storie di editori
femminismo su misura
L’editore impegnato mi riceve nel suo studio «povero», la scrivania ricolma di scartoffie e cartellette, ammassate le une sulle altre, manoscritti in attesa di giudizio. Il mio gliel’ho consegnato qualche settimana fa e quella mattina vado da lui per parlarne. «Vedi» mi dice scorrendo con la mano sinistra le cartelle dattiloscritte che gli ho presentato per prova, «scrivi molto bene; mi piace anche l’idea delle Mille e una notte, quella Sheherazade che per sopravvivere all’ipocondria mandrillesca del suo sultano, afflitto da noia mortale, sempre in cerca di emozioni diverse, è costretta ad inventarsi una storia nuova ogni notte… sì, l’idea è divertente, il tuo femminismo, si sente, è radicale; ma rischiamo troppo. Così tu vuoi mettermi in crisi tutta la cultura, tutti gli scrittori, con la scusa che tutti hanno visto la donna come meglio piaceva loro e non com’è in realtà; ma chi si salva? Non me ne salvi proprio nessuno. E allora rischiamo troppo.» Mentre parla scuote la grossa testa e tra i riccioli bruni fitti fitti si infila, per grattarsi, una matita. «È un regalo di un mio amico, un compagno, francese. Bella vero?». Della matita ha solo la punta, per il resto è un paio di gambe di donna, dalla vita in giù, diritte, affusolate, con la riga nera delle calze che si allunga dalla coscia fin giù al tallone, che entra in una scarpa dal tacco a spillo. «È terribilmente, fantasticamente kitsch, non trovi?» «Sì», faccio io abbagliata dal rosa shocking di quel paio di gambe. «Vedi, — continua lui, giocherellando con l’aggeggio — io per femminismo intendo qualcosa di più concreto, per esempio la lotta di classe, la resistenza, l’antifascismo.
Per esempio ho in mente adesso un libro, un colosso, più di mille pagine, una specie di enciclopedia, sulle donne importanti, quelle che hanno fatto la storia, quelle che si sono espresse con grandi cose: passioni struggenti, donne che hanno lottato al fianco del loro uomo, che sono morte per il loro ideale. Ecco, questo è il femminismo che intendo io; donne coraggiose e non il vostro lamento che, anche se messo giù in chiave leggera, è sempre un po’ una lagna. E poi voi siete così visceralmente contro il maschio…». Cerco di spiegargli che non siamo affatto contro il maschio, ma contro il «maschile», cioè tutto quello che è definizione del maschile, contrapposta alla definizione del femminile, anch’essa prodotto di una mentalità maschile… Cortesemente l’editore impegnato mi congeda. Mi fa capire di tornare solo con qualcosa di più «politico», ma forse, penso io, voleva dire «partitico». Chissà perché il femminismo per loro non è un discorso politico. Eppure denunciamo il capitalismo, la società consumistica, la società borghese, la cultura borghese, siamo per un vero socialismo quale ancora non si è realizzato in nessun paese, nemmeno in Cina (a quanto sembra) ; forse perché diciamo che finora il socialismo è stato interpretato in modo riduttivo? Un fatto è vero. I compagni finora ci hanno accordato, ed è già tanto, la specificità: dopo un secolo e
più di lotte, le donne hanno ottenuto di vedere riconosciuta la specificità della questione femminile, di
non essere più criticate se tentano di analizzarla separatamente dai maschi. Ma se solo azzardiamo discutere il marxismo per come è stato finora inteso, se solo parliamo di valori diversi e diciamo che l’oppressione della donna non dipende soltanto dalla mancanza di autonomia economica e non è uguale all’oppressione dell’operaio, allora siamo apolitiche, borghesi, interclassiste, in definitiva eretiche (per non, dire fasciste).
Penso: forse un editore meno «impegnato», naturalmente democratico, va meglio. Mi riceve nel suo studio <al secondo piano di un edificio liberty nel centro di Milano. Un’aria sobria ed efficiente, un discreto ordine tenuto da una segretaria giovane e carina; sulla scrivania mi colpisce una lampada che subito accende ed orienta leggermente verso di me, non troppo, quel tanto per abbagliarmi solo un po’, come immagino facciano gli ispettori di polizia quando devono interrogare qualcuno. Nonostante la luce forte negli occhi riesco ugualmente a vedere appesi alle pareti dei quadri, alcuni di dimensioni addirittura gigantesche, come un incubo, a ripetizione, come un vagheggiamento proibito e ossessivo: su tutti, in guise diverse, a mo’ di asparagi che spuntano in un prato verde, a mo’ di serpentelli nella testa di Idra, di paracarri in fila, giganteschi, degli immensi falli. Uno poi, più grande e minaccioso degli altri è lì, in mezzo alle gambe di una bambina che sembra esservi caduta sopra per sbaglio, inciampando. «Vede, io le dissi che m’interessava un libro sul femminismo e non un trattato di politica femminista. Questo libro è troppo politico, troppo serioso, sembra quasi un manifesto. Per esempio, qui, dove lei parla della rivolta della donna, lei dice che la donna prende coscienza, parla delle sue oppressioni, cerca di individuarne le origini, i motivi, la divisione del lavoro, la società capitalistica, la struttura patriarcale della famiglia eccetera. Ecco, qui, perché non ci mette un bel po’ di oppressione sessuale. Sì, insomma, perché non parla della donna che non ha l’orgasmo perché è frigida, perché il maschio è violento. E la sua liberazione, se è una liberazione sessuale bisogna dirlo, bisogna descriverla, dire che le donne adesso possono fare all’amore con chi vogliono, quando vogliono, che possono essere esigenti come un maschio, anche loro vogliono la loro soddisfazione a letto. Adesso si deve dire che la donna liberata può fare finalmente tutto quello che fa l’uomo. E si possono fare degli esempi, con fatti veri, con testimonianze. Così com’è, questo libro proprio non va; troppo Marx, troppo Freud, troppo Marcuse. È noioso. Torni con una storia, una storia d’amore magari, di una donna liberata che schiavizza il proprio uomo, eh? …
Mi alzo, gli dò la mano pensando ad altro. Forse tutti quei falli mi hanno confusa.
Mentre torno a casa, decido di non proporre più libri per un po’. Stiamo a vedere, magari nel frattempo il discorso della liberazione delle donne matura, va avanti e forse allora… Decido per il momento di soprassedere. Forse ‘il giornale in questo momento è più attento alla condizione della donna, a quello che le donne stanno facendo in questo momento, il digiuno
per l’aborto, la battaglia per la contraccezione, il centro di salute per la donna. Sono cose d’attualità. Il giorno dopo le propongo al direttore del giornale femminile, con un’idea che mi sembra buona: un’inchiesta sulla sessualità femminile, descritta finalmente dalle stesse donne.
Mi sembra un discorso rivoluzionario. Il direttore mi guarda a lungo, mi lascia parlare a lungo e alla fine mi dice: «Ma cara, sempre le solite lagne, aborto, pillola, sessualità, troppa seriosità. Ma non ci sarebbe per caso un festival, qualcosa di divertente, una festa tra donne sole, magari una vacanza fra donne sole, un bel servizio fotografico su quelle che hanno bruciato il reggipetto; sono loro che hanno inventato la moda del monopezzo, no? Ecco, perché non facciamo un bel servizio fotografico sulla spiaggia della costa Azzurra: la donna liberata dal reggipetto!».