maternità privata
io parlo di figli. Coraggio. Andare contro il pudore e l’eleganza. Un tema di pessimo gusto.
Devo dire subito che ne ho fatti tre, tutti in un anno, e tutti casuali. Come quando da bambina provi un giorno a cucinare per gioco e ti viene fuori un purè che può essere riconosciuto come tale da tutti. Una pancia è un bel riempitivo dell’assenza di te. Così, convinta di non esistere proprio, mi sono ritrovata improvvisamente investita di un titolo, di un’identità, ma contemporaneamente mi veniva tolta per sempre la possibilità di essere pensata, vissuta, creduta persona. Un giorno per caso partorisci un figlio e tac; è immediato, è una macchina schiacciasassi: non esisti più. Per nessuna. La COSA è automatica. Lo stupore è solo tuo. Gli «altri», quelli a cui appartenevi fino al giorno prima, accettano con naturalezza la perdita di te, accettano e positivamente vogliono la tua emarginazione. I più consapevoli giustificano questa tua negritudine con la presunzione di una tua scelta. Vivono comunque te come «responsabile» delle tue incapacità di scelta. Le donne hanno poi nonostante tutto da farti pagare questo lusso ambiguo, la maternità. Avere dei figli è una cosa strana, ed è comprensibile che muova fantasmi. Paga!
E’ vero: non sono tempi per le scelte di vita. Non c’è spazio. E a te, madre, è imposto un ruolo di morte. Ti trovi a vivere tutte le giornate e le notti con dei bambini che davvero sono morbidi, e in espansione e non puoi fare ALTRO che volerli morti, perché loro ti uccidono. E è così anche per la madre più «tenera» e meno deviarne, perché non puoi fare diversamente. E ci riesci, ad ammazzarli, anche se non per questo ti salvi. Resti per sempre inchiodata a quel ruolo tradito e a quella voglia impossibile di vita. Forse succede qualcosa di simile anche alle donne che «scelgono» di non fare figli. Per questo, anche, ho voglia che se ne parli, insieme. Nei miei deliri vedevo il mio ghetto incomunicabile e lontano dal mondo dei normali, di quelli che potevano ancora fare delle scelte e disporre di sé momento per momento. Questo distacco fisico c’è, è reale, è pesante. Così netto che sembra un taglio. L’esigenza di difenderci, tutti, dalla maternità, ci fa negare i bambini.
Io non credo che si rinfaccino ai bambini solo le madri che hanno ucciso, o il reale intralcio fisico che danno o che potrebbero dare in situazioni diverse. I bambini scontano la loro appartenenza a un utero i loro cromosomi e consanguineità. Forse ogni bambino al mondo è rivale di milioni di figli mai nati. Mi pesa questo utero privato.
Così, ancora, ogni bambino altrui è negato e respinto, E l’esigenza reale di un rapporto con lui è etichettato fra la paccottiglia-carta-moschicida. Viene delegato ad una madre-non-persona, ormai incapace di trattare come persona chi divide il suo ghetto. Un rapporto totale obbligato, ben vengano edipi e noia disperata.
Così sembra che in questo momento stia bene a tutti, in attesa che cessi il coprifuoco, che i bambini residui continuano ad essere ammazzati alle madri, e ignorati dagli altri adulti, men tre ammazzano le madri-colpevoli in spazi obbligati non. adatti né agli uni né alle altre.
Procediamo, tutti, nella logica schizofrenica dei tagli e degli strappi. Sopravviviamo tirandoci dietro e riproducendo tutti i nostri cadaveri che bramai
sono i nostri punti di riferimento, le nostre fedeltà.
Ai collettivi le madri senza le, famose «soluzioni individuali» (nonni più o meno rimbambiti, baby-sitter ecc.) sono fantasmi paralitici. E sono quelle che comunque di solito non si vedono. E, quando ci sono, se lo vivono come un lusso, una vacanza, un debito comunque non estinto. Ed è difficile che parlino di sé. Piuttosto si inseriscono nei temi delle altre. Perché questa cosa la si capisce in fretta, che se non si vuole essere tagliate fuori del tutto, dai «normali», bisogna dimostrare che in fondo si è ancora come loro. E’ come parlare fino alle due con amici, quando i bambini dormono, e appena se ne vanno spicciarsi a lavare i piatti e vestiti in arretrato. Anche la tua reale fìsica negritudine la vivi come una colpa. Poi quest’anno si usa autonomia: non devi chiedere, non devi lamentarti. Non è elegante, non è di buon gusto, e non puoi rischiare che non vengano neanche più a trovarti quei pochi.
Non è comodo essere madri neanche quando diventi aggressiva. La gente non ti vuole bene quando la inviti a casa tua e invece di farla sedere su cuscini colorati le mostri il lebbroso nella stanza chiusa.
Anche quando ho fatto comune con altra gente «libera» che ha scelto questa maternità ancora così pesante, all’esterno l’atteggiamento, dopo lo stupore, era ancora quello del «sono fatti vostri».
Pure essendo inseriti in ambienti dove nuove morali impongono alti livelli di disponibilità per quello che riguarda i soldi, le case, i beni d’uso. Eravamo in quattro, con cinque bambini, e una volta alla settimana avremmo avuto voglia di andare insieme a fare una certa cosa di mimo. Gli amici avevano altre .cose da fare. Un giorno finalmente trovammo un amico quasi disponibile. Ci pensò su, e infine disse: «Vengo, ma per farvi un favore». A me tutti rimproverano questa tensione d’isterismo, questa incapacità a rilassarmi cori la gente. Ma mi sembra una cosa inevitabile finché qualcuno, capitalista per me di tempo e di spazio e di sé, continuerà a farmi pagare caro P«aiuto» che devo richiedere e forcare. Finché la gente con cui mi muovo continuerà a credere che per le donne che si lanciano coi bambini dalle finestre è responsabile solo chi non fornisce servizi sociali e salari. Fino ad allora io non sono una persona, e non accetto che mi si chieda anche questa finzione. Mi sembrerebbe di accettare l’invito di Rakarn e Milleidee a riempire di colori lo squallore del ghetto. Ma io voglio vivere, e voglio incontrare gente. Voglio spazi per stare anche con i bambini con cui ho un rapporto, e farci delle cose insieme quando ne ho voglia. Spazi per convivere, adulti e bambini, senza invadersi a vicenda. Senza che i bambini vivano con l’adulto il rapporto mistificato degli asili anche «alternativi». Là dove la società delle ‘separazioni e dei tagli può delegare a qualcuno l’attenzione e la pazienza del «genitore buono», e pietrificarlo nel ruolo di «addetto» all’infanzia.
In pochi questo spazio lo stiamo cercando. Uno spazio anche per altri bambini, per incontri, per gesti, oggetti, voglie. Chi vuole si faccia vivo. Certamente è un progetto presuntuoso, anche infantile. Ma a me fanno paura quelli che, adulti, sanno vivere l’impotenza.