chiesa alla sbarra

la mamma patriarca

febbraio 1975

1975: «Anno Santo» (proclamato dal papa) e Anno della Donna (proclamato dall’ONU). Tra le due celebrazioni non ce alcun rapporto: si tratta di una coincidenza, come direbbe un film americano, «puramente casuale». La Chiesa, però, in un empito pro-femminista che ci lascia alquanto scettiche (venendo da un’istituzione sessista e antidonna per secolare tradizione) ha dato il suo appoggio all’iniziativa dell’ONU: Paolo VI ha persino annunciato che la «donna» sarà oggetto di studio, fino al gennaio 1976, di una speciale Commissione sulla funzione della donna nella società e nella chiesa. Il 7 settembre 1975, nella basilica di S. Pietro, ci sarà addirittura il giubileo delle donne nel quadro dell’Anno Internazionale della Donna. Nello sforzo per la promozione della donna nella società, ha detto Paolo VI, «la chiesa ha riconosciuto un segno dei tempi e una chiamata dello Spirito». Come donne e come femministe, che non hanno avuto bisogno di attendere la segnalazione dello Spirito Santo né di giubilei per capire che il «risveglio delle donne» è uno dei segni più importanti del nostro tempo (l’esigenza della lotta ci è nata dentro, la coscienza della nostra oppressione è emersa senza bisogno di commissioni di studio, bolle papali e «bolli» dell’ONU) —prendiamo lo spunto da questa «coincidenza» che ha permesso a Paolo VI di parlare della donna secondo il punto di vista della Chiesa (con una sterzatina progressista, ma mantenendo inalterato il sessismo di sempre) per parlare della Chiesa secondo il punto di vista della donna.

Conviviamo con la Chiesa Cristiana Cattolica da più o meno duemila anni, e da duemila anni più o meno accettiamo che una gerarchia rigidamente costituita da uomini si autodefinisca, come insieme, «madre». Inoltre, la Chiesa si definisce «il corpo mistico di Gesù Cristo»; nello stesso tempo, è «la sposa mistica di Gesù Cristo». È inevitabile immaginare a questo punirò la Chiesa come una sorta di mistico ermafrodito, permanentemente sposo di se stesso. In quanto all’essere madre, la Chiesa — meno male — non è madre di Gesù Cristo (o addirittura di se stessa), ma di tutti i fedeli, di tutti noi, che però non siamo figli di Gesù Cristo suo sposo, ma di Dio, cioè del padre di Gesù Cristo, il che, in un certo senso, più che figli, ci renderebbe cognati e cognate della Chiesa. Madre (effettiva) di Gesù Cristo è invece Maria, che in compenso, come sappiamo, è vergine. E non si tratta della mitologia di una tribù primitiva. Si tratta invece di una religione contemporanea; presentata non solo come >«vera», ma come l’unica vera. La cosa più strana, della Chiesa Cristiana Cattolica, è che essa sembra corrispondere in modo perfetto ad una tesi femminista secondo cui il maschio ha invidia del corpo femminile e delle funzioni del corpo femminile, e avrebbe sempre cercato, senza mai ovviamente riuscirci, di appropriarsi di tali funzioni, in particolare della funzione generatrice. Bisogna ricordare che, nell’età primitiva della nostra specie, non si era ancora arrivati a capire quale ruolo svolgesse, nella riproduzione, il maschio; e la maternità appariva quindi come qualcosa di assolutamente miracoloso. In questa mitica età primordiale la divinità, cioè l’essere che creava e che perpetuava eternamente la vita, era la Donna. Dio, cioè, era Dia, la Generatrice Primigenia, la Madre Eterna. Fino a che, un bel giorno, il maschio scoprì il proprio contributo alla creazione della vita. Dovette essere una scoperta sconvolgente, più che per il valore in sé della scoperta, per il fatto che questa scoperta si sovrapponeva all’invidia fino ad allora provata per la fecondità del corpo femminile; e quindi, più che semplicemente rivalutare il proprio contributo fondamentale ed essenziale alla creazione della vita, il maschio si appropriò della priorità nel generare la vita. Ma poiché, sempre secondo la tesi femminista, restava sempre l’invidia per il corpo femminile che, alla fin fine, era pur sempre quello che trasformava lo sperma in bambino, il maschio è passato metodicamente a opprimere la donna. Creò così la società patriarcale, in cui l’unico ad avere diritto al potere e ad esercitare il potere è l’uomo; privò la donna di ogni diritto civile, legale, e perfino umano; e, infine, rovesciò dagli altari l’idolo Madre Eterna, e vi mise al suo posto Dio Vero Padre Eterno.

Si tratta di una tesi indimostrabile: non si è ancora trovata in natura una società umana, fossile o meno, primitiva o meno, che costituisca una prova scientifica dell’esistenza di questa invidia… non la si è trovata, o non se ne è trovata una traccia, perché s’i è andati a cercarla ‘in civiltà remote, in tribù primitive, nelle mitologie: e invece ce l’avevamo sotto gli occhi, in quella sacca in cui il tempo non è passato e la civiltà non si è maturata, che è la Chiesa Cristiana Cattolica. Una società, cioè, che, essendo pura costruzione d’i uomini — per essere più precisi, di maschi — ha potuto corrispondere più esattamente, e corrisponde più esattamente, a sogni, desideri, fobie, ideali, ossessioni, di uomini – di maschi invidiosi della donna, secondo l’ipotesi femminista. Le coincidenze, in realtà, non sono poche. Innanzi tutto, si tratta di una società esclusivamente ed assolutamente maschile: per far parte della Chiesa — della gerarchia che ‘costituisce la Chiesa, e che nella Chiesa detiene il potere, cioè il sacerdozio — è, letteralmente, indispensabile avere un cazzo e due coglioni; solo che il diritto canonico lo dice in latino, e quindi la cosa non sembra così volgare come la diciamo qui ora noi.

La Chiesa Cristiana, però, concede un ruolo alle donne: un ruolo servile. La donna può, cioè, divenire suora e accudire agli infermi, o ai bambini, o alle caste sacerdotali. In altri termini, la società-Chiesa codifica da una parte l’autorità e il potere del maschio (sacerdote), e dall’altra la servitù e la mancanza di potere della donna (suora), dando a queste due opposte condizioni connotati religiosi e sacri di origine divina che rendono entrambe le condizioni assolutamente indiscutibili e immutabili. Si tratta, in effetti, di una distinzione puramente sessuale — di organi sessuali —; ed è questo ammantarsi di sacro e di divino che la rende infinitamente più insultante e mistificatoria. In secondo luogo, in questa società rigidamente sessuale che è la Chiesa, condizione fondamentale per appartenere alla società-Chiesa stessa è, oltre all’essere maschio, il non avere rapporti sessuali con la donna. La castità riguarda anche la suora, ma senza, però, che ciò le dia un potere all’interno della gerarchia, al contrario della castità del sacerdote. Letto in chiave dell’ipotesi femminista, siamo di fronte ad una invidia per la capacità creatrice del corpo femminile portata ad un parossismo tale, che si accentua l’essenziale contributo maschile alla generazione fino al punto, nevrotico e paranoico, di rifiutarlo. Colui che è consacrato a Dio aborrisce cioè il rapporto sessuale che rendendo feconda la donna le restituirebbe la «miracolosità», la «qualità divina» del creare la vita. Sacerdozio e castità sono quindi intimamente connessi, legati a doppio filo al punto che oggi la Chiesa Cattolica sente vacillare le proprie fondamenta al discorso del matrimonio del sacerdote: inutile portare l’esempio dei sacerdoti sposati delle varie cristianità protestanti; si tratta di un argomento in cui non c’entra ‘né la ragione né la logica, ma un terribile nodo di deformazioni e di distorsioni ancestrali, di un rapporto di odio e di vendetta irresolubile — e tutto ciò in una Chiesa, e in una religione, che si afferma fondata sull’amore. E come corollario e dimostrazione di questo odio, c’è appunto quella incongruente affermazione di «maternità» che la Chiesa dà di sé: il residuo della prima scoperta: «io sono il padre, io sono colui che rende la donna madre; ergo, io sono la madre». Un sillogismo che farebbe orripilare Aristotele, e di cui l’aristotelica Chiesa non ha mai visto l’assurdo. Il controllo dall’alto della attività sessuale dei singoli non si limita al sacerdote e alla suora: se per questi arriva alla negazione-proibizione, nei confronti di tutti gli altri prende la forma di una legislazione precisa, rigida, ricattatoria: la «morale cristiana»: è la Chiesa che stabilisce con chi, quando, e in che modo, può avvenire il rapporto sessuale. Ogni rapporto che non abbia il beneplacito, il visto, della Chiesa, viene marchiato con il termine di «peccato». È un ricatto che ha condizionato e condiziona le nostre vite, la nostra sessualità, la nostra libertà, la nostra felicità… e per «nostro» intendo di noi tutti, di noi umanità, di noi donne e di noi uomini. Se la Chiesa Cattolica avesse dedicato metà dell’attenzione, della tenacia, e della virulenza, che ha dedicato a battersi contro la pillola e i contraccettivi e la limitazione delle nascite per battersi invece contro le ingiustizie, le discriminazioni, e le guerre, vivremmo forse oggi in un mondo migliore. Ma da sempre per la Chiesa una coppia che si ama «nel peccato» semina più scandalo di un esercito che invade paesi indifesi e annienta intere popolazioni, specialmente quando queste popolazioni non sono di culto cattolico, e l’esercito invasore appartiene ad una nazione «cristiana». C’è, infine, un’altra strana coincidenza. Se è vera l’ipotesi che alla Dea Madre primordiale si sostituì, ad un certo punto, il Dio Padre e Creatore, nel Cattolicesimo possiamo vedere come questa Dea Madre scacciata dalla porta ritorna, in certo modo, dalla finestra: nella persona della Madonna, la nostra religione cristiana, sappiamo, deriva dalla religione giudaica; e sappiamo per questo, dalia Bibbia e dal Catechismo, che il Dio cristiano è Uno e Trino. Ora, nella pratica, di questo Dio Trino, espresso nelle tre persone del Padre, Figlio e Spirito Santo, il Cattolicesimo sembra essersi perso per via non solo lo Spirito Santo, che, come rispondendo alla sua natura di colombo, sembra essersi involato — di lui si parla solo nelle giaculatorie, non fa parte del culto —, ma anche il Padre: il Padre è divenuto una figura remota, alla cui esistenza ci si riferisce solo in relazione al figlio, Gesù Cristo. Ma la cosa strana è che questo figlio sembra essere, più che figlio della remota figura del Padre Eterno, figlio della Madonna. Nel Cattolicesimo, cioè, è andata via via accentuandosi l’importanza della madre del Cristo, al punto che nelle nostre chiese cattoliche noi non vediamo l’immagine (per definizione ignota) di Dio, o il simbolo di Dio; ma la madre con in braccio il bambino.

La Trinità giudaica si è persa nella notte dei tempi; al suo posto è sorta e vige la «Duità» cristiana. Una duità madre-figlio che sembra riportare nel culto l’antichissima venerazione per la funzione generatrice della donna…

Che sia però la Chiesa ad averla metodicamente e deliberatamente riportata sugli altari, sembrerebbe una strana contraddizione; o meglio, lo sembra fino a quando non ci mettiamo ad analizzare meglio la figura della Madre-Maria quale ci viene presentata dalla Chiesa; e allora possiamo vedere tutta l’astuzia e tutta la perfidia che è dietro questo recupero. Perché questa Madre che noi veneriamo, questa Madre di Dio-Cristo, è vergine.

Questa verginità non è, come potrebbe apparire ad una prima ingenua occhiata, una manifestazione del carattere divino del corpo femminile, della sua divina capacità di dare la vita che stupì tanto profondamente l’umanità primitiva al punto che, pur scoperto il contributo del maschio alla generazione, restarono il ricordo e l’adorazione dell’antico miracolo della nascita, che nella Bibbia prendono la forma di una nostalgia tradotta in profezia: «una vergine concepirà un figlio»; la verginità di Maria codificata in dogma dalla Chiesa è invece l’espressione di un concetto assolutamente opposto, è il sottolineare la fecondità divina del maschio —o meglio, se teniamo presente che la mentalità della Chiesa non è mistica, ma carnale, fisica, ed ossessionata dalla fisicità, — la fecondità sessuale del maschio. Maria è vergine per l’antica invidia del maschio, esasperata e trasformata in religione: il figlio nasce soltanto per merito del maschio, al punto tale che la donna, pur essendo divenuta madre, a riprova della sua nullità fisica di fronte al maschio, della sua totale e assoluta incapacità di generare se non attraverso e a causa del maschio, resta, pur essendo madre, quella che era: cioè, vergine. Cioè, eccetto che per il contributo del maschio, incapace di dare la vita. Ecco spiegato secondo la Chiesa, attraverso Maria, il «mistero della maternità»: il mistero della maternità è la paternità. E mettendo sugli altari Maria con il figlio e imponendo ai suoi maschi ia castità, la Chiesa non fa altro che ricordarci il sesso maschile: un sesso così straordinario da potere, se vuole, generare un figlio senza penetrare la donna che lo partorirà. Nella mitologia greca c’è un esempio molto simile a questo concetto «cristiano» del sesso maschile, nel mito della nascita di Venere: Zeus, per rivalità ammissibili fra dèi pagani, castrò il padre-dio Cronos; il pene di Cronos, tagliato, cadde nelle acque del mare Egeo, e dalla spuma di queste acque così fecondate nacque Venere Afrodite — incidentalmente, Dea greca dell’Amore. È un mito non tanto diverso dal mito elaborato dalla Chiesa della verginità della madre di Cristo: non si tratta infatti altro che dello stesso concetto della potenza del membro virile, capace di fecondare attraverso qualunque barriera, inarrestabile di fronte a qualunque difficoltà. L’unica, immensa, differenza è che, mentre dal pene di Cronos nasce la Dea dell’Amore, l’amore divino e carnale fra l’uomo e la donna, dallo Spirito Santo e dalla Vergine nasce la repressione sessuale, il concetto di peccato, la paura del sesso, il divieto di amarsi fisicamente, liberamente, felicemente, della religione cristiana cattolica.