c’è modo e modo di venire al mondo
La storia di una cosa
È la storia di una cosa
nata sotto un fiocco rosa
lo volevano celeste
per paura della peste
cognome di famiglia
non continua se è una figlia
bando alla malinconia
ti terrà compagnia
Donna — donna — come hai potuto amare
Donna — donna — se questo per te fu l’amore
La tua bambola fu l’arma
che inventò la vocazione
di esser sposa di esser madre
di servire ad un padrone
Il peccato ti prescelse
sin dal tempo della mela
sul tuo corpo ancora passa
questa storia senza vela
Donna — donna — quando potrai amare
Donna — donna — il mondo potrà cambiare.
Le parole e la musica di questo canto sono un contributo originale dato da Fufi Sonnino al Movimento femminista romano. Fufi esprime con le canzoni che compone il suo modo di vivere e di interpretare il femminismo. Ha cantato la prima volta in pubblico le canzoni femministe al festival di Pontedera Libertà numero uno.
La violenza contro i bambini è dappertutto e viene chiamata educazione. È considerata componente inevitabile del processo educativo, o perlomeno si tenta di persuadersene, giacché la giustificazione classica all’uso della violenza: «lo faccio per il tuo bene» — ha invece tutto il sapore della scusa di chi sa che non dovrebbe, ma tenta di disfarsi del senso di colpa chiamando la vittima ad assolverlo. I metodi educativi sono rimasti pressoché invariati per secoli e da sempre sono stati contrassegnati dalla violenza nelle sue forme più immaginose. Gli ultimi decenni, invece, hanno visto il trionfo dell’educazione cosiddetta permissiva. Ma la violenza non è affatto scomparsa, ha soltanto assunto forme più camuffate, meno clamorose; alcuni dei suoi aspetti più macroscopici, come ad esempio l’uso delle punizioni corporali non solo ammesse, ma codificate dal vecchio sistema scolastico e spesso richieste agli insegnanti dai genitori stessi, sono scomparse, ma la violenza «privata» è tuttora molto diffusa. Per quanto non ci sia cuore di adulto che non si commuova di fronte a un bambino picchiato o maltrattato dai genitori, raramente si interviene in sua difesa perché si è persuasi che il bambino sia di proprietà di chi l’ha generato e quindi, tutto sommato, costui possa farci quello che vuole. La mobilitazione della sensibilità dell’adulto di fronte a un bambino maltrattato avviene a causa della disparità di forze che caratterizza i due contendenti, proprio per quella impossibilità di reagire del bambino rispetto a chi, tanto più forte di lui, gli usa violenza; ma a voler ben vedere, è una mobilitazione epidermica, superficiale, certamente inferiore alla indignazione che prova quando vede maltrattare un animale. Segno che l’adulto, nel profondo, vive la violenza contro i bambini come un fenomeno inevitabile, un impulso che si può controllare ma non sempre; segno, in definitiva, che sa benissimo che anche lui farebbe lo stesso se si trovasse nelle stesse circostanze; segno che l’ostilità verso i bambini è oscuramente radicata in noi e che i rapporti distesi e gioiosi con loro sono ancora ben lontani dall’essere una realtà diffusa.
Vorrei però considerare un tipo di violenza poco riconosciuta e tuttavia enormemente diffusa, e cioè quella verso i neonati. Poiché questo tipo di violenza non fa uso di mezzi così clamorosi come le botte o i maltrattamenti, non viene riconosciuta come tale. Siamo tanto abituati alla violenza che non siamo disposti a riconoscerla se non quando raggiunge il suo massimo. Ben pochi adulti giungono a picchiare i neonati perché i rischi sono grossi (potrebbero anche morire), perché socialmente non è permesso a causa della enorme disparità di forze e della totale inermità del neonato, e dopotutto l’istinto di conservazione della specie in qualche modo ancora funziona, ma per essere violenti contro di loro non c’è bisogno di giungere a tanto, basta molto meno.
La violenza contro i bambini comincia alla nascita e ha tutte le apparenze della normalità, talvolta della necessità. Basta assistere alla nascita di un bambino e seguirne i primi giorni di vita per raccogliere agevolmente una lunga serie di atti di violenza esercitati contro di lui, e diventati così abituali che chi li compie non ne ha affatto coscienza, li ritiene necessari, spesso utili e sarebbe sorpresissimo se qualcuno glieli addebitasse appunto come atti di violenza. Proprio perché è diventato routine quotidiana, questo genere di violenza ammorbidita accettato dalla nostra cultura, non lascia nell’adulto la minima traccia del senso di colpa che può provare quando si abbandona a manifestazioni violente contro un bambino più grande. Vediamo che cosa succede. Una sala da parto è un luogo ostile, freddo ma razionale dove si va per partorire. Si va anche per essere partoriti. Ma chi è al corrente del fatto che proprio lì un nuovo essere, del tutto diverso da noi ma anche molto simile a noi, verrà al mondo, non prepara niente per lui, per facilitargli questo difficile ingresso, se non lo stretto necessario perché sopravviva, perché sia dichiarato vitale e quindi scarichi le persone coinvolte nella sua nascita dalle ovvie responsabilità.
C’è modo e modo di venire al mondo, ma queste diverse possibilità non sembrano impegnare in modo particolare l’immaginazione di chi organizza una sala da parto.
Si è persuasi che un neonato sia del tutto insensibile a quello che gli accade, come se non fosse fornito di sensi funzionanti quasi quanto quelli di tutti noi e di una psiche nella quale si stampa, attraverso quelli, tutto ciò che gli accade e che vive. Tutto quello che gli succede, gli succede per la prima volta: sembrerebbe ovvio che ci si sforzasse di rendere questa prima, irripetibile esperienza un’esperienza memorabile, ma in senso positivo. Invece gliela si rende memorabile, e come, ma in senso negativo, accumulando tutte le possibili sofferenze nell’arco di poche ore. Il neonato è molto sensibile alla luce eccessiva, visto che viene dal buio, ma non viene preparato nessun angolo in penombra per lui, per abituarlo gradualmente alla luce più forte. È molto sensibile al freddo, visto che viene da una temperatura di 37°, che nasce ovviamente nudo e che ha i meccanismi termoregolatori del tutto imperfetti, ma la stanzetta, la culla, gli abiti riscaldati particolarmente per lui non vengono preparati. È soltanto da poco tempo che i competenti hanno rilevato che l’uso diffusissimo di mettere un neonato a testa in giù appena nato, tenendolo sospeso per i piedi e di schiaffeggiarlo sul torace e sulla schiena allo scopo di farlo piangere e quindi di favorirne (si dice) la respirazione, spesso favorisce soltanto il prodursi di lesioni interne o di ematomi. Come se la respirazione non potesse essere molto più facilitata da una immediata ed accurata aspirazione del muco dalle vie respiratorie, dall’uso dell’ossigeno, da un asciugamano ben caldo, da un delicato e abile massaggio su tutta la cute del neonato, da un lungo e caldo bagno. Da questo primo intervento, vistosamente violento e tuttora molto in uso, si passa a una serie di pratiche in linea con quello. Spesso viene lavato direttamente sotto un rubinetto, con l’acqua non sempre sufficientemente calda che gli piomba violentemente sul corpo con la forza di una potentissima doccia, viene insaponato vigorosamente e inutilmente, visto che è spesso ricoperto di vernice caseosa che lungi dal dargli fastidio (dà fastidio all’adulto e al suo concetto di sporco e di pulito) lo protegge dalla temperatura estrema. Ci si ostina a lavargli la testa a lungo per liberare i capelli dai residui di vernice caseosa che li tengono appiccicati: ho visto coi miei occhi lavare la testa a neonati usando una spazzola di saggina.
Anche se un simile trattamento generalmente non giunge a produrre vere e proprie lesioni fisiche (ma chi può escluderlo?) cosa deve pensare del proprio venire al mondo un neonato trattato in questo modo? Ma la serie delle violenze continua. Dopo essere stato lavato in questo barbaro modo (provare con un adulto e stare a vedere che reazioni ha) viene asciugato energicamente, senza alcun riguardo, in un ruvido e freddo asciugamano, poi medicato e vestito in panni amorosamente preparati ma violentemente fattigli indossare. Da questo momento in poi viene separato da sua madre alla quale era pure strettamente legato fino a pochi momenti prima e messo nel primo ma non ultimo ghetto della sua vita, insieme a tanti altri come lui. La madre verrà dichiarata incapace di occuparsi di lui, anzi addirittura dannosa perché inesperta e cialtrona. Può darsi che sia vero, in alcuni casi, ma chi si occupa di lui nelle cliniche lo è altrettanto seppure in una forma diversa.
La scienza si occuperà di lui e lo confinerà nella nursery allo scopo dichiarato di difenderlo dalle infezioni, di controllarne la salute e l’alimentazione, di proteggerlo dalle irrazionalità dei suoi legittimi ma impreparati parenti, ma in verità al solo scopo speculativo di far bastare lo scarso personale per un gran numero di bambini. Infatti, spesso le nursery sono pochissimo sicure dal punto di vista igienico, basta vedere con quante piccole e grandi infezioni un bambino torni a casa dopo la degenza. Il controllo sullo stato di salute del neonato è del tutto aleatorio quando in una clinica di maternità il personale che si occupa di lui è del tutto insufficiente, non possiede alcuna specializzazione e non è quindi in grado di prevenire eventuali crisi neonatali che si presentano frequentemente. L’alimentazione è ancorata a regole rigidissime stabilite dal pediatra e uguali per tutti i bambini e quindi ben lontane dal tener conto dei bisogni alimentari individuali, diversi per ognuno di essi sia per quantità che per orari.
È proprio nell’alimentazione del neonato che la violenza contro di lui emerge in maniera drammatica. Si fa di tutto per privarlo dell’allattamento materno. Sempre in nome dell’organizzazione che deve filare nel modo più liscio con il minimo del personale e che riduce i degenti a numeri e a cose, l’allattamento materno viene scoraggiato anche in quelle madri che sarebbero ben disposte a farlo. È ovvio che se una madre non desidera allattare è molto meglio che non lo faccia e che si goda in altro modo il suo bambino:
infatti allattare non deve essere un penoso dovere che finisce per suscitare risentimenti e rendere problematico il rapporto madre-bambino, ma un piacere condiviso.
Il personale e i medici che scoraggiano, a parole e coi fatti, l’allattamento materno quando la madre sia intenzionata a farlo, compiono una violenza bella e buona nei riguardi del bambino perché lo privano arbitrariamente di un bene prezioso che gli apparterrebbe di diritto, lo derubano di una felice esperienza. La regolamentazione dell’alimentazione del neonato viene stabilita dall’autorità della scienza medica e nessuno osa opporvisi, neppure nei casi che vanno contro il più elementare buonsenso, per una sorta di reverenza al feticcio della scienza e per il timore che la minima trasgressione possa portare a catastrofiche conseguenze. La quantità di latte che il bambino deve prendere viene stabilita secondo regole concepite a tavolino e uguali per tutti i bambini, e così gli orari dei pasti vengono stabiliti in base al processo digestivo che si compie in circa tre ore, senza tener conto che per una quantità di ragioni spesso imponderabili, talvolta si può aver fame anche quattro o cinque ore dopo il pasto precedente e che nessuno può saperlo meglio dello stomaco stesso.
Così il neonato che dorme placidamente viene svegliato perché «noi» abbiamo deciso che deve aver fame in quel momento.
Provate a svegliare un adulto che dorme profondamente per dirgli che il pranzo è pronto e obbligatelo a mangiare controvoglia e state a vedere che reazioni ha per capire che cosa un neonato non potrà mai dirci sul nostro modo di trattarlo e sulla violenza che è costretto a subire. Né questo risveglio obbligato viene ottenuto con cautela, gradualmente: il bambino viene semplicemente scoperto, tirato su dalla culla con veemenza, senza dargli il tempo di adattarsi a ciò che gli sta accadendo, spogliato, pulito rapidamente e manescamente, rivestito, il tutto nel più breve tempo possibile come se si fosse in gara con il tempo e in men che non si dica si trova a dover succhiare mentre avrebbe certamente preferito continuare a dormire. Se invece piange anzitempo perché ha fame, il suo pianto, unica voce che possiede per denunciare uno stato di sofferenza (forse che un adulto piange disperatamente se non quando disperatamente soffre?) viene ignorato perché tanto tutti i bambini piangono, anzi, il pianto li irrobustisce perché allarga i polmoni e mette in moto i muscoli del torace. Viene quindi fatto attendere senza batter ciglio, finché l’orologio non ci conferma che è giunta l’ora del pasto che qualcuno (che lo ha visitato una sola volta qualche giorno prima e quindi sa ben poco di lui) ha stabilito per il bene della sua salute. La notte si pretende fin dall’inizio che rispetti un lungo intervallo senza mangiare, disposti anche a offrirgli palliativi di sicuro insuccesso, come camomille o acque zuccherate, ma a negargli il latte che chiede e che unico avrebbe il potere di metter fine alle sue sofferenze.
Disposti persino a passare la notte in bianco accanto a un bambino urlante, e quindi chiaramente sofferente fino al parossismo, piuttosto che concedergli di placare la sua fame. Un simile trattamento praticato a un adulto verrebbe denunciato come vera e propria tortura.
Persino per quello che riguarda il tempo concessogli per nutrirsi, scelta che dovrebbe riguardare esclusivamente lui visto che ci sono bambini voraci e bambini lenti, bambini che hanno bisogno di molte pause brevi e bambini che hanno bisogno di una o due pause lunghe, non gli viene data alcuna scelta e si interviene per stimolarlo se è lento (rispetto ai nostri ritmi, naturalmente) e per frenarlo se è troppo rapido (sempre secondo il nostro metro).
Anche qui è l’autorità della scienza che pronuncia le sue inappellabili sentenze, per cui, per qualche misteriosa ragione.di cui ci sfugge il significato ma che accettiamo come dogma, il bambino dovrebbe mangiare nel tempo massimo di venti minuti e se non ci riesce viene sollecitato con i metodi più violenti.
Nessun adulto sopporterebbe un pasto consumato in queste condizioni. Per chi sia scettico, consiglierei di farsi imboccare da qualcuno anche per una sola volta per capire quale carica di violenza si avverte se colui che imbocca segue ritmi arbitrari e non rispetta quelli dell’imboccato e quale livello di irritazione e impeto di ribellione ecciti questa procedura che riteniamo del tutto normale se applicata a un neonato.
H fatto è che anche il neonato è un «diverso» che ci rifiutiamo di comprendere e non gli riconosciamo nessuno dei diritti all’autoregolazione che siamo tanto pronti a reclamare e a difendere per noi stessi. Proclamiamo di amarlo ma dimostriamo il contrario facendo uso con lui di quella violenza che siamo tanto pronti a bollare e a rifiutare quando ci tocca ‘ in prima Persona.