iI disagio del mondo cattolico
All’interno del mondo cattolico si sta affrontando il problema dell’aborto con molta serietà. Un nuovo ed approfondito modo di discuterne, senza reciproche scomuniche, si fa strada nella Chiesa, sia per quanto riguarda gli episcopati, che i teologi, gli studiosi di morale, gli stessi medici cattolici, il laicato più avvertito e responsabile. Fin dal gennaio 1972, la rivista «Idoc», proponeva un dossier sull’aborto, segnalando, fra l’altro, la posizione dell’episcopato dei paesi nordici. Si diceva infatti in quel documento, pur nel rispetto delle tradizionali posizioni cattoliche: «Il pluralismo della società moderna è accettabile nel senso che la società sì compone chiaramente di gruppi e persone che hanno opinioni divergenti in materia di decisioni politiche, nel quadro dei diritti fondamentali della persona. In una società pluralista come questa, le opinioni particolari dell’uno e dell’altro gruppo politico non devono essere imposte come norme obbligatorie per tutti, a scapito delle convinzioni di altri gruppi. Ricordiamo che noi cristiani non abbiamo il diritto di ignorare o di sottovalutare la profonda serietà e l’autentica sensibilità alla miserie umana, e l’esame di coscienza responsabile, che anima molti fra gli uomini di legge, i medici, gli assistenti sociali e altri che non condividono la nostra concezione in una materia così delicata come questa».
Qualche mese più tardi, sempre su «Idoc», il teologo Vittorino Joannes riproponeva il dibattito sull’aborto, affermando la necessità di una «teologia che permetta di superare positivamente la semplice alternativa del permesso e del proibito», anche per quanto riguarda questa scottante questione.
Nel gennaio di quest’anno Etudes, la rivista dei gesuiti francesi, usciva con un dossier firmato dal direttore della rivista, il teologo Padre Bruno Ribes, da medici, psichiatri, biologi, dai teologi P. Simon e P. Roqueplo, e costituito da un lungo studio introduttivo e da una vera e propria proposta di legge, riassumibile in dieci punti: la costituzione di un consiglio rappresentativo delle istanze competenti della collettività, autorizzato a ricevere le domande di interruzione di gravidanza; dopo almeno otto giorni, e al termine di un secondo colloquio, il consiglio potrà attestare che, tenendo conto della situazione, tale consiglio non vede come la donna o la coppia possano assumersi la responsabilità di condurre a termine la gravidanza, oppure li invita a scegliere di continuarla, ricorrendo ad altri aiuti; nessun aborto potrà essere effettuato dopo la dodicesima settimana di gravidanza, salvo il caso di pericolo immediato per la vita della madre o di embriopatia grave scoperta in seguito; l’aborto avrà luogo obbligatoriamente in un ospedale o in una clinica concordata; inoltre, il primo intervento sarà rimborsato dalle assicurazioni sociali e i seguenti, tranne in caso di pericolo grave per la madre, lo saranno solo in modo decrescente; l’aborto reputato illecito e l’aborto clandestino saranno puniti dalla legge e coloro che procurano l’aborto per lucro e clandestinamente saranno severamente puniti. Nel frattempo non solo i gesuiti, ma anche dei domenicani, con la rivista «Lumière et vie», prendevano posizione sull’aborto, dedicando un intero numero al problema, con articoli firmati da uno psicologo, un giurista (gesuita), un medico, uno psichiatra e dai teologi PP. B. Quelquejeu e J.M. Pohier, quest’ultimo professore di teologia morale alle Facoltà domìnicane del Saulchoir. Pohier, nel lungo saggio che chiude la rivista, fra l’altro notava:
«Le arringhe cattoliche contro l’aborto fanno spesso appello, più o meno esplicitamente ad un argomento che d’altra parte non è il loro proprio, e cioè quello che non considerare più l’aborto come sempre criminale o oggettivamente peccaminoso, contribuirebbe ad aggravare la ‘licenza’ dei costumi sessuali, poiché, come si dice comunemente, allora non ci sarebbe più alcuna paura, alcun rischio, alcuna barriera. Qualunque possa essere la giustezza di questa diagnosi — continuava Pohier —, è sorprendente vedere una certa mentalità cattolica fare così facilmente dell’esistenza in arrivo di un essere umano, una barriera, una sanzione, o un motivo di paura, e di vederla contare su questa sanzione per garantire la moralità della vita coniugale e della vita sessuale». Il teologo conclude affermando che la posizione della chiesa cattolica in materia è sempre stata la stessa. Ma «ora è assai evidente — egli continuava — che il mio proprio articolo e l’insieme di questo numero sembrano indicare che essa potrebbe o dovrebbe cambiare. Che cosa ne è allora della continuità della fede e della tradizione? lo mi contenterò di rispondere a questa questione a titolo personale; anche se sorpreso e imbarazzato, come potrebbe essere il lettore da quello che ho scritto, egli vorrà ben darmi il credito di pensare che vi è qui una questione vitale per il cattolico, credente e teologo, quale io sono e voglio essere» ‘
La serietà di questo studio spingeva la rivista italiana «Il segno» a pubblicare nel gennaio scorso una intervista al P. Pohier; in essa il teologo precisava la sua posizione, frutto di un lungo cammino di studio e di ricerca:
«La mia posizione», dice infatti Pohier, «probabilmente a causa della mia formazione cristiana, ha coinciso a lungo sia nei princìpi, sia nelle giustificazioni, sia nelle affermazioni pratiche, con la posizione ufficiale della chiesa cattolica. È solo da una decina d’anni a questa parte, e anche a causa delle mie responsabilità sacerdotali, che mi sono messo a studiare a fondo questo problema. Dirò sinceramente che oggi la posizione della chiesa cattolica non mi sembra più giustificata né dal punto di vista umano, né dal punto di vista della fede, né dal punto di vista della teologia. Non riesco più a capire come i princìpi che la chiesa invoca e che condivido, come per esempio che Dio è vivente, che è Dio che fa vivere l’uomo, possano giustificare la proibizione di tutti gli aborti» (2)
Poco tempo dopo, sul «Regno» del 15 marzo, il P. Alfio Filippi, redattore della rivista, nel rispondere ad una lettera risentita per l’intervista sull’aborto, chiarirà ulteriormente la scelta del «Regno»: «Di fatto tre riviste hanno affrontato queste tematiche in una sostanziale convergenza di argomenti e di conclusioni: ‘Lumière et vie’, ‘Études’, ‘La revue nouvelle’ (rivista cattolica belga di grande prestigio, ndr). A noi è parso che si tratti di un dibattito che rappresenta un reale arricchirsi della teologia morale, perché sul problema aborto vengono presentate chiavi di lettura più complete. Ridurre il senso di questo dibattito a semplificazioni quali: aborto sì, aborto no, vuol dire limitarne e tradirne il senso (…). Così è stato fatto da certuni a proposito della nostra intervista, mentre aveva lo scopo di far conoscere una posizione che deve essere conosciuta, se si vuole far procedere la teologia morale».
Mentre in Francia il dibattito continuava (con la famosa rivista «Informations Catholiques Internationales», e con l’intervento di Odette Thibauld su «Témoignage Chrétien», la rivista dei cattolici progressisti, favorevole ad una me-dicalizzazione e ad una depenalizzazione dell’aborto) anche in Italia ferveva la discussione. Ciò è avvenuto malgrado la dura presa di posizione dell’episcopato italiano, che Ruggero Orfei, su «Settegiorni», considerava come una occasione mancata per fare un discorso più approfondito sul drammatico problema dell’aborto. Infatti l’intervento dei vescovi è drastico, ma su «Settegiorni» e sul «Giorno», Ruggero Orfei e Raniero La Valle continuavano il discorso. Per La Valle, che non è d’accordo con «Études», lo Stato non potrebbe dare nessuna licenza o avallo per abortire, ma potrebbe rinunciare a perseguire penalmente la donna che interrompa la gravidanza secondo la propria coscienza. Lo Stato dovrebbe offrire però reali alternative, investendo l’intera comunità del problema. Ruggero Orfei rispondeva a questa proposta affermando che con essa si pone il problema dell’aborto, e sia pure con limiti vari, in termini di «problema non più sociale, ma socializzato», e che per far questo però occorre una predisposizione di strumenti che non ci sono, e che sono legati appunto alla riforma sanitaria, alle leggi sulla famiglia, all’educazione sessuale, alla maternità.
E al di là dunque della personale posizione di La Valle, sulla quale si può concordare o no, la sua proposta si Pone in una situazione in cui, diceva Ruggero Orfei, in realtà la norma penale può non esservi, mentre c’è “. problema di una società e di persone di fronte alla vita». Ma l’apporto della teologia al problema dell’aborto non finisce qui. Anche la rivista «Il tetto», nel numero dal luglio scorso, dedicava un dibattito all’aborto, dibattito condotto con molta apertura e serietà per l’apporto interdisciplinare (biologia, problematica civile e giuridica), “i veniva pubblicato il contributo del teologo Ambrogio Valsecchi (già autore del libro «Nuove vie dell’etica sessuale», Ed. Queriniana, che ha avuto molto successo recentemente nel mondo cattolico). Questo contributo era già uscito come introduzione al volume «Aborto questione aperta» (Ed. Gribaudi), in cui si precisavano le posizioni di 19 teologi italiani sul problema. Lo studio di Valsecchi chiariva i termini più generali della questione, illustrando le due posizioni che si fronteggiano attualmente in Italia: coloro che ribadiscono la posizione tradizionale e coloro che invece legittimano la depenalizzazione dell’aborto in certi casi più gravi, secondo il «principio della tolleranza del male, o addirittura della sua positiva permissione, al quale il legislatore può e deve ispirarsi per evitare mali più grandi o assicurare beni sociali maggiori». Molto interessante era anche la discussione sul tema della vita in sé e vi veniva riferita appunto la posizione dei teologi francesi sopra citati: «La relazione che gli uomini assumono nei confronti del ‘ concepito ‘ sembra un elemento indispensabile a dar ‘senso umano’ al processo biologico che viene promosso. Se questa relazione non si instaura e il frutto del concepimento non viene finalizzato a crescere come persona, quella vita resterebbe priva di una vera vocazione all’esistere umano: come quella della blastula fatta crescere in laboratorio a puro titolo di esperimento.» (…) «La semplice struttura biologica, anche se è un dato necessario all’esistenza di una vita umana, non è sufficiente a fare la persona: la quale è invece costituita da un insieme di relazioni che la toccano nel profondo. Con la madre, con la famiglia, con l’intera società: sono rapporti radicali che danno ‘ un nome d’uomo ‘, in senso altissimo, al quel grumo di cellule in sviluppo e configurano come umano il processo biologico che è in corso». Ultimo, in ordine di tempo, il volume sull’aborto della casa editrice cattolica Coines, che nella collana «Uomo e sessuologia» riprende una iniziativa francese — i quaderni Sexuologie — «frutto del lavoro di un gruppo di specialisti, tra i quali uno psicologo, uno psicanalista, uno psicoterapeuta, un sociologo, un ginecologo, un etnologo, un teologo. L’apporto del teologo Pierre de Locht è molto ricco, aperto e ben strutturato. Impossibile qui riportarne molte considerazioni ma una è utile: «Le dichiarazioni ufficiali della Chiesa sono sempre state il risultato di un dibattito aperto, oppure è semplicemente parso evidente che la dottrina ‘tradizionale’ andasse riaffermata? Sono stati coinvolti nella ricerca i pastori, i moralisti di varie tendenze e soprattutto coloro che sono i principali interessati, vale a dire gli sposi e particolarmente le donne?». Tutto il volume insomma è nel senso di una revisione delle leggi che in vari paesi europei puniscono come reato l’aborto.
Lo stesso de Locht interviene ora recentemente sulla rivista «Com» (7 ottobre) in un lungo articolo dal titolo «Aborto: un dibattito responsabile», nel quale si fa riferimento alla chiusura tradizionale di coloro che considerano colpevole chi è favorevole all’aborto, invitandoli ad ascoltare seriamente le opinioni diverse senza pregiudizi. Non solo, ma «in ultima analisi» afferma ancora de Locht: «le divergenti prese di posizione rispetto ad una legislazione più ‘liberale’ dell’aborto, dipendono dalla fiducia che si ha nella libertà umana, nella capacità degli uomini (cioè degli altri, della massa, e non soltanto di qualche privilegiato tra i quali noi stessi) di assumersi delle vere responsabilità. Queste divergenze dipendono anche da ciò che ci si aspetta dall’autorità, sia morale che civile: sostituirsi all”incapacità della massa’ e quindi assumerla ed accentuarla o contribuire all’educazione di tutti alla libertà».
La Chiesa, nella sua gerarchia, nei suoi intellettuali, tenta di capire ciò che sta avvenendo, e cioè la presa di coscienza collettiva del problema dell’aborto. Anche coloro che difendono accanitamente la dottrina tradizionale, sembrano farlo a volte quasi con un senso di colpa e comunque molti riaffermano in alcuni casi la tesi, sempre nell’abito generale di quella dottrina, del «minor male», Tuttavia resta da chiedersi: e le donne cattoliche?
1 Riportato su «Com», 11-2-1973.
2 Riportato su «Com», 11-2-1973.