violenza su violenza
«spogliata della tua maternità, spogliata di poterla vivere bene, come una cosa ricca di vita, di amore, di rivoluzione».
il fatto è questo; un medico del quartiere Tuscolano a Roma, minaccia e violenta una donna prima di farle l’aborto. Il collettivo si riunisce, discute, fa un volantino e lo diffonde nel quartiere, organizza una mostra, istituisce un vero processo popolare. Il movimento a Roma forma un collegio di avvocatesse, fa assemblee, discute e promuove una manifestazione. Sabato 19 febbraio, al corteo eravamo tante, circa 10.000, molto arrabbiate e molto unite. Essere unite spaventa ancora: alla fine della manifestazione, aggressione della polizia. «Mariti, giudici, dottori siete tutti stupratori”: così si apriva il corteo. Ci siamo riviste per dirci cosa avevano significato per noi tutti questi giorni di militanza femminista e per scrivere insieme un articolo. Queste sono le riflessioni di una di noi.
Come scrivere un articolo rispetto al fatto del dott. Glorino Pesce? Come scriverlo dopo venti giorni che ne parliamo in continuazione e siamo anche molto stanche? Risaliamo alle nostre sensazioni iniziali: credo che la cosa che ci ha colpito di più è stata la vicinanza fisica di questo studio medico, di quest’uomo che alcune di noi conoscevano personalmente; è stato terribile vedere in concreto che cos’è il discorso degli aborti clandestini, dei milioni fatti sulla pancia delle donne tutto materializzato in nome, cognome, indirizzo. A venti metri dal nostro collettivo, Non che avessimo mai pensato di «fare paura» o in qualche modo di «intimorire» qualcuno, ma questa cosa della vicinanza ci ha fatto molta impressione. Io ho avuto la sensazione incredibile di sentirmi persa in un paese sconosciuto; sai che esistono un sacco di cose contro di te, contro le donne, ma sempre rimani sconvolta quando vedi che questa repressione non è ideologica, né culturale, ma è materia, corpo oppresso, dolore fisico, sfruttamento. Uno sfruttamento che è un vero e proprio sciacallaggio sul tuo corpo di donna: nel ventre lievita una vita, ma è una cosa che non ti è concesso di godere, non sei padrona del tuo corpo, mai, e quindi anche nella maternità non sei tu che puoi decidere. Spogliata della tua maternità, spogliata di poterla vivere e vivere bene, come una cosa ricca di vita, di amore, di rivoluzione… (i maschi te la distruggono: è forse un potenziale pericoloso?!)… spogliata di tutto questo, adesso il problema è tutto tuo: cercati un medico, senti il dolore sopporta i ferri che entrano, sopporta anche che prima di penetrarti i ferri ti penetri un uomo. Porco assassino’ medico ginecologo padre maniaco stupratore sadico nazista maschio. Ecco una società maschile, razzista nei confronti delle donne, permette che si arrivi anche a questi «eccessi». Lo stupro è solo la cosa più evidente, subiamo violenza quotidianamente. Incredibile come gli slogans svuotano di vita le parole: però proviamo un attimo a pensarci: le violenze verso di noi cominciano prima ancora di sgusciare fuori dal ventre della madre, con tutte le storie più o meno popolari sul sesso del nascituro (sana cultura operaia, genuine tradizioni popolari?) bene, le discriminazioni iniziano prima ancora del parto, avvelenano il nostro primo rapporto, quello con la madre, scorrono col cordone ombelicale, da lei a noi con dentro tutti i suoi problemi, le sue ansie, le angosce, di una impossibile vita di madre. Cominciano lì e poi uscendo nel mondo ritroviamo concentrate in noi tutte le oppressioni «pubbliche» di cui parlano tanto: Emigrazione, Colonizzazione, Confino, Monetizzazione della salute, Pazzia, Espropriazione totale; l’operaio alienato dall’oggetto da lui prodotto, noi alienate da noi stesse, con un corpo colonizzato (emigrate in terra straniera, confinate nelle riserve, nelle sacche-ghetto del privato, dei fotoromanzi, dei pianti delle donne innamorate) confinate dal loro separatismo, da tutti i tipi delle loro lotte settarie, anche dalla lotta di maschi per il comunismo eppure ancora di loro innamorate. Innamorate della loro esistenza perché deluse della nostra inesistenza, innamorate della loro vitalità perché deluse della nostra passività, innamorate della loro forza perché sfiduciate delle nostre capacità. Scompensate fisicamente e psicologicamente da tutti i loro valore, presi e assunti tali e quali nei nostri confronti. Li amiamo forse perché non possiamo fare diversamente? ma che amore è? oppure li amiamo perché ancora crediamo che — nonostante tutto — sia possibile fare l’amore e sia bello dopo quando ci fanno appoggiare la testa nell’incavo bellissimo tra il collo e le spalle. Confusione. Contraddizione. Non sappiamo poi quali sono i nostri desideri e quali sono invece i bisogni indotti da loro. In’ somma siamo innamorate di loro o del loro potere.