cinema
sussurri e grida
Che il film di Bergman abbia suscitato dissensi, entusiasmi e soprattutto allibimento, non meraviglia. Già nella hall delle uscite, il brusio era intenso come un dopo spettacolo teatrale. E di grande effetto spettacolare è infatti la scenografia con i suoi effetti-contrasto, dì rossi, dì bianchi, di intensi marroni, che insieme al contenuto drammatico miete le sue vittime predestinate.
Ma perché in questi anni ’70, una storia relegata nell’800 suscita partecipazione, approvazione e dinieghi? La musica di Chopin e la suadente cornice del secolo scorso, ci indicano che ci muoviamo nel baricentro borghese di una storia trapassata. Ma il contenuto al contrario è strettamente attuale, tanto presente da coinvolgere emotivamente o razionalmente lo spettatore. Perché allora Bergman, che ci parla di temi decisamente contemporanei, di problemi scottanti in cui ci si sta dibattendo, ha ceduto alla necessità di ambientare SUSSURRI E GRIDA in un «tempo passato»? Ce lo suggerisce lui stesso — e non certo apertamente — lungo l’arco del film, dove attraverso dolorose e aggrovigliate situazioni individuali, sottilmente recupera quella vecchia dimensione dell’eterno femminino (la sola parola ci dà fastidio), tanto scontata e superata quanto cara al revisionismo ideologico, culturale, di costume, che è in atto.
La storia di queste «sorelle» — il rapporto riguarda persone legate da un affetto di clan — delle quali una muore di cancro, l’altra effettua un’auto-castrazione feroce e ragionata, mentre la terza con un cinismo di stampo decisamente androgino si remunera a modo suo, arrivando a strumentalizzare anche il difficile rapporto con la sorella (che tocca il suo vertice nel fitto dialogo muto, dove solo la musica dà l’intensità della fusione raggiunta) e che finisce per smascherarsi poi, in una ostentata conclusiva indifferenza. La storia di queste donne dunque, non è che l’analisi sociologica e amara di quella alienazione storica femminile che ci appartiene. Nel condividere il potere costituito: (il subirlo è già un altro discorso) le sue leggi, le sue norme, ì cerimoniali, i costumi, una sorda aridità è il prezzo di una cessione dì valori in cambio di frammenti necrologici di vita.
Se Karin uccide il suo sesso in modo altrettanto mostruoso del giorno del suo matrimonio — suicidio sociale e individuale — soffocando la propria sessualità e cedendo la sua identità reale e umana alle vessazioni psichiche e fisiche, si tratta di un fenomeno da non relegare in una storia del secolo scorso, ma da avvertire come un fatto presente. Se Maria si butta in esperienze gratuite quanto frustranti, in rivendicazioni tanto distorte come sono distorte le ragioni che ce l’hanno portata, questo è all’ordine del giorno e riguarda il nostro sistema sociale, senza il bisogno di scomodare la storia comportamentale di 100 anni fa. g Agnese, l’altra sorella che non ha condiviso la morte bell’anima e muore di cancro, va meglio datata nella sua breve vita tesa verso la semplicità e la perfezione, costruita da gioie interiori fatte di presenze, di voci, di immagini pure, che le permettono di conservare fino alla fine tutti miei valori che ci vengono indicati da Bergman come uni-persali e essenziali. Questo è un discorso alla Bergman, che arriva fino alla resurrezione metaforica, che per altro a molti è parso doveroso criticare e relegare in un sogno, mentre non c’è che Bergman e il suo nord: un nord laico e religioso.
A questo punto tra angoscia e realtà, la figura remissiva e quasi trasfigurata di Anna-nutrice, o meglio l’Alma-Mater che pianse ed amò per tutte, è l’approdo à cui giunge Bergman
L’eterno femminino dove l’amore è pietà, carità, disinteresse e cioè abnegazione, è qui recuperato e rispolverato a dovere: ad uso di chi?
Le immagini di profonda coinvolgente nostalgia che ci vengono incontro, quando nel letto dì addio, la vita che muore si rifugia e si quieta nell’ansa calda e feconda, sono nella loro viscerale bellezza la conferma del credo di Bergman.
Così la scultorea e cioè eterna, composizione della Pietà, dove la Nutrice e Agnese, la figlia degli uomini, compongono la pietrificazione del dolore, ci danno chiaramente la misura della rivalutazione della donna che «assolve». Una entità passiva e ricettiva che tutto comprende senza discriminazioni.
Se quindi Bergman ha rivolto la sua accusa erosiva — e non è il primo — alla società in cui viviamo, fatta dagli uomini a loro immagine e somiglianza e ne ha sottolineato le distorsioni e le violenze sociali, non ha colto al contrario la realtà della donna. È sceso a patti con l’epoca, cioè con la storia, ha rinviato retrodatandolo il processo che urge: e ha relegato così il soggetto-donna, in una sfera intimista, concedendole come unica scelta — o alternativa — una dimensione sepolta e scontata di passate esperienze. L’eterno-femminino, appartiene infatti ai nostri padri — ai nostri nonni — non certo a noi.
Alessandra Mann
Le donne «di» Bergman
Ingmar Bergman è uno di quegli artisti che si identificano con la realtà immergendosi in essa come un pesce, bevendo tutti i suoi umori a costo di soffocare, facendosi plasmare dalle sue correnti, mangiando la sua vegetazione, adeguandosi insomma in tutto all’altro da sé, con il rischio della alienazione.
In questo senso è uno dei pochi autori di cinema che abbiano saputo parlare delle donne in maniera non convenzionale, proprio perché non le ha mai volute vedere come oggetti sconosciuti e incomprensibili, ma si è identificato spasmodicamente con loro, piangendo dei loro dolori e ridendo delle loro gioie.
Penso al Posto delle Fragole, a Luci d’inverno, a Persona, a Silenzio, e a quest’ultimo Sussurri e grida, tutti film in cui la donna appare né esaltata né disprezzata, ma osservata con quel senso del mistero che hanno gli autori quando parlano di se stessi. Per questo non si può dire come è «la donna di Bergman». Ogni personaggio femminile è una donna diversa, j&n il suo carattere, le sue stranezze, i suoi difetti, le sue”angosce, “on so se Bergman sia stato in gioventù lettore appassionato di Ibsen. Le donne dei suoi film assomigliano alle donne del drammaturgo norvegese. Non solo per quel tanto di borghese che hanno i personaggi dell’uno e dell’altro, ma per l’atteggiamento di fiducia e di ritrosia con cui queste donne sono spinte a parlare di sé. Un atteggiamento molto diverso dal paternalistico distacco di certi autori che vedono le cose dall’alto. È l’atteggiamento di chi parla in prima persona, di chi non sa bene cosa andrà a scoprire perché l’identificazione è aperta e tutto continua a mutare e a trasformarsi fra le mani, inaspettatamente. C’è qualcosa di vorace e sfiancante in questi lunghi atti d’amore a cui Bergman si sottopone nei riguardi dei suoi personaggi femminili. Si sente che vorrebbe divorarli e nello stesso tempo vorrebbe perdersi in loro e scomparire. Non per niente la sua arte finisce col mescolarsi alla sua vita privata. Come se i film continuassero sulla pelle delle sue attrici, di cui si invaghisce, e poi le sposa e poi le ripudia dolcemente appena un altro personaggio arriva a riempire la sua fantasia. Il risultato è che le donne nelle sue opere parlano in prima persona perché sono loro che conducono per mano la sua immaginazione e non lui la loro. Lo si è accusato di essere un autore borghese perché si occupa solo di personaggi della borghesia. Ma questo può anche essere considerato un atto di umiltà artigiana. È come se dicesse: io sono un borghese, conosco questa realtà qui e solo di questa posso parlare.
Non c’è niente di limitativo a parlare della borghesia, purché non si dimentichino le sue caratteristiche di classe privilegiata. Bergman si muove nel mondo della borghesia, ma mantiene sempre un acuto senso dei rapporti sociali. La sua sensibilità appassionata e cieca affonda le radici nella consapevolezza critica e culturale. Se la sua fosse una sensibilità solo ricettiva, come la pellicola fotografica, il risultato stilistico sarebbe il naturalismo. E sebbene certe volte si possa dire che Bergman attinga al naturalismo, non si può dire che sia un naturalista.
Sensibilità e giudizio politico sono sempre in posizione di armonico scambio e la sua rappresentazione è naturale e artificiale, metafisica e realistica nello stesso tempo. In «Sussurri e grida» per esempio l’attenzione è accentrata su tre donne borghesi. Ma la presenza della cameriera popolana condiziona e determina i rapporti fra queste tre donne. Se non ci fosse lei non capiremmo fino a che punto le tre donne sono vittime ma anche carnefici, vittime in quanto donne e carnefici in quanto padrone. Si può quasi dire che nel film alla fine c’è un suggerimento femminista: donne borghesi, prendete coscienza della vostra contraddizione. Voi non partecipate al vero potere sociale. Siete delle serve, più ricche, ma siete sempre delle serve. Non rinnegate il vostro stato di oppressione per mettervi dalla parte dei padroni. Non tradite la solidarietà con le altre donne per un poco di benessere. L’autonomia e la libertà non hanno prezzo.
Dacia Maraini