impariamo la tolleranza
Con molta tristezza abbiamo appreso di una causa intentata da Barbara, una delle leaders della rivolta delle prostitute di Lione, alle Editions des Femmes, di un filmato che gira nel movimento francese, e fuori dal movimento francese, contro queste stesse compagne e della controdenuncia per diffamazione.
non ci siamo sentite di solidarizzare con le une o con le altre. Siamo amareggiate e deluse che le compagne francesi abbiano scelto di adire a tribunali maschili per risolvere un contrasto nato all’interno del movimento. Speriamo che resesi conto dell’errore (anche in Italia l’episodio è stato raccolto con la solita solerzia e buonafede dal «pennivendolo» di turno, Ballardin, il cui articolo è stato pubblicato in terza pagina del Corriere) prendano lo spunto da questo episodio per un dibattito e una chiarificazione. Dovrebbe servire anche a noi come punto di partenza per una riflessione sui nostri rapporti all’interno del movimento. Al convegno di Parigi, quando si è cercato di dar vita a un coordinamento internazionale per la violenza e una di noi ha offerto l’indirizzo e il telefono di Effe come punto di riferimento, ci siamo sentite dire in piena assemblea da parte di una compagna italiana che il movimento non si riconosce in Effe. Noi non pretendiamo che il movimento in senso lato o un qualsiasi gruppo si riconoscano nel nostro giornale. Di proposito abbiamo voluto che Effe non fosse il giornale di questo o quel gruppo femminista, ma un veicolo di informazione per lo esterno su quanto viene elaborato e diffuso all’interno del movimento. E se oggi 27.000 donne lo acquistano pensiamo di esserci in parte riuscite. Ma non vogliamo polemizzare su ciò. Vorremmo un attimo riflettere sul movimento. Fin dall’inizio il femminismo si era caratterizzato come un movimento sui generis, la cui vitalità nasceva dalla proliferazione spontanea di piccoli gruppi ciascuno derivante dalla esperienza di donne che si univano per la soluzione di quei problemi che esse maggiormente sentivano e vivevano quotidianamente. L’energia del movimento nasce dalla base non da un vertice. Ed in questo sta la sua forza. Non abbiamo singoli obiettivi. Non abbiamo singole risposte all’ineguaglianza e alla ruolizzazione. L’attacco avviene su una molteplicità di fronti e non è quindi il caso di essere deluse per il fallimento di una riforma. Ogni gruppo è libero di attaccare quelle manifestazioni di sessismo che lo riguardano più da vicino. Se poi molti di questi obiettivi sono comuni a più gruppi e se siamo riuscite a stabilire efficienti canali di comunicazione che ci permettono di coordinare in parte le iniziative, tanto meglio. Ma la base del movimento è e rimane il piccolo gruppo di presa di coscienza. E quando un piccolo gruppo si scioglie, le donne che ne hanno fatto parte non saranno più le stesse, le persone con cui sono entrate in contatto non saranno più le stesse, i loro figli saranno educati in modo diverso. Importante è che si accetti il fatto che siamo diverse, che diverse sono le nostre storie e che diverso può quindi essere il modo in cui decidiamo di operare verso l’esterno. Tre anni fa su Effe avevamo scritto che la presa di coscienza non è un fatto temporaneo, non è un episodio destinato ad essere concluso e superato col tempo. Ne siamo più che mai convinte. All’interno del nostro gruppo molte hanno avvertito l’esigenza di partecipare di nuovo o per la prima volta a un gruppo di presa di coscienza. Non ne è nato uno all’interno del giornale perché vogliamo che questo rimanga gruppo di studio e di azione in cui tutte noi siamo in posizione dialettica affinché il giornale non abbia un’unica voce. Comunque, nell’affrontare i temi da trattare cerchiamo sempre di partire da una presa di coscienza dell’argomento specifico per non rimanere astratte e per non riproporre lo stesso tipo di cultura maschile che rifiutiamo. Rifiutiamo inoltre di essere citate dà sociologi che si fanno i loro libri sul «privato come politica». Noi stiamo vivendo il nostro privato come politica e non ci interessa essere considerate femministe storiche. Rivendichiamo la presa di coscienza come base di ogni nostra azione. Soltanto quando si è acquisita una forza maggiore nei riguardi del mondo, una maggior forza psicologica nei confronti degli uomini con cui veniamo in contatto, una maggiore sicurezza in noi stesse, possiamo decidere di operare all’esterno, e possiamo anche decidere di operare all’interno delle istituzioni. Solo in questo caso e con queste premesse non ne diventeremo prigioniere. Se da un lato è essenziale che molte di noi rimangano completamente autonome, dall’altro dobbiamo essere tolleranti nei confronti di quelle compagne che decidono di impegnarsi all’interno delle strutture e non dimentichiamo che la solidarietà tra donne è, sulle questioni di fondo, molto più grande di quello che può dare la sola ideologia, perché più grande è la loro diversità ed estraneità al sistema e perché il sistema stesso si incarica di ricordarlo ogni giorno a tutte le donne, anche le più «riformiste». Mi riferisco naturalmente a femministe che decidono di entrare nelle Istituzioni e non a donne selezionate dal sistema.