dietro l’apparato la donna

Abbiamo voluto chiedere ad alcune sindacaliste se e in che modo, in questi dieci anni che hanno visto crescere e affermarsi le lotte del movimento femminista, sia cambiata la condizione della donna nel sindacato.

gennaio 1979

alcune discussioni sul cambiamento della donna nella nostra società ci hanno portato ad approfondire la condizione della donna all’interno di una delle più importanti organizzazioni di massa: il sindacato.

Il sindacato! Spauracchio maschilista, oggetto di sentimenti contrastanti e ambivalenti.

Come si confrontano con la struttura, l’organizzazione, la gerarchia, le compagne la cui quotidianità di lavoro è il sindacato?

Al di là delle risposte immediate che si possono dare, abbiamo voluto approfondire questo problema, chiedendo ad alcune sindacaliste (inserite ai vari livelli dell’organizzazione: nazionale, provinciale, delegate di base, Camera del Lavoro) se è in che modo in questi ultimi dieci anni, che hanno visto crescere e affermarsi le lotte del movimento femminista, sia cambiata la condizione della donna nel sindacato.

Proprio per l’atteggiamento ambivalente di cui si è detto, siamo andate a questi incontri un po’, dovremmo dire, prevenute, per cui una «reale» comunicazione con queste compagne non si è stabilita. Ma in fase di elaborazione dei materiali delle interviste ci siamo trovate, a dispetto delle nostre difese, di fronte ad una varietà di posizioni e problematiche dalle quali uscivano figure di donne vive, contraddittorie, non più riflesso appannato delle nostra «ideologia». Non più «spauracchio» della donna sindacalista. La presenza della donna nel sindacato ha senz’altro assunto valori diversi. Un primo mutamento, il più elementare e tangibile, è quello quantitativo: le donne partecipano più numerose alla vita del sindacato, a tutti i livelli. A ben guardare non si tratta soltanto di un mutamento quantitativo ma anche qualitativo: sempre di più sono le donne e sempre di più donne dirigenti, (talvolta ancora usate come fiore all’occhiello dell’organizzazione).

La spinta emancipatoria è sempre esistita. Dove però si riscontra un grosso elemento di novità è nell’avvio di un discorso collettivo. Ribadiamo l’importanza dei coordinamenti delle delegate, che hanno costituito un momento di rottura con i vecchi schemi di emancipazione individuale; punti di aggregazione di donne decise a non compiere più una scalata solitaria al potere; né tantomeno ad essere semplici «oggetto di discorso», — Commissioni femminili e affini —, ma decise a divenire «soggetti di trasformazione». Questo momento di confronto collettivo ha reso più evidente l’importanza di porsi direttamente come donna, e sentirsi tale, rifiutando quella fase di mascolinizzazione imposta nel passato, e per la quale rimuovendo il proprio essere donna, dovevi mostrarti più maschio di un uomo. Mostrarsi donna e assumere un potere. Quali contraddizioni ha aperto? , ,.’ Prima di ogni altra ha messo in discu’s’si.p-ne la gestione maschile del potere, sia da dentro l’organizzazione sia nel rapporto con i lavoratori. ‘

La donna, dirigente o delegata, forse perché proviene, in quanto donna, da una situazione di subalternità, «non si pone come capo», non si riconosce un carisma, ma «cerca di capire». E riesce ad impostare un rapporto diverso con la base operaia. Questa è la positività. Poi c’è lo scontro con il «quotidiano», l’invadenza del tuo ruolo sociale, la violenza del doppio, e triplo, lavoro, lavoratrice, madre, e soggetto politico. Quale di questi ruoli risente di più della tua indisponibilità di tempo e di attenzione? Le donne nel sindacato lavorano a part time. La loro partecipazione alle riunioni è scandita dall’orario di chiusura dei negozi, degli asili e della baby-sitter. La loro presenza all’interno dell’organizzazione sindacale è scandita dai «ritmi biologici»; così la loro presenza sul mercato del lavoro.

La fascia di età più frequente (p.e. nei corsi di formazione per quadri sindacali) è tra i 20-30 anni, ma sono per la maggior parte donne non sposate o senza figli. Le donne con carichi familiari le ritroviamo dopo i 35 anni, quando i figli si sono fatti grandi e vanno a scuola. E allora se cambiamento c’è stato, è più evidente a livello di coscienza? Ma poi il grosso muro, la grossa violenza che tenta di ributtarci indietro è la frontiera del nostro privato contro il quale dobbiamo elaborare, al di là della battaglia per le istituzioni, modi di lotta originali e collettivi.

 

Lili Chiaromonte segretaria provinciale f.l.m. – roma

Stare nel sindacato, essere donna nel sindacato che cosa vuol dire? Non credo che ci siano problemi molto più grossi di quanto non ci siano in altre situazioni. Ci sono un po’ i problemi di tutte nelle varie situazioni. Quello che posso dire è che nel sindacato, come in altri campi, per una donna ci sono una serie di complicazioni maggiori per esempio la capacità professionale che deve avere in maniera molto più evidente rispetto a tanti altri uomini che lavorano nelle medesime strutture e conseguentemente quella iniziale fase di mascolinizzazione per cui ti devi mimetizzare, ti devi scordare, non far notare agli altri che sei donna. Io direi però che le cose complessivamente sono anche cambiate. Ormai la presenza di donne anche nel sindacato, a tutti i livelli (fabbrica, provinciale etc.) comincia ad essere consistente, non ancora sufficiente però comincia ad essere qualcosa. Per le compagne che ora entrano nel sindacato l’impatto è meno traumatico, per esempio io; che avevo subito questa specie di rimozione del fatto di essere una donna (o perlomeno un momentaneo accantonamento), poi, proprio ritrovando le compagne del sindacato, discutendo insieme, ho avuto la forza di superare, di affrontare una serie di problemi a livello individuale, ma anche a livello politico; In questi ultimi tempi c’è un atteggiamento un po’ discontinuo, però perlomeno comincia ad esserci un atteggiamento di attenzione rispetto a una serie di problemi che pongono le donne. Questo dipende da fatti che avvengono all’esterno del sindacato. Il compagno che prima ti diceva «Tu sei femminista» con aria chiaramente spregiativa, oggi te lo dice perché magari è un’abitudine, un modo di scherzare; però quando dici alcune cose cerca di capire e di ascoltare. Quanto questo sia trasferibile a livello di fabbrica tra i lavoratori è difficile valutare. Le reazioni sono come al solito di un certo tipo però noi sappiamo che anche queste cose sono lente. Anche il discorso del coordinamento delle delegate che aveva suscitato molto allarme, molta diffidenza, è una cosa che ormai c’è, hanno visto tutti che non minaccia né l’unità del sindacato né l’unità di classe, che in alcune situazioni potrà magari essere vissuto come un ulteriore ostacolo poiché pone dei problemi che sommati ad altri complicano la vita e l’esistenza dell’organizzazione, però viene accettato.

Il sindacato crea una condizione di lavoro e di rapporto umano un po’ particolare che però è solo un palliativo rispetto alla collocazione delle donne nella sua struttura organizzativa: mi riferisco per esempio alla divisione di lavori, i lavori femminili e quelli maschili.

Evidentemente ci sono anche le eccezioni cioè donne che riescono a superare questa divisione ma siamo ancora a livello di privilegi e al prezzo che dicevo prima: per una certa fase devi far finta di non essere donna, che devi porti in termini, se non concorrenziali, competitivi senz’altro. Penso che alcune cose, alcuni elementi di riflessione cominciano a porsi anche tra i compagni sul comportamento delle compagne, come si muovono, come riescono a stabilire un rapporto di tipo diverso. Le prime volte si stupivano che facevano le riunioni, si stupivano che eravamo molte, si stupivano che eravamo donne, si stupivano che eravamo poche, si stupivano sempre. Adesso si cominciano a stupire un po’ di meno. Siamo di più, siamo di meno, facciamo alcune cose, però superato lo stupore vuol dire che alcune realtà cominciano a radicarsi; quali è cosa difficile da verificare. Se qualcosa è cambiato è perché abbiamo cercato di far entrare una serie di problematiche nel sindacato e dare cittadinanza e legittimità a tutta una serie di istanze che venivano viste come esterne. Questo veicolo siamo state noi, le donne del sindacato, in particolare quelle più presenti a livello di fabbrica come delegate e che sono state sostenute da una presenza di donne che cominciavano a partecipare a orecchiare a sentire a leggere a non sentirsi più estranee. Però indubbiamente si tratta di tempi lunghi. I momenti di presa di coscienza, le intuizioni, le comprensioni improvvise capitano pure, in situazioni particolari. Però quella che. è la coscienza rispetto a certe cose, le scelte che devi maturare richiedono dei tempi e questo credo, che il movimento delle donne l’abbia peraltro dimostrato. Così come ha dimostrato la riflessione e la capacità di organizzarsi anche all’esterno.

 

Cecilia Brighi segreteria provinciale filta-dsl – roma

La mia esperienza sia nel sindacato sia nel movimento femminista mi ha cambiato profondamente. Devo dire che un elemento che c’è in me, ora, è il silenzio, perché ho verificato talmente tanti elementi negativi nel sindacato, anche rispetto a me stessa, al mio comportamento come militante, che a questo punto non mi resta che stare zitta. Nel senso che sono talmente stanca di dire cose che poi non hanno riscontro, di fare una battaglia da isolata, che spesso mi ritrovo ad essere fuori da questa struttura, a sentirmi un’altra cosa, ad avere dei bisogni completamente diversi.

Quando ho scelto di lavorare nel sindacato a tempo pieno l’ho fatto perché mi sentivo realizzata come persona e anche come donna, perché, in un settore come quello dei tessili, avevo la possibilità di entrare in contatto con molte donne. Tutto questo non è avvenuto perché nei tessili tutto il discorso che si era iniziato come donne nelle altre categorie (ad esempio i metalmeccanici) non è andato avanti. Forse ha influito anche il cambiamento (secondo me non si tratta di riflusso) del movimento femminista, il nostro guardarci dentro. Prima nel sindacato ci chiedevano di parlare; adesso approfittano di questa nuova fase e tentano di distruggere quel poco di nuovo che si è fatto. Essere donna nel sindacato in questo momento è molto difficile, perché ora da parte di tutti c’è un discorso primario, quello della crisi, dell’occupazione, della programmazione e un discorso secondario, come può essere quello delle donne, della loro specificità, della loro aggregazione.

Tra l’altro è un po’ di tempo che non lavoro perché sono incinta e vorrei parlare proprio di questa mia esperienza anche come sindacalista.

Quando ha deciso di avere questo figlio ne ho parlato con i compagni, informandoli di questa mia scelta: ne ho avuta come risposta che non ci sarebbero stati problemi per il mio lavoro, nel senso che io lavorando a Roma in una zona ho certe responsabilità e quindi mancando io ci voleva qualcuno che mi sostituisse. Né ci sarebbero stati problemi di continuità di rapporto di lavoro. Ne ho voluto parlare anche perché questo figlio ho deciso di farlo da sola e questo è un fatto che, compagni o non compagni, comporta sempre un giudizio moralistico. Non mi è stata fatta rimarcare ufficialmente né la particolare situazione in cui decidevo di avere questo figlio né il fatto che come sindacalista avevo un figlio; in realtà mi si dice adesso, dopo nove mesi di gravidanza, che, se voglio continuare a lavorare nel sindacato a Roma, o riprendo a lavorare con i ritmi precedenti, oppure me ne ritorno in fabbrica. Quello che ho scoperto a questo punto è che il sindacalista non può essere che un maschio oppure una donna che ha già i figli grandi o fa la scelta di non averne: cosa che in genere fino ad ora è stata una scelta di castrazione. Generalmente le donne con figli già grandi non scelgono di entrare nel sindacato. Chi ci entra sono invece donne giovani che vengono dalle lotte di fabbrica o che vengono assunte nel sindacato come intellettuali, ma che poi si scontrano con questa struttura di lavoro senza tempo, senza orari, con grosse responsabilità per cui o ti adatti o sei fuori. E quindi o io mi dò un’altra collocazione all’interno del sindacato, oppure devo rientrare in fabbrica, alla Romanazzi, senza contare che in questi due anni ho perso professionalità, ho perso il posto nel mio reparto.

Io comunque rifiuto il concetto che per fare la sindacalista in una zona si debba per forza lavorare dodici ore al giorno; cambiamo la struttura. A questo punto però diventa una battaglia quasi personale, anche se parlando con altre compagne ti rendi conto che il problema non è solo tuo, ma di tutte quelle che hanno figli piccoli. Gli altri compagni, i sindacalisti, non hanno questo problema perché a casa hanno la moglie e hanno tutto il diritto di parlare dei loro figli, di farne 3 o 4. Io accetterei di tornare in fabbrica solo sulla base di un dissenso politico. L’unica alternativa che ti offrono è quella del lavoro ruolizzato (scuola, ministero); mentre il sindacato nel momento in cui dice di accettare le istanze delle donne deve accettarle anche per se stesso non solo per i datori di lavoro. Quando a giugno sono andata in ferie e poi in maternità mi sono sentita dire dai lavoratori che non potevo prendermi responsabilità sennò loro non sapevano come fare: sono gli stessi lavoratori che in fabbrica vanno a difendere la lavoratrice madre. In positivo è difficile dare soluzioni perché le donne all’interno del sindacato sono poche, hanno dovuto assoggettarsi alla mentalità maschile-e non sono neanche del tutto appoggiate dalle lavoratrici. Non si può disconoscere tuttavia che un minimo di cambiamento c’è stato perlomeno a livello di emancipazione. Io non mi adatto più alla struttura del sindacato, cerco anche di lavorare in modo diverso; tento di frenare un minimo il lavoro semmai di migliorarlo qualitativamente: la politica fatta su spinte nevrotiche rischia di diventare una cosa frenetica.

Se vogliamo che il sindacato viva, e non «sopravviva», dobbiamo sforzarci di cambiarne la struttura e il modo di lavorare, di eliminarne gli aspetti più verticistici e disumani, di renderlo a misura di uomo e, soprattutto, di donna.

 

Doriana Giudici segretaria nazionale della filtea-cgil

Indubbiamente la situazione è cambiata. Fino a qualche anno fa, quando si doveva lottare nella fabbrica per organizzare gli scioperi, tutti si accorgevano della presenza delle donne. Il fatto è che poi queste donne non venivano fatte salire nei vari gradini, un po’ per i condizionamenti che impedivano a loro stesse di pensare a questa possibilità, un po’ perché il sindacato non te lo permetteva.

Ora con il femminismo, con la crescita di coscienza, le donne hanno rivendicato i loro diritti, che danno potere, ma anche maggiore lavoro e responsabilità. Se siamo utili quando c’è un momento di lotta, quando si scende in piazza, vogliamo poi essere presenti nei momenti decisionali.

Su questo non c’è dubbio; basta guardare i dati statistici, della presenza delle donne nella CGIL, nelle Camere del Lavoro, nelle segreterie provinciali; si può quasi parlare di un boom. Per alcuni settori del sindacato la apertura alle donne significa un po’ chiudere la bocca a chi li incolpa di essere maschilisti. D’altro canto non si può negare un riconoscimento, una coscienza vera che è cresciuta, ma che soprattutto deve crescere nelle donne, perché chiedano questi posti e si facciano avanti. Poi insieme cerchino di trasformare la vita del sindacato che è dura, difficile, alienante. Si è visto p.e. il cambiamento di orario delle assemblee, riunioni e coordinamenti; c’è un diverso modo di porsi, perché le donne sono entrate anche con il loro specifico. Che non è solo lo specifico di madre e moglie, ma una realtà in cui il lavoro è visto come momento di autorealizzazione, e non come potere. La presenza delle donne nel sindacato ha significato immediatamente non porre soltanto il problema di altri posti, altri agganci rispetto ai momenti di potere decisionale; e questo ha abituato anche gli uomini, li ha cominciati ad educare (ammettendo d’altra parte, che il sindacato è una realtà di un certo tipo) ad un minimo di discorso diverso di gestione del potere. perché questo? Forse perché noi donne veniamo da una situazione di subalternità, e quindi soprattutto nel Mezzogiorno ci sono sindacalisti che trattano ancora l’operaio come la massa da manovrare per ottenere certi risultati politici, e non partono dall’esperienza del sindacato come momento di crescita e maturazione del movimento operaio stesso. Le donne, avendo già subito la situazione in cui si ricevono ordini dall’alto, senza-poter obiettare o opporre niente, impediscono, si oppongono a che questo stato di cose continui a perpetuarsi. Allora, tu vedi che nelle assemblee la compagna, l’amica dirigente è ascoltata con un certo tipo di atteggiamento, proprio perché il suo rapporto diventa diretto con i lavoratori. Mentre l’uomo sicuro di sé, ha una preparazione che lo impone, da sempre, come capo, come guida, la donna non si pone come capo, ma cerca di capire, ed è su questo particolare che tu riesci ad impostare un rapporto qualitativamente diverso con l’operaio, con le masse. E questo, mette immediatamente in crisi il dirigente vecchio stampo.

 

Pina Di Giulio delegata di base direttivo provinciale della standa-roma

Immacolata D’Elia commessa

Pina di Giulio – Per me un cambiamento c’è stato anche all’interno della nostra categoria, che non è una categoria molto politicizzata. Ci sono tantissime donne che lavorano; anche dentro il sindacato qualcosa è cambiato, c’è proprio una richiesta di maggiori spazi, di contare realmente in prima persona, pure sul posto di lavoro. Si sta superando anche una certa paura di questo femminismo perché all’inizio nel mio posto di lavoro solo a parlare di femminismo la gente si raccapricciava; adesso sono anche più disponibili in prima persona, scendono in lotta, si interessano, vogliono entrare nelle strutture sindacali e contare qualcosa. Io sto nel direttivo provinciale, ci sono anche altre donne, chiaramente in minoranza rispetto agli uomini, anche se la categoria è prevalentemente femminile. Però c’è sempre il discorso che la donna per fare del sindacato dovrebbe avere del tempo libero. L’uomo lo può fare perché a casa mica deve tenere il ragazzino, e neanche deve cucinare, la sera può far tardi. La maggioranza delle donna sì, sta alle riunioni, però a una cert’ora deve andare a casa perché deve cucinare, deve prendere il ragazzino, è oberata da duemila cose. E quindi c’è quest’ostacolo strutturale che limita enormemente il cambiamento che pure c’è stato.

Immacolata d’Elia – Adesso anche se l’apertura è diversa rispetto a sette anni fa, il femminismo è avanzato, la donna, ha preso un po’ coscienza, rimane tuttavia ancorata a certe cose; pur volendo partecipare non può, perché veramente ha diecimila ruoli da portare avanti: quello della mamma, quello della moglie e quello della lavoratrice. Allora diciamo che delega gli altri a risolvere i propri problemi, gli altri che in questo caso sono gli uomini e che si fanno molto poco carico dei suoi problemi per esempio nel caso della nostra categoria. quello dell’orario lunghissimo che è inumano per tutti, ma che è un ostacolo soprattutto per le donne.

Pina di Giulio – I problemi dell’orario poi non sono gli unici di cui non si fanno carico gli uomini. Nell’ultimo accordo fatto con l’azienda la quale denunciava 42 miliardi di deficit (che ha poi trasformato in 5000 esuberanze) noi di fatto siamo andati a firmare un accordo che tamponava i licenziamenti concedendo però all’azienda di dare degli esodi volontari. E poi abbiamo fatto dei sacrifici stando due settimane a casa senza paga. Beh, la gente che se ne è andata via con l’esodo chi era? Le donne. Delle 2-3000 persone che alla Standa se ne sono andate la maggior parte erano donne. E questo accordo andava visto chiaramente come un attacco all’occupazione femminile. Io avrei preferito lottare anziché accettare questa soluzione che ha dato via libera alla Standa per mandare via 2-3000 persone. Non abbiamo avuto i licenziamenti ma in pratica non è cambiato niente.

Immacolata d’Elia – L’assurdo è che abbiamo mandato via queste donne pagando le extraliquidazioni con i nostri soldi, cioè stando due settimane a casa. La maggioranza poi se ne sono andate ai livelli bassi, ai livelli di vendita, quindi i ritmi e i carichi di lavoro sono aumentati enormemente per quelle che sono rimaste. Perciò come donne stiamo pagando doppiamente questa crisi.

 

Sandra Bailetti responsabile ufficio donne lavoratrici – camera del lavoro – roma

Rispetto al passato, possiamo dire che, nella nostra organizzazione, nella direzione del sindacato, le donne, prima di tutto, sono numericamente più presenti. Questo è senz’altro un dato positivo, che comunque non esaurisce la problematicità del ruolo del sindacato rispetto all’attenzione che bisogna porre alla specificità della condizione della lavoratrice, (e delle disoccupate).

Credo comunque che il movimento delle donne abbia radici più lontane, da ricercare ben oltre gli anni settanta. Per noi la nostra storia comincia anche durante la Resistenza, con battaglie forse emblematiche, comunque è una storia lontana. Quindi per una esame della situazione attuale rispetto a dieci anni fa, vedo un cambiamento in termini di quantità, forse anche di aggressività, ma a mio avviso rimane il pericolo emergente di una richiesta di separatezza che può venire accordata molto facilmente in cambio di una non-incidenza sulle scelte politiche. A volte l’esigenza di rivendicare una impostazione separata dalle tematiche sindacali rischia di svilupparsi su un livello di direzione politica che si svolge poi su tutt’altri binari.

Avviare, quindi, una battaglia politica che sia tutta dentro il movimento sindacalista per accrescere il peso di una tematica.

 

Manuela Melazzani segretaria camera del lavoro a roma

Credo si debba analizzare il perché siamo di più.

Siamo di più come lavoratrici, come delegate, come dirigenti sindacali. È un fatto indubbiamente collegato a tutte quelle battaglie portate avanti dal sindacato, dalle forze politiche, dalle donne, che hanno sì origini antiche, ma che sono state poi sostanziate dalla grossa battaglia per il divorzio, per l’aborto, per il diritto di famiglia. Battaglie che hanno portato benefici immensi all’intera società, quindi anche all’interno dei luoghi di lavoro, del sindacato.

Quindi, partendo da questa constatazione, credo che vada capito anche un altro fatto che io avverto. C’è ancora una profonda contraddizione fra l’acquisizione generale di quello che è il nuovo ruolo della donna nella società e la concreta gestione di questo ruolo sul luogo di lavoro. Ed è fuori di dubbio che questa contraddizione pesa ancora all’interno del sindacato. E lo si vede nell’analisi della composizione dei gruppi dirigenti, della capacità concreta di gestione della legge di parità uomo-donna, della capacità di fare della battaglia per l’emancipazione della

donna non solo un terreno di lotta ideale e generale, ma un fatto di concreta gestione giornaliera nei luoghi di lavoro, sul territorio, all’interno delle categorie. Voglio portare un esempio: perché tutto il dibattito sulla legge di parità pesa così poco sulle vertenze sindacali? È un quesito che ci dobbiamo porre anche rispetto ai limiti che ha avuto la stessa battaglia delle donne nel sindacato, rispetto al fatto di scalfire delle contraddizioni rimaste all’interno della capacità concreta del sindacato di gestire le scelte e le conquiste generali che abbiamo fatto. Siamo, sì, andate molto avanti, ma esistono delle contraddizioni profonde sulle quali credo sia opportuno agire. Modificando in termini strutturali il mercato del lavoro, è chiaro che il sindacato risente del tipo di produzione del lavoro. Se la donna è costretta al doppio lavoro, in casa e fuori, se non sa dove lasciare i figli, la sua partecipazione è comunque limitata. Noi avvertiamo che questi meccanismi di selezione, che non riguardano il sindacato, ma il modo in cui è strutturata la società, pesano profondamente sulla formazione dei gruppi dirigenti sindacali, per cui abbiamo pochissimi quadri operai fra le donne che dirigono il sindacato; abbiamo pochissime donne fra i venti/trenta anni che siano sposate. Il sindacato non è assolutamente immune dalle contraddizioni più generali della società. Voglio ribadire l’importanza del rapporto fra gli obiettivi del movimento delle donne e il momento istituzionale. Non è che ci sia stata una sorta di politica in due tempi: da un lato il movimento delle donne, dall’altro un’acquisizione da parte delle istituzioni di quadri femminili. C’è stata piuttosto una crescita non Omogenea nelle donne della esigenza di risolvere un rapporto con le istituzioni che sia un fatto di partecipazione in prima persona alla battaglia per l’acquisizione piena, nelle strutture, dell’esigenza della tematica femminile, fatto che nasce anche dal concetto di società di cui ti fai portatrice. In questo senso mi sembra ci sia stato un passo avanti notevole, che però oggi ha bisogno di sostanziarsi in un rapporto diverso, di massa, con le lavoratrici, con le donne, con le casalinghe. E credo che si debba porre al centro di questa ricostruzione di un rapporto più saldo la questione della posizione della donna nella nostra società, rispetto al problema del lavoro, dei diritti civili. Che questa elaborazione che si è costruita sia un momento di sintesi, che sia gestita la tematica elaborata. Il rischio è quello di un ritorno indietro pauroso.

Sarebbe come non dare risposte adeguate alla crisi che ha investito il Paese, alla disoccupazione, al Mezzogiorno.

 

Lidia Salinetti funzionario camera dei lavoro di roma

Non credo che i cambiamenti di ruolo, specie all’interno del sindacato, siano dovuti al movimento femminista. O meglio, non credo siano dovuti soltanto a questo. In tutti questi anni c’è stato un gioco di interreazioni fra una serie di movimenti, più o meno di massa e più o meno d’avanguardia, che ha lasciato dei segni. Credo però che nella mentalità collettiva delle donne il cambiamento sia dovuto a quelle grosse battaglie per i diritti civili (aborto, divorzio) dove sicuramente hanno pesato le varie parti, i singoli pezzi dei movimenti, ma che, proprio in quanto battaglia di massa, non possono essere connotate in maniera così dichiaratamente e chiaramente d’avanguardia. Direi che, in generale, si è prodotta una maggiore percezione di sé delle donne, un livello culturale medio più alto di quello di qualche anno fa; è un dato che si riscontra anche sui posti di lavoro. Vediamo però, come questo cambia il rapporto con l’istituzione (partito, sindacato), da dentro la istituzione. Si ha allora ciò di cui parla anche Manuela, le donne fra i venti e i trenta anni sono poco presenti come quadri, come soggetti di movimento politico (le donne normali, non quelle che fanno femminismo); questo vuol dire che il processo di cui parliamo sta ancora molto indietro. Ci sono delle resistenze interne alle strutture istituzionali – partiti, sindacati, società -, ci sono resistenze interne, ancora, nelle donne.

In questo ’78 le donne tornano a vivere con acutezza una contraddizione che nel

momento alto delle battaglie civili sembrava essere in via di soluzione. Di fronte alla crisi, di fronte ai ritorni a casa in massa, tutto diventa più difficile. Per converso, si consolida lentamente, si assesta verso l’alto la situazione delle donne nelle istituzioni. Assestamento che lascia molti spazi vuoti, sta ancora molto indietro, prendiamo il commercio, categorie di donne rappresentate ancora a livello di strutture dirigenti da uomini. La battaglia è ancora tutta da fare, però bisogna dire che si riparte da una condizione in qualche modo migliore. Il problema della separatezza, la contraddizione che è stata in alcuni momenti lacerante all’interno del sindacato (i problemi delle donne separati o no), di fronte alla crisi economica, viene riassorbita dalle esigenze del movimento nella sua globalità.

E allora a questo punto ti trovi con un quadro femminile un po’ più ampio e comunque con un retroterra. Ritengo che un lavoro di formazione di quadri sia più possibile ora che non tre o quattro anni fa. proprio per questo retroterra. Il problema è: che progetto facciamo noi del sindacato rispetto alle donne, come dirigenti futuri, come protagonisti del sindacato in questo periodo di crisi, guardando soprattutto oltre la crisi.

 

Luciana D’Aleo segretaria nazionale filcams-cgil – roma

La mia non è una concezione personale perché rispecchia una componente ideale all’interno del sindacato sia per il modo di affrontare i problemi delle donne sia

per quanto riguarda la presenza delle donne nel sindacato stesso. Nessuno nega esista una specificità femminile però il metodo per affrontarla mi sembra non sia quello dell’impostazione ghettizzante quanto l’acquisizione dei problemi delle donne da parte di tutto il sindacato. Questo all’interno del sindacato. Per quello che riguarda i partiti da tutto il partito. Per raggiungere questo obiettivo non è che si possano ristabilire, o comunque bisogna respingere, le famose commissioni femminili o le famose sezioni femminili per cui sono le donne che si interessano delle donne. E necessario che il quadro femminile all’interno del sindacato o all’interno del partito si faccia soggetto del lavoro sindacale e del lavoro politico, così come fanno gli uomini, avendo certamente maggior sensibilità ai problemi delle donne. Però bisogna finirla di fare i piagnistei nei confronti delle istituzioni, senz’altro maschiliste, quali il sindacato e il partito perché in questo modo si ripropone una visione della donna come oggetto di discussione e non soggetto di lotta. Per me questa impostazione delle commissioni femminili, dell’attenzione che si chiede agli altri, dei piagnis tel. deriva da un’impostazione diversa anche di guardare il problema delle donne. C’è chi pensa che le donne debbano essere alleate della classe operaia. Secondo me le donne così come gli altri strati, giovani e ceti medi emergenti, devono essere soggetti, insieme alla classe operaia, della trasformazione della società. Sono classe operaia esse stesse. Le donne sono soggetti di trasformazione. Allora se tu hai questa impostazione nell’affrontare i problemi femminili anche il lavoro politico ne risulta modificato. Ecco io ti faccio un esempio personale. Se io qui dentro mi interessassi dei problemi femminili mi snobberebbero tutti. Dal momento che conduco una battaglia in tutti i settori del sindacato è chiaro che poi ho più voce per dire: «Guardate esistono anche i problemi femminili, una specificità femminile». È una questione di potere, però purtroppo è così. Anche nel congresso del PSI a Torino ci furono 3 o 4 interventi delle compagne: su che cosa? Sui problemi femminili. La sala era svuotata perché anche la gente si scoccia. Se io invece faccio un intervento sulla strategia del partito e quindi mi impongo a te e dico: «So fare anch’io politica» però ti inserisco là specificità femminile ecco, questo diventa un problema che è poi di tutto il partito. Questo in. tutti i campi. Non è fare come gli uomini. È una questione di potere e gli spazi di potere si conquistano con il cavallo di Troia. C’è la necessità del momento di rottura ma anche del cavallo di Troia.