casalinga
donna: servizio permanente effettivo
Io ho trentasette anni, aiuto mio marito al negozio di parrucchiere, lavoro in casa, ho due bambine che sono due gioielli, una di nove e una di sette anni… non lo dico per vanità o per presunzione, lo dico perché è vero. Mio marito mi vuole molto bene, lui senza di me non farebbe niente, e io lo stesso, senza di lui. Invece poi è successo che mi sono avvelenata. Ho preso le pasticche. Per spiegare come è andata devo proprio ricominciare dal principio.
Io ho trentasette anni, quando ne avevo sedici, mia madre, che era stata curata male per un brutto esaurimento nervoso, l’hanno ricoverata all’ospedale psichiatrico. Io sono rimasta sola, con un padre e una sorella più piccola da curare. Ho dovuto smettere la scuola. Così poi quando mia madre è uscita ho dovuto cercarmi un lavoro qualsiasi: manicure. E qui ho conosciuto mio marito. Siamo stati fidanzati tre anni, poi ci siamo sposati, poi dopo dieci anni di lavoro e di risparmi abbiamo messo questo negozio nostro. Una casa proprio nostra invece non l’abbiamo mai potuta avere, perché io ho dovuto sempre continuare ad occuparmi di mia madre, che proprio bene non è mai più stata… Poi mi è cominciata questa cosa, che mi mettevo a guardare la lavatrice che avevo riempito di panni sporchi, la mattina alle sei, prima di scendere qui in negozio, mi sedevo immobile davanti alla lavatrice, e cominciavo a piangere. Perché, non lo saprei dire. Al principio pensavo che era il dispiacere del bambino che mi era morto, quattro giorni dopo la nascita, al San Camillo, un po’ il dispiacere, un po’ l’emorragia, che uscita da lì mi sentivo inutile, ma forse è meglio che racconti questa storia del bambino a parte…
Ho avuto una gravidanza molto difficile, poi è nato questo figlio che veramente… era bello… L’ho visto, pesava quattro chili e due, piangeva; è venuto mio marito, mi ha abbracciato: «Stella mia, mi hai fatto un maschio, che ti devo dire?», e piangeva dalla contentezza. Però io questo bambino avevo come la sensazione che non me lo sentivo mio, un presentimento. Dopo la visita pediatrica vedo che portano giù tutti i bambini alle altre, e a me no. Chiedo, una infermiera mi dice: «Guardi signora non si preoccupi, non è niente di grave, ha inalato un po’ del suo liquido, nascendo, glielo facciamo spurgare e dopo glielo portiamo, domani, dopodomani al massimo». Infatti il giorno dopo me lo portano, e io l’attacco per allattarlo… Prima da una parte, e qui si è attaccato benissimo, aveva un succhio… quattro chili e due, non è uno scherzo, lo passo da quest’altra parte e comincia a piangere, diventa cianotico, nero, allora ho chiamato l’infermiera, me l’hanno preso, l’hanno riportato su, l’hanno messo sotto ossigeno, poi si è aggravato sempre più, di più. Abbiamo fatto venire dei professori di fuori, perché i medici di lì, del San Camillo, erano in sciopero… Non avevo avuto nessuna assistenza medica durante il parto. Avevamo chiesto una stanza a pagamento, ma non c’erano neanche per i casi gravi, per i cesarei, almeno così ci hanno detto, figuriamoci se la davano a me, una stanza, che non ero nessuno, non conoscevo nessuno…
Avevo le gambe gonfie che non mi reggevo e mi hanno fatto camminare da sola dalla sala travaglio alla sala parto.
Chiamavo l’ostetrica — medici non se ne vedevano — e quella mi rispondeva: «tanto lo devi fare tu, il figlio, mica io». Gli ho detto, quando ce l’ho fatta alla fine ad arrivare in sala parto, gli ho detto se mi aiutavano a salire su quel… su quel trono, diciamo, perché con quelle gambe da sola non ce la potevo fare. C’era l’ostetrica e c’erano altre due ragazzette che avranno avuto sì e no diciassette anni, e tutte si mettono a ridere e mi rispondono: «Ma come è possibile che non ce la fa, signora, ci sono donne di un quintale che riescono a salire da sole!». Tutto per non scomodarsi ad aiutarmi. Comunque sono salita e sono rimasta là, buona, calma, con gli ultimi dolori che non ce la facevo più. Ma non potevo strillare, non mi potevo lamentare, non potevo parlare nemmeno, e la cosa più terribile è stata che siccome no la placenta molto attaccata, che non si espelle facilmente, mi hanno dato i punti prima di farmi espellere la placenta: mi hanno dato i punti subito, perché perdevo molto sangue, e avevano molta paura, dato che non c’era nessun medico in vista, così prima mi hanno cucito, perché mi ero lacerata, e dopo mi hanno fatto uscire la placenta. Così i dolori del parto li ho provati due volte, per un figlio solo, che me l’hanno pure ammazzato loro. La seconda volta, per cacciare fuori la placenta, si sono messe in tre a pestare sopra la mia pancia.
E mi dicevano: «Guardi che se non riesce ad eliminarla qui dobbiamo farle fare il raschiamento». Io ho lasciato fare tutto quello che volevano loro, perché del raschiamento avevo paura.
Non so, una donna che partorisce ha bisogno di una parola di conforto, una mano stesa in quel momento, buona; invece no, ho trovato la massima indifferenza, e fossero uomini, che non sanno che è fare figli, invece purtroppo erano donne. L’unica persona buona che ho trovato là dentro era la donna delle pulizie: faceva le pulizie in uno stato, che le mancavano dieci giorni a partorire pure lei. E lavava i corridoi stesa ginocchioni per terra. È stata l’unica che mi ha dato una parola di conforto, che ha pianto insieme a me quando mi hanno comunicato che il bambino era morto. Per malformazione cardiaca congenita, dicono loro, ma io non ci ho mai creduto. Era bellissimo, era sano. Quando sono uscita le ho dato, alla donna delle pulizie, tutto il corredino e pure la culletta. Tanto avevo l’idea che ormai a me, uscendo da lì, non mi serviva più niente. E così è stato, Io dopo un mese pensavo di avere superato tutto, ma invece non è stato questo, non è stato tanto il dispiacere del bambino, è stato che ho cominciato a pensare a tante cose che non ci avevo mai pensato prima. Per questo mi è venuto l’esaurimento. Io per tre-quattro mesi, dopo che mi è successo il fatto della lavatrice, che mi sono seduta a guardarla e ho cominciato il pianto, per tre-quattro mesi sono andata avanti così, fino a che, a un certo punto, ho detto basta, io mi devo togliere di mezzo. E uria sera le ho prese. Però non mi hanno fatto niente queste pasticche: sono rimasta lì ferma inchiodata senza riuscire nemmeno ad addormentarmi. Quando l’ho detto a mio marito mi ha portato all’ospedale, mi hanno fatto la lavanda gastrica, poi non gli volevano permettere di portarmi via, mi volevano ricoverare alla neuro e lui ha dovuto firmare per la responsabilità. Dopo hanno cominciato le cure: iniezioni, endovenose che mi gonfiavano, cure ricostituenti, tranquillanti che mi incretinivano. Non riuscivo più a fare niente, né in casa né in negozio. Mi alzavo la mattina, mentre stavo dietro a fare il letto, mi ritrovavo con un bicchiere in mano e non sapevo perché l’avevo preso. Mi sentivo colpevole perché non “ero più all’altezza di affrontare il peso della famiglia, mio marito, niente… Spiavo le sigarette che lui fumava, gliele contavo in tasca, perché aveva ricominciato a fumare dopo la morte del bambino, ed ogni sigaretta sua era una coltellata per me, voleva dire che gli mancavo, come donna, come moglie, come tutto. Gli era mancato il figlio, gli mancavo io. Ogni sigaretta che si metteva in bocca era per me come se lo avessi visto andare con un’altra. Era diventata un’ossessione per me. Io mi ero ridotta che mi lavavo il vestito la sera per rimetterlo la mattina dopo, perché credevo di non avere più un vestito. Mio marito lo mandavo con la stessa camicia una settimana, cosa che non era mai successa in tredici anni di matrimonio. Mi ero chiusa come un riccio, stavo là, chiusa, che non piangevo, non parlavo con nessuno, ero completamente apatica. Quando finalmente mi hanno portata da questo professore, il direttore di Santa Maria della Pietà, lui ha capito che se avevo fatto quello che avevo fatto, non era per una delusione d’amore, come può farlo una bambina di quindici anni. Ha capito che soffrivo di una forte depressione nervosa e voleva ricoverarmi. Io l’ho supplicato di curarmi invece a casa e lui deve avere avuto pietà. Io in quel momento ho visto il manicomio, dove anche mia madre ci era passata, e da quel momento ho capito che dovevo tornare indietro. Così piano piano sono tornata indietro. Prima sei pasticche poi quattro poi tre poi niente. Ora sono guarita. Sono guarita, sì, e voglio vivere: voglio vivere ora, non quando avrò cinquant’anni, voglio vivere subito, e mio marito, che prima s’affliggeva perché ero così malata, oggi non mi capisce più, dice che sono più matta ora di prima. Ho fatto pulire casa, ho messo la carta nuova in corridoio, voglio vivere ora non quando avrò cinquant’anni che avrò messo i soldi da parte. Ma che vita ho fatto io, da quando avevo sedici anni a ora, che ho incontrato questo professore che mi ha guarita? Che vita ho fatto? Prima l’assistenza a mia madre malata, poi il matrimonio, le bambine, la casa, il negozio… Io comincio la giornata alle sei e mezza della mattina e finisco a mezzanotte la sera. Voglio ridere, voglio parlare, esplodo, cioè quello che penso lo dico, anche a lui, a mio marito, che non c’era abituato, prima mi tenevo tutto dentro, ma ora è finita. Gliel’ho detto anche a lui: è finita, perché io ho visto la morte cogli occhi, io, e se non parlo, crepo. Lui non mi ha mai vista così, io sono stata sempre un carattere dolce, docile, calma, silenziosa. Nel lato amore, amore sessuale, andiamo d’accordissimo, soltanto che lui vuole la donna-donna… Mi vuole in un certo modo e basta. Ma io non posso più essere così. Per sedici anni, da quando lo conosco, ci sono state due Laure. Una allegra, che gli piaceva scherzare, che cantava andando a fare la spesa, e l’altra, quella di quando c’era lui, musona, che non si notava, né per un vestito, né per una parola, niente… E mi vuole bene, però quante volte mi ha detto: tu non capisci niente. Prima, sorridevo e stavo zitta. Ora ‘sta parola mi fa impazzire. Non la sopporto, gli rispondo anche davanti alle clienti, cosa che mai prima. Lui del suo mestiere è vanitoso, perché è veramente bravo, faceva gli shampoo da quando aveva nove anni, con lo sgabellino sotto perché non ci arrivava… Però a me lui non mi ha mai permesso di fare una messa in piega. Mai. Mi ha dato la certezza che non sono capace, che non sarò mai capace di pettinare una cliente. Così. Ora io mi domando: devo fingere di essere come prima, per amore della pace familiare, o devo essere come mi sento oggi, che mi sono svegliata?
CORAGGIO LAURA, ESISTI
Che altro dire a Laura se non questo (e non è retorica) Non c’è ricetta per una donna che, come lei dice, si è svegliata, che ha capito l’emarginazione di cui soffre pur in circostanze apparentemente esemplari, quasi oleografiche, di felicità domestica: un buon marito, bel ragazzo innamorato, buon lavoratore, tutto casa e bottega, due bellissime bambine, una giornata faticosa, sì, ma nessuna preoccupazione economica.
Cosa dice invece questa testimonianza ad una lettura impietosa? Dice: nevrosi della casalinga («piangevo davanti alla lavatrice piena di panni sporchi»). Dice: come si partorisce in Italia («mi hanno fatto partorire due volte, una per il figlio, una per la placenta»). Dice: come le ostetriche, sulle quali si scaricano poi in concreto il peso e la responsabilità di intere corsie ospedaliere, smarriscano più di una volta il senso della solidarietà femminile, in cambio di un illusorio accesso al sia pure infimo gradino del trono su cui siede il potentato scientifico maschile, cioè professori, primari ecc.
Dice, infine, il dramma di una donna, che scopre, d’improvviso, che se parla, se ride, se grida, se, in una parola, esiste per conto proprio, rischia di perdere il marito, il compagno, «l’amore». Il quale, come è noto, vuole la donna-donna…