straub-huillet: stavolta parla lei

Daniele Huillet è rappresentativa di tutte quelle donne che scelgono di lavorare in coppia e che, proprio per questo, subiscono una ulteriore emarginazione da parte della critica

aprile 1977

Daniele Huillet fa cinema in coppia (con Jean Marie Straub), rappresenta quindi una eccezione per questo numero di Effe dedicato essenzialmente al cinema al femminile in senso stretto. Le ragioni che ci hanno portato a proporre una intervista a Daniele Huillet vanno ricercate, oltre che nell’interesse suscitato dai film visti, nel bisogno di ampliare l’orizzonte delle informazioni sulle donne che fanno cinema. Non è una regista che si pone all’interno del Movimento, non «usa» dichiaratamente dei contenuti sulla condizione della donna, non è infine la regista inserita e accreditata dalla grossa industria cinematografica; Daniele, come spiega chiaramente nell’ultima parte dell’intervista, è un ulteriore modo di lavorare e di porsi il problema di essere una donna che fa un certo tipo di lavoro. Si potrebbe considerarla rappresentativa di tutte quelle donne che scelgono di lavorare in coppia e che, proprio per questo, subiscono una ulteriore emarginazione, perpetrata questa volta, secondo noi, dal sistema-critica.
Nella pratica di scrittura e di linguaggio del sistema suddetto il legame che unisce i due elementi della coppia viene scisso; per una sorta di «magico procedimento» l’elemento-nome-lavoro donna viene rimosso, cancellato; viene mantenuto, sempre magicamente, lo Elemento per eccellenza, nome-lavoro dell’Uomo; a questo punto esiste (quando trova modo di esistere) il «Film-di-Straub», cui viene aggiunto, in rare occasioni, il nome-lavoro Huillet, quasi uno strascico, un’appendice (Straub-Huillet, e mai Huillet-Straub), come è ampiamente dimostrato dai pezzi dei «critici» ufficiali, e non, che hanno scritto su questi autori (tranne rare eccezioni).
Ci teniamo a sottolineare il problema dell’impatto con il sistema-critica. Anche e soprattutto in un momento come questo in cui si guarda con affettuoso paternalismo e paternalmente si incoraggiano le «nuove e giovani» autrici a proseguire nel lavoro intrapreso (o il più delle volte, ancora da intraprendere); è proprio adesso che i nostri strumenti critici vanno affilati e affinati e che l’esame di certi meccanismi che ci relegano in modelli, che non abbiamo voluto né chiesto va approfondito.
Per inciso, non crediamo nella magia (quella suddetta beninteso).
Iniziamo parlando di te. Un po’ la tua storia. Come sei arrivata al cinema; seguendo quali «percorsi». Quali ruoli ricopri nella lavorazione dei vostri film; nel senso anche di sapere a che livello agisci: produzione, distribuzione, sceneggiatura, regia.
Sono vissuta in campagna fino a 13 anni, con la nonna e la Marie, che chiamavo Manie, e la visita ogni fine settimana della madre, che lavorava a Parigi. Poi ho vissuto a Parigi. A 17 anni, dopo il secondo «baccalauréat», sono andata all’università, alla Sorbonne, e ne sono uscita dopo mezz’ora, decisa a non tornarci mai più. Volevo fare film documentari. Sono andata a preparare l’I.D.H.E.C, in una classe di preparazione al lycée Voltaire (però al concorso ho dato un foglio con scritto solo che era una vergogna proiettarci «Manèges» di Yves Allégret come film da «esame», dopo di che il concorso era — per me — finito!), e lì, novembre 1954, mentre esplodeva la rivoluzione algerina, ho incontrato Straub, arrivato dalla sua Lorena, provincia dell’est della Francia. Aveva già il progetto del film su Bach (Cronaca di Anna Magdalena Bach), che abbiamo poi realizzato nel… ’67
Abbiamo lavorato insieme a costruire la sceneggiatura, poi abbiamo cominciato a cercare dove, come, con chi si poteva fare, a scoprire quanto sarebbe stato difficile, i primi scontri con produttori ecc. Nel ’58 Straub doveva scappare, lasciare la Francia per non andare a fare la guerra in Algeria. Fine 1959 l’ho raggiunto in Germania, dove siamo rimasti fino al ’69. Nel ’62 abbiamo fatto il primo film, Machorka-Muff, che era il quarto progetto, ma, essendo il meno caro, fu il primo per il quale abbiamo trovato un finanziamento.
La sceneggiatura, la scriviamo insieme, la produzione, la costruiamo insieme, la «regia»(?) non è che la facciamo sempre insieme, poiché spesso mentre Jean-Marie sta preparando l’inquadratura con gli operatori, io ho altre cose da fare, per la produzione o per il script o per il suono, ma sono sempre vicina e se ha un problema di quadro o di obiettivo o, di movimento, mi chiama. Quando cerchiamo i posti dove girare e la gente con chi girare («attori»), siamo sempre insieme, e le ripetizioni con gli attori prima di girare, se sono necessarie, si fanno sempre anche noi due insieme a loro. E unii volta girato il film, siamo insieme e soli per fare il montaggio, ed è il momento più difficile, poiché essere chiusi nel buio in una piccola stanza è una cosa che sopportiamo tutti e due difficilmente e che non addolcisce gli scontri aspri che abbiamo spesso.,.
Per quanto riguarda la distribuzione, non capisco bene la vostra domanda. Non abbiamo capitali, dunque non possediamo cinema, il che sarebbe l’unico mezzo per, in Italia, mettere certi film dentro i cinema! A convincere alcuni proprietari di cinema a passare i nostri film, ci siamo riusciti in Germania, e anche ad avere un distributore. In Francia due film nostri sono andati in distribuzione «normale»: Cronaca di Anna Magdalena Bach e Mosè e Aronne. Per quanto riguarda la «distribuzione» televisiva tedesca (poiché tutti i nostri, film, anche Othon, e adesso Fortini/Cani, che pure non sono film tedeschi, sono passati alla televisione, anche — per i film girati in tedesco — due o tre o quattro volte) abbiamo sempre lottato insieme per ottenerla. In Italia fino adesso hanno messo in onda — una volta, con sottotitoli —-solo Non riconciliati o Solo violenza aiuta dove violenza regna e Cronaca di Anna Magdalena Bach.
Mosè e Aronne e Fortini/Cani aspettano ancora di uscire dall’armadio.
E andiamo il più possibile insieme quando facciamo vedere i film nei cineclub o nelle università o nei cinema comunali ecc., anche perché, in due, invece di disperare quando la situazione, soprattutto tecnicamente, sembra disperata, si può ridere!
Ci interesserebbe sapere come nascono i vostri film. Il processo di elaborazione, di «produzione» delle idee che stanno a monte, ecc.
Quali criteri seguite nella scelta dei temi, dei contenuti sui quali agire cinematograficamente; ci riferiamo, p.e., negli ultimi due film (Mosè e Aronne, Fortini/Cani), all’interesse per la questione ebraica.
Possono nascere da un luogo, da un’impressione visiva (ma anche sonora!) forte, come la terrazza del Palatino, scoperta nel 1961, durante il nostro primo faggio a Roma: urto fisico della decadenza, della rovina dell’impero romano in mezzo a una città moderna Ro-^a, che sta anche cadendo sotto il capitalismo — emozione violenta; poi, leggendo Othon di Pierre Corneille, si scopre che lui aveva, 300 anni prima, trattato un soggetto simile, alla sua maniera, e questa tragedia s’installa sulla terrazza del Palatino e il tutto diventa il film Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi o Forse un giorno Roma si permetterà di scegliere a sua volta — del 1969.
O come la strada buia, con le donne che aspettano sul marciapiede sotto la pioggia, alla periferia di Monaco di Baviera, scoperta tornando a casa a piedi una notte molto tardi nel 1966, e intorno alla quale si è costruito il film ti fidanzato, l’attrice e il ruffiano nel ’68.
O da un’impressione «sonora» — la musica di Bach, diventata finalmente dal 1954 al 1967 la materia del film Cronaca di Anna Bagdalena Bach.
O da domande che noi ci siamo posti (Che diventa un uomo che ha fatto una guerra, quella del 39-44 o quella algerina? Che è successo in Germania sotto il nazismo? È vero che tanti non sapevano? o non volevano? o non potevano? È nato così il nazismo? O c’era già prima? E dopo? È sparito? Uno che rientra nel suo paese dopo tanti anni, che succede?) e che trovavamo nel libro di Boll «Biliardo alle nove e fnezza» in una lingua che noi non potevamo inventare, quella della borghesia tedesca, e che riprendevamo da lui per farne Non riconciliati.
O da una collera, quella davanti al riarmo tedesco, imposto alla Germania che dopo la guerra almeno aveva avuto la fortuna di essersi sbarazzata di quel parassitismo, con un appello alla ribellione alla fine con la frase «Alla nostra famiglia nessuno ha ancora resistito», provocazione della fidanzata di Machor-ka-Muff.
Quanto alla «questione ebraica», il nostro «interesse» era già cominciato con Non riconciliati: «Sei ebreo?». «No». «Dunque che sei?». Anche questo era una ribellione all’antisemitismo che scoprivamo, Jean-Marie ed io, in Francia, ognuno da parte sua, poiché l’antisemitismo francese non era — e non è sparito — meno violento di quello utilizzato in Germania da Hitler e dalla grande industria tedesca, con l’aiuto di intellettuali. Volontà di Capire provocata anche dalla repressione in Algeria che metteva a fuoco contro gli algerini reazioni simili a quelle antisemite, poi andando in Germania, poi attraverso Israele e i Palestinesi, come una palla di neve che rotola sempre più veloce. Per arrivare, col Fortini/Cani, a situare la «questione ebraica» nella lotta di classe — nelle lotte di classe.
Mosè e Aronne invece è un progetto del ’59, sarebbe stato il nostro secondo film dopo Cronaca di Anna Magdalena Bach, se non fossero stati tutti due troppo cari «per noi», esigendo 15 anni  per  trovarne  il  finanziamento!
Quale metodo seguite nel progettare e realizzare un film? Seguite rigidamente una sceneggiatura? o vi basate più sul rapporto creativo e dialettico con gli attori e i materiali?
Cominciamo per costruire «nell’astratto», cioè senza sapere ancora dove né con chi gireremo, un «quadro», una «struttura» — un «decoupage» prevedendo ciò che sarà detto, da quale personaggio, facendo quale cosa, dove inizierà e dove finirà un «blocco» di testo all’interno di una inquadratura.
Poi cerchiamo gente e luoghi, e 11 molte cose della «sceneggiatura» cambiano — lentamente, poiché, prima di girare, torniamo e ritorniamo parecchie volte lì dove vogliamo girare, fino ad avere i luoghi nei nostri nervi, e lavoriamo con le persone che saranno i personaggi. Poco a poco, con pazienza,, tutto si trasforma.- E poi, quando si gira, ci sono le ultime sorprese: anche se hai visto duecento volte un luogo, quel giorno quell’ora è diverso. E che dire degli uomini… soprattutto se non sono attori! Queste sorprese, fino a quelle che si vedono, si scoprono ancora montando il film. Eppure, se il quadro, la struttura di partenza, di base, era precisa, lavorata, immaginata fino ad essere precisa, doveva lasciar spazio a queste sorprese, anche provocarle.
(…) I vostri film ripropongono e riproblematizzano ogni volta la questione della popolarità e comunicabilità dell’«opera d’arte». Ci sembra che si rivolgano esplicitamente ad un certo tipo di pubblico (vorremmo dire élite) in grado, in qualche modo di avvicinarsi al vostro linguaggio. Allora chiediamo come vi siete posto e come pensate debba essere affrontato il problema della popolarità.
I) Jean-Marie dice «sul problema della popolarità»: «sarebbe bene dire una volta che quelli che parlano sempre di popolarità sono o i fascisti (colla loro ala di populismo) o la borghesia, per ragioni evidenti. “Io non sono larità”.dice il popolo».
II) Io direi che una difficoltà dei film che tentiamo di fare è la loro semplicità, che dà l’impressione —■ e sono proprio fatti per questo — che ognuno, con un po’ di pazienza, di tempo, di riflessione, sarebbe capace di fare film così, e cioè che il mistero dell’arte è una mistificazione. L’altra difficoltà è che sono film che non offrono né sensazioni, né il sensazionale e che non sono fatti per violentare quelli o quelle che li vedono, ma lasciano liberi di vedere, di giudicare, di riscoprire emozioni, sentimenti (e non sentimentalismo), tempi diversi, di scoprire come funzionano occhi e orecchie cioè cervello, come si può modificare il film mentre va avanti, e quello che lo vede mentre va avanti, ma lasciano liberi anche di uscire o di annoiarsi se uno non è — non è più — capace di usare della sua libertà, di fidarsi di ciò che risente e di capirlo, trasformarlo,  rifiutarlo  o  accettarlo.
Non son fatti, questi film, per una «élite» e non è certo fra «l’elite» che si trovano quelli che sono mossi o scossi o toccati da questi film, Ed è naturale: è proprio «l’elite» a fabbricare, a tutti i livelli, prodotti musicali, filmici, ecc. per distruggere i sensi della gente e, di conseguenza, la loro coscienza potenziale — anche politica.
Appunto, questi nostri film non sono «filmici», è questo infine la loro difficoltà, cioè rifiutano, e sempre di più, i mezzi ripresi, utilizzati dal cinema pubblicitario.
Ili) Lenin diceva: lavorare affinché le minoranze di oggi diventino le maggioranze di domani.
Tu sei una delle poche registe per le quali affrontare il cinema è significato ricercare nuove forme di espressione, di riproblematizzazione dell’uso delle tecniche. Come ha influito il tuo essere donna, il tuo essere femminile, in questa ricerca. Ci riferiamo per esempio alla presa diretta, all’uso delle panoramiche, al rapporto coi «luoghi» dove si svolge la «storia». Quali  influenze  hai  sentito  di  subire e quali contraddizioni hai dovuto affrontale (sempre come donna) nei confronti anche di una produzione cinematografica storicamente riconosciuta e nominata come maschile.
Né Straub né io abbiamo mai cominciato per ricercare «nuove forme di espressione» né per «riploblematizzare l’uso delle tecniche». Questo è uscito dai soggetti che c’interessavano, mai viceversa. Se i visi degli attori dell’industria cinematografica non t’interessano ma se t’interessano invece visi di gente che vedi sulla strada, nella tua casa ecc., hai voglia di cercare fra quest’ultimi  i  personaggi  dei  tuoi  film.
Se tu t’interessi a ciò che succede sulla strada, a Roma, per esempio, le inquadrature della camminata in macchina di Lezioni di Storia, che forse erano nate all’interno di una finzione, con una funzione narrativa, diventano un’altra cosa: non sono più soltanto né una parte di questa finzione (sarebbero allora molto più bravi; come si è già fatto centinaia di volte, per primo nei film americani) né l’idea di Brecht sui quartieri di artigiani della vecchia Roma, ma tentano di essere «gerecht» — giuste nel riguardo di ciò che è filmato; e, quando si filma così, non puoi tagliare «arbitrariamente», per ragioni di cosiddetto ritmo, non puoi per esempio far saltare in aria con un colpo di forbici il cameriere che fa apparizione nel fondo della strada. È lui che deciderà dove si può tagliare, interrompere, l’inquadratura. Le «panoramiche» sui villaggi delle Alpi Apuane bruciati, massacrati dai nazisti-fascisti tra il 43 e il 44 non sono nate per volontà di originalità o di formalismo, ma per far vedere, testimoniare, dove è avvenuta questa lotta, questa repressione di classe, quale ne è stato il teatro geografico, «naturale» e lavorato, ciò che rimane, ciò che si può sentire o scoprire adesso ancora di tanto sangue sparso, perso. E il fatto che il suono sia preso insieme all’immagine e senza aggiungere nulla, non è volontà tecnica, ma deciso perché sarebbe per noi sbagliato aggiungere, magari per far passare meglio queste scene, una musica magari elettronica, come diceva un tizio che avrei volentieri preso a schiaffi. Anche se tanti, quando non sentono più “, la voce di Fortini, non essendo più abituati a quel silenzio rumoroso, parlano di inquadrature mute!!! Bisogna, facendo queste  panoramiche,  trovare l’equilibrio fra tenerezza, amicizia, compassione, collera, vendetta, pazienza, attenzione, fermezza, grido, memoria, cambiamento — cioè il punto dove il piantare la macchina da presa e da dove a dove muoversi, a che altezza, con che velocità. E poi avere il coraggio di tener duro, anche contro l’impazienza prevista di tanti. Se J.-M. mi è piaciuto, è perché ha questo co-‘ raggio. Non è perché cercava forme nuove. Quelle vengono, lavorando.
L’influenza sua, certo che l’ho sentita, ma anche lui la mia, poiché sono io ad «organizzare» come si girerà, quali giorni, quali cose, quando ecc. Ne discuto con lui quando si costruisce il piano di lavorazione, ma poi è lui che si piegherà a queste previsioni: il mio ruolo (femminile?) è di evitare, rifiutare lo spreco (sul quale è fondato il sistema capitalista insieme al profitto), e di fornire il lusso, cioè che tutto ciò che è necessario sia qui e in abbondanza.
Il fatto che noi non siamo mai stati pagati per nessun film a parte Othon, e che questo abbia reso necessario guadagnare i soldi della sopravvivenza con altri lavori, di traduzione per esempio, perché si potevano far di notte, e non ci abbia permesso, aggiungendosi alla nostra condizione, durante 13 anni, di esuli, di avere il minimo di sicurezza necessario — almeno, secondo noi! — per avere dei figli, non viene per prima dal sistema maschile, ma dal sistema capitalista (inventato, va bene, dagli uomini; ma Indirà Gandhi? come criminale, non figura male accanto a tanti uomini…).
Nel «lavoro» cinematografico, le contraddizioni uomini-donne si risolvono, come sempre, molto più facilmente: il «lavoro» è un movimento, come una guerra di resistenza per esempio: anche  lì,  le  contraddizioni  spariscono.
E quando il movimento si ferma, che tornano le contraddizioni. Chiaro che questo crea anche l’illusione che le contraddizioni siano risolte, quando non sono che dimenticate. Però per me sono contraddizioni secondarie rispetto alle contraddizioni di classe, alle opposizioni di classe, che sono principali.