati sapeva effettivamente dove si sarebbe svolto il proprio lavoro. (Le altre erano confuse, giustamente furibonde, con sindacato, enti e regione. Infine non si sapeva ancora se il commissario di governo avrebbe approvato il corso e approvato lo stanziamento di fondi per le spese correnti. Nonostante queste premesse negative il corso è andato quasi bene, a giudizio di docenti, coordinatori e soprattutto delle partecipanti come appare dalle loro relazioni conclusive. Il problema dei consultori tocca argomenti così vitali, così importanti per noi tutte, che il semplice permettere a gruppi di operatori-donne nella maggioranza, di discuterne insieme ha avuto un effetto positivo, nonostante tutte le carenze. Il programma è stato svolto solo in parte, e trasformato secondo le esigenze e le ricorrenti crisi. Ad esempio il nucleo dedicato alla ricerca si è svolto solo in parte, da un lato perché la maggior parte non sapeva neanche dove avrebbe dovuto fare la ricerca sul territorio, dal’altro perché per problemi sindacali una giornata è stata tagliata allo svolgimento del programma. Per lo stesso motivo di mancanza di tempo, e di spazio psico-politico forse dato l’incertezza sulla legge sempre in approvazione al parlamento — è saltato anche un discorso approfondito sull’aborto, affrontato solo nei piccoli gruppi e pochissimo nell’assemblea generale. La stessa vastità del programma ha impedito di affrontare bene gli argomenti, e c’è stato un senso generale di troppo «in troppo poco tempo», e una corale richiesta di altri corsi monotematici e decentrati nelle varie provincie. A livello di piccolo gruppo (momenti giudicati tra i più positivi dalla quasi totalità) si è parlato mólto di contraccezione e sessualità, confermando la giustezza dell’impostazione del movimento femminista che vede questi due temi come centrali per i consultori (la correttezza di quest’ottica riceve conferma anche, dai primi risultati ottenuti da
2000 questionari, riempiti da donne di diversa età, provenienza geografica, classe ecc, che indicano che le donne aspettano con ansia (e scetticismo sulla loro effettiva realizzazione) i consultori e vorrebbero che si occupassero maggiormente di problemi di contraccezione, aborto e sessualità).
un primo bilancio
Ha avuto un senso partecipare a questi corsi della regione? Si è riuscite ad introdurre degli «elementi di femminismo» nei corsi? Dai resoconti dei piccoli gruppi emerge che per molte partecipanti il corso è servito a riflettere sul proprio ruolo e al tempo stesso sui propri problemi come operatori «donna». In questo senso si è almeno raggiunta l’aspirazione femminista a demitizzare il ruolo dell’esperto; a superare la scissione fra operatore e cliente. Soprattutto si è riusciti a rompere in alcuni gruppi il rapporto tradizionale medico (uomo dominante); assistente sanitario o ostetrica (donna-subalterna). Si è anche riuscite a dare un quadro sui contraccettivi decisamente dalla parte della donna. Meno si è invece raggiunto per quanto
riguarda la concezione del consultorio come momento di aggregazione politica delle donne. Trincerandosi dietro la legge dietro lo specifico professionale, alcune partecipianti hanno mostrato di essere ancora attaccate al vecchio modello di servizio ambulatoriale, rassicurante anche se riconosciuto come carente. Credo che su questo punto, cioè sul problema della gestione sociale dei consultori — delle modalità e dei contenuti della partecipazione delle donne alla programmazione e controllo delle attività dei consultori — ci sia una grossa battaglia da fare. Occorre tener presente anche la maggior parte degli operatori di questo nuovo servizio tendono a sentirsi incerti e insicuri e perciò da un lato desiderano, ma dall’altra risentono e temono un controllo esterno.
Per quanto riguarda il problema dell’aborto nei consultori da questo corso non è emerso molto: il problema è stato largamente evaso. Tuttavia la mia impressione è anche su questo punto ci sarà molto da lottare, dato che almeno una grossa minoranza delle partecipanti sembravano avere serie difficoltà psico-etiche e politiche su questo problema.