A.A.A. ahimè se il lavoro non c’è
L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, ma a me — personalmente — questo annuncio ha fatto sempre l’effetto di una di quelle formule ampollose un po’ vuote di senso sul tipodi «Re, per grazia di Dio e volontàdella nazione» (che in genere vuol dire«Popolo, beccatelo e sta zitto»), oppure: «…Giurate di dire la verità enient’altro che la verità. Dite: lo giuro», che io ho sempre tradotto irriverentemente con: «…pensaci beneprima di rifilarci una balla, e rifilacela credibile».
Fatto sta che, se a Napoli c’è chi si guadagna da vivere indossando per i primi giorni, al posto del legittimo proprietario dal piede delicato, le scarpe nuove che vanno un po’ strette, o chi
— rischiando la pelle oltre il limite disicurezza — si finge investito da unauto nell’attraversare la via, per poicampare con i soldi liquidatigli dall’assicurazione, anch’io — nel mio piccolo — ho la mia brava casistica dilavori «impossibili». Impossibili perché, pur essendo lavori che impegnanospesso anche oltre le otto ore giornaliere, non gli viene riconosciuta dignità di lavoro; impossibili perché nondanno nessun diritto ad usufruire diuna qualunque cassa mutua; impossibili perché al limite possono essere giudicati abusivi; impossibili perché lavorando in questo modo non si maturaalcun diritto a pensione; impossibiliperché essendo aleatori e di breve durata, richiedono un grande sforzo iniziale e poi, appena lo si supera e ci siinserisce nella routine, il periodo dilavoro ha termine; impossibili perchéspesso si accettano — per necessità —lavori che creano molte perplessità alivello ideologico.
Ma andiamo ad incominciare. C’è da dire subito che io sono comunque partita con il piede sbagliato. Come già sa chi ha avuto la pazienza di leggermi altre volte su Effe, mi sono sposata piuttosto giovane con uno straniero, perdendo così — automaticamente — la nazionalità italiana. Pur vivendo in Italia, in attesa di avere l’annullamento (allora non c’era altro e mi costò anche caro, dato che me lo dovetti pagare tutto io) non mi era possibile trovare il benché minimo impiego fisso perché — giustamente — l’eventuale datore di lavoro — società o imprenditore che fosse — era tenuto a dare la precedenza a personale italiano. Inutilmente nei colloqui preliminari con i vari «Capi» del personale, spiegavo le mie ragioni. Le mie professioni di italianità erano viste con sospetto, anche perché il tutto era complicato dal fatto che sul passaporto spagnolo — c’era scritto: nata a Pola (Iugoslavia), ed era inutile spiegare che ero nata lì per caso, che quando c’ero nata, Pola era in Italia, e che se c’ero nata era proprio perché il mio papà militare ci stava per ragioni, diremo così, patriottiche. Per di più, oltre ad essere considerata una specie di «apolide cittadina del mondo», anche il fatto di essere in «attesa» di un ipotetico annullamento, non migliorava di certo la situazione, non essendo — di per sé — uno stato giuridico. E allora: via libera alla fantasia! Il mio primo lavoro, fu — se così posso esprimermi — stagionale. Esordii infatti con i cartoncini natalizi. Avevo una amica, agente cinematografica, la quale, improvvisatasi anche mia agente riuscì a farmi avere molte ordinazioni «esclusive» da parte di attori e attrici. Si trattava più che altro di un lavoro di pazienza, infatti adoperavo varie tecniche, acquarello, collage, tempera ecc. ma era difficile al cinquantesimo pezzo di una serie tutta uguale, mantenere ancora il controllo dei propri nervi. «Passate le feste, gabbato lo santo» dice il proverbio, ma per fortuna con gennaio incominciarono ad arrivare i copioni da tradurre. Era il periodo in cui andavano molto le «coproduzioni» e devo dire che se le case cinematografiche avevano sempre una fretta bestiale ed ero costretta a restare per una settimana, giorno e notte, incollata alla sedia, per consegnare il lavoro puntualmente, le produzioni non mostravano lo stesso zelo, al momento di saldarmi il conto. Ma con il tempo e l’esperienza, misi a punto un metodo infallibile. Mi recavo negli uffici con un mio zio piuttosto alto e massiccio o con qualche amico ex giocatore di rugby che presentavo a voce molto alta come: «l’Avvocato X.Y.» In genere, venivo fatta passare subito in amministrazione, dove mi veniva staccato l’assegno. La vocazione all’artigianato me la scoprii per caso, copiando un servizio da bagno che era esposto ad un prezzo piuttosto salato in un negozio elegante del centro e che volevo regalare ad una amica. Il mio riuscì molto più bello e l’amica, tornata a Milano, mi procurò molte ordinazioni. Così per dieci anni feci l’artigiana senza potere, però — sempre per il fatto della nazionalità — iscrivermi alla cooperativa e usufruire di sconti — per lo meno ufficialmente, poi in via amichevole me li facevano lo stesso — presso i fornitori. Facevo tutto io. La mattina correvo in giro per la città a comprare il materiale, il pomeriggio lavoravo. Poi fotografavo il campionario e facevo il giro dei negozi e dei fornitori. Imparai subito che se non eri «presentata» da comuni amici, venivi trattata come «pezza da piedi». Per fortuna amici ne avevo molti e vendevo anche in Francia, negli Stati Uniti, Inghilterra, Spagna e non so più dove. I miei amici partivano con capaci valige piene dei miei oggetti da regalo: scatole in velluto, flaconi per conservare il thè, vassoi ricopiati da modelli antichi, spazzole impreziosite da pietre dure, cestini gettacarte, candele marmorizzate, portaombrelli in corda, bigiotteria, fiori di carta, ecc. Poi mi scrivevano che era stato venduto tutto e spesso andavo a ritirare la cifra sul posto, approfittandone per farmi un viaggetto. Ricordo con che emozione un anno ricevetti un’ordinazione per Natale, dalle Filippine. Una mia amica aveva sposato un addetto culturale inglese destinato a Manila e voleva i regali per il personale della Ambasciata. Un altr’anno, in pieno boom petrolifero, un negozio d’arte a Tripoli, in Libia, inaugurò l’apertura con una vendita di oggetti miei copiati da modelli antichi. Le scatole di vetro per la cultura dei bacilli che avevo trovato in uno scantinato dove si servivano tutti i laboratori dell’università e della città, erano diventati, foderati esternamente di broccato o velluto intagliato e con un centrino di pizzo sotto il vetro, dei portabiscotti come in effetti era il prezioso modello veneto del ‘700 che avevo in casa; i flaconi che avrebbero dovuto contenere i liquidi per gli esperimenti, opportunamente rivestiti di pizzo e nastri facevano una bellissima figura in qualunque vetrina. Arrivai anche al Quirinale. Una mia cliente mi ordinò un bellissimo barattolo per conservare il thè, e mi confidò che era un regalo «per zio Antonino». Seppi poi che il presidente Segni lo aveva apprezzato. Giustamente. Quello fu un mio periodo molto frivolo. Mi comprai una pelliccia, una borsa di coccodrillo e mi feci fare le mechès. Le mie mani erano però ormai irrimediabilmente rovinate dalle colle e dalle pinze con cui lavoravo i metalli. Ma i metalmeccanici premevano per il rinnovo del contratto. Questo mi mise in crisi. Tutto il materiale subì una maggiorazione che arrivò persino a triplicare i prezzi precedenti. Non riuscivo a fare le consegne perché gli scioperi rallentavano la produzione. Anche per i velluti, che erano alla base del mio lavoro e dei quali avevo un campionario di 42 colori e sfumature di colore, c’erano problemi. Mi ridussi a lavorare con undici colori ma così era difficile mantenere il livello che intendevo io. Chiusi bottega. Seguì un periodo un po’ confuso in cui — contemporaneamente — disegnavo collezioni di moda (ne ricordo ancora una in cui tutti gli abiti erano a pallini. In tutti i colori, le grandezze e gli accostamenti possibili. Ma sempre e solo pallini. Che palle! ma ebbe successo). Poi cercavo case per gli amici e le arredavo; con il risultato che, anche a distanza di anni, sono amici che vedo molto volentieri e nelle loro case mi trovo perfettamente a mio agio. Ma senza che io potessi sospettarlo, il destino teneva qualcosa in serbo per me. Incominciò per caso. Mi chiamarono in un ufficio cinematografico per sostituire per un periodo di sei mesi una signora che aspettava un bambino. Qui ebbi il colpo di fulmine che avrebbe potuto — ma non potè — cambiare la mia vita. Sul mio tavolo c’era un apparecchio. Aveva un suono strano, come quello di un grillo raffreddato, e tante lucette gialle, rosse e verdi che si accendevano, si spegnevano e cercavano ogni volta di comunicarmi qualcosa. Ma cosa? Era un centralino. Lo trovai stupendo. Di notte non dormivo: pensavo a lui. In ufficio, non mi rilassavo un momento. Stavo all’erta: poteva sempre suonare! Era una macchina. Per me, che fino ad allora ero andata, svagata, dietro alla mia fantasia, era qualcosa da rispettare e da temere. Devo dire che mi eccitava moltissimo. Preparavo foglietti sui quali mi appuntavo le varie combinazioni e i vari interni con il nome delle persone corrispondenti. Ero sempre pronta alla sua chiamata. Ma il mio amore non era corrisposto. Prima o poi le linee saltavano e non era facile capire il perché. Incominciò tosi il mio periodo (come Picasso e De Chirico ho avuto anch’io i miei «periodi») «sostitutivo». Venivo cioè chiamata nei vari uffici dove qualcuno aspettava bambini, si era rotto una gamba, aveva gli orecchioni, o —come mi capitò una volta — arbitrando una partita di calcio di infima serie, si era preso un calcio in bocca da un tifoso imbestialito e doveva portare per quaranta giorni uno strano apparecchio di fili di ferro che gli tenesse ferma la mascella, a, diciamo così, «sostituire il titolare». Era molto divertente e simpatico, quando anche qui le linee saltavano, vedere l’imbarazzo con cui quelli della squadra guasti, — prontamente chiamati ma in effetti presentatisi dopo vari giorni —■ mi riconoscevano, mi salutavano e non si raccapezzavano del come mai l’ultima volta ero in tutt’altro ufficio. Pensai, nonostante tutto, che la mia vera vocazione fosse quella di fare la centralinista. Mi piaceva l’atmosfera che c’era negli uffici. Veniva tanta gente, le ragazze erano simpatiche, lo stipendio era fisso e voleva dire non aver preoccupazioni per le quote da pagare alla Sacra (?) Rota. Per me che per dieci anni avevo lavorato da sola, chiusa in una stanza, era una piacevole novità. Mi presentai in tutti i posti dei quali trovavo l’indirizzo sugli avvisi economici. Ma a parte il fatto della nazionalità — nel frattempo avevo avuto la sentenza favorevole — questi «Capi» del personale avevano strane curiosità patriarcali del tipo: «Che lavoro fa suo padre, che lavoro fa suo marito?» e quando dovevo confessare che l’autore dei miei giorni «faceva» l’ammiraglio e il padre di mio figlio «faceva» lo scrittore e il professore universitario, venivo immediatamente ritenuta non idonea. Allora ripiegai sul Metodo Montessori. Mi spiego subito.
Per una strana coincidenza di fatti curiosi mi trovai ad accompagnare in macchina 5 bambini a scuola. Tutto bene. La mattina in un’ora me la cavavo. Al ritorno mi ci voleva un po’ di più ma questo mi lasciava molto tempo libero. I miei «montessoriani» erano simpaticissimi. Le mamme, — tutte compagne — anche. Ci demmo molto da fare per i decreti delegati e la raccolta di firme per il referendum dell’aborto. Andavamo a scuola al canto di «Bandiera rossa»; il ritorno, con il traffico impazzito, ci trovava più silenziosi. Mi regalavano disegni bellissimi. Era molto interessante per me che avevo un figlio grande, questo rapporto con bambini di sei anni e devo dire, infatti, che imparai molte cose. Perfino qualche parolaccia. Nel frattempo, lavorando, a Effe — ma lo si può considerare un lavoro, dato che non è retribuito? — avevo ripreso a scrivere e così un’amica (ah! se non avessi le amicizie!) mi propose di tradurre e di rinfrescare i libri di una collana per signorine.
Figli della colpa che riappaiono a vent’anni suonati, matrimoni «bianchi» in cui ci si dà del «lei», passioni irrealizzabili solo perché «lui» è legato ad una moglie molto ricca e paralitica. Che fare? Risolsi il conflitto quando, a pag. 64 vidi che poteva essere tradotto molto bene il dialogo con un sacerdote da cui traspariva tutto l’antifemminismo della chiesa cattolica e che in fondo la protagonista era per certo una donna emancipata e, chissà, forse, perfino stava maturando una presa di coscienza femminista. Adesso, con Lydia che ha una mano così felice nel-l’illustrare la condizione della donna, abbiamo idea di fare due libri femministi. Sappiamo già che soldi ne faremo pochi anche se ci divertiremo e ci impegneremo molto. E, d’altra parte, io so con certezza che questo non sarà che uno dei numerosi lavori che ancora mi aspettano.