dov’è andata la parola?

Una breve analisi del linguaggio femminista ci fa riflettere su: «Il corpo per essere corpo deve essere animato da: ragione/desideri/trasporti/consapevolezza/linguaggio».

gennaio 1979

passata l’estate mi ritrovo ancora con gli stessi problemi: con questo articolo proseguo l’analisi del «linguaggio femminista», ormai assillante proponimento, dal quale credo di non uscire più. Nel frattempo non ho ancora chiaro come debba essere un articolo perché non cada in banalità, in contraddizioni, in stereotipi. Tento, tento di spiegarmi perché esiste un linguaggio femminista ormai codificato, pubblicizzato e reso banale, in quanto i significati delle parole slittano, perdono di senso, per ragioni esterne ed interne. Le ragioni esterne ormai le conosciamo, a partire dai mass-media, dalla pubblicità in genere, arriviamo all’ala più estrema dell’estrema sinistra che ci ruba parole, modi di dire e fa proprie tanto le sensazioni di emarginazione, quanto i temi su cui ci battiamo da anni per una nostra liberazione (vedi sessualità etc). Sono le ragioni interne che non affrontiamo mai, sono i tabù che ci creiamo nell’essere femministe, mai ci diciamo che siamo stufe delle stesse cose, anche se nell’aria si respira voglia di cambiare. Analizzo il linguaggio femminista perché sono convinta che sia uno dei nodi principali della matassa che vogliamo sciogliere per renderci conto del punto a cui siamo arrivate.

Il femminismo ha proposto un lessico, una terminologia, una sintassi che si sono duramente scontrate con il vecchio modo di parlare, puritano, banale e salottiero; il linguaggio femminista ha rotto con le banalità, ma si è banalizzato esso stesso. È su questo che dobbiamo riflettere. Rileggo un articolo pubblicato su Effe nel Sett/Ott. 1976, mi aveva particolarmente impressionato.

“Capire che il nostro corpo nella sua interezza (un corpo vivo, quindi animato da ragione, desideri, trasporti, consapevolezza, linguaggio) può essere fonte di piacere; che nella sua interezza deve essere
coinvolto nel rapporto con un uomo, significa porre una grossa domanda, una rivendicazione esplosiva. Stare insieme senza ansia, uscire dalla dimensione strettamente genitale, lasciare veramente emergere le nostre pulsioni, viverle con consapevolezza, non essere estraniate nei rapporti sessuali, vivere quello che abbiamo definito una «sessualità diffusa», che da tempi e forme di espressione diversi da quelli del semplice coito, che significa gioco ed espansione della nostra autonomia di persone, vuol dire cominciare a rovesciare (a partire dal letto o dal prato) una logica che è la logica dominante del sistema…

Collettivo di autocoscienza del

martedì-Luglio 1974

collettivo femminista genovese”

 

L’articolo continua, sempre sullo stesso tono: affermativo, entusiasta della ricerca di sé. Questo sé femminile esplode nel linguaggio, nell’uso di certi termini piuttosto che altri, nel susseguirsi di parole

mai scritte prima: un fiume di parole piene di chiarezza e di energia tanto da trapassare il testo e divenire una pluralità di sensazioni e di correnti: la vita che il testo è.

Guardiamo dall’esterno questo susseguirsi di frasi, cerchiamo di capirne la novità, la rottura. Siamo nel 1974. Si parla di capire; capire cosa? l’interezza di un corpo. Ma il nostro corpo è tabù volerne capire l’interezza, la solidità, l’unità, significa non rispettare un divieto, ribellarsi a un ordine.

Il corpo per essere corpo deve essere animato da: ragione/desideri/trasporti/consapevolezza/linguaggio. Con questo corpo si potrà ottenere un rapporto senza ansia, non incentrato sui genitali, ma teso a soddisfare una «sessualità diffusa» E con questo possiamo dire di aver veramente rovesciato quei valori che facevano del corpo femminile una porcellana vivente. Si può dire che questo linguaggio è un gergo? Se è vero che il gergo è immaginazione, la risposta è affermativa, il linguaggio delle compagne di Genova è talmente vero da uscire da ogni tipo di classificazione. E con «vero» intendiamo l’individuazione di un problema che parta veramente dalla propria esperienza personale. Non è scrittura stereotipata, è scrittura dalla quale esce un io nella sua interezza e si pluralizza nei desideri, nei trasporti, nelle consapevolezze. Gergo come immaginazione, linguaggio profondo dell’io che si assume il diritto di uscire, di stamparsi, di immortalarsi.

Ciò che conferisce a questo linguaggio dell’immaginazione il carattere di diverso è il suo non fare proprie le categorie di «chiarezza» correnti. Si fa uscire il proprio sé e non lo si indirizza su un terreno di regole conosciute, ma lo si lascia proliferare su carta bianca finché c’è voglia. Non si parla del corpo femminile come un contenitore di valori casalinghi o ambizioni quotidiane. Che donna sarà mai quella che cerca la propria «sessualità diffusa» invece di un sano conformismo sessuale? Visto dall’esterno il linguaggio femminista è un gergo, un terreno impraticabile per chi non ne condivide i termini, uh ostacolo alla comprensione e al dialogo, è la forma dell’autonomia, la costruzione di un gruppo a sé che chiude col resto del mondo.

È una strategia politica che creando il proprio linguaggio crea il proprio mondo. Costruire un mondo attraverso il linguaggio significa innanzitutto riconoscersi attraverso le sole parole usate. Il mondo/linguaggio femminista si popola di corpi liberi, di sessualità diffusa, di omosessualità, di violenza, di aggressività, di viversi bene o viversi male. Nasce una terminologia che all’interno crea una possibilità di parlare liberamente dei problemi più veri, all’esterno sconvolge e non comunica. Ma come tutti i linguaggi/mondi troppo chiusi, l’autosufficienza diventa una prigione e si perde il senso della realtà. In breve tempo le parole che vivevano, scoppiavano nel testo, diventano un puro susseguirsi di lettere alfabetiche, prive di entusiasmo e di forza combattiva, parole mute, ridicoli stereotipi che non si decidono mai a morire. E tutto questo perché il nostro linguaggio. profondo non ha più avuto spinta e noi abbiamo ripetuto fino all’ossesso le sole parole rimaste in aria.

L’analisi del linguaggio femminista è l’analisi del mondo femminista e viceversa; è importante sapere che un linguaggio ha sempre la vocazione di porsi come definitivo, come l’unica realtà, accorgersi di questo, non solo intuirlo, ma verificarlo, significa automaticamente mettersi in crisi, nella migliore delle ipotesi ricostruirsi. All’interno del linguaggio definitivo diventa quasi ‘obbligatorio viversi (bene o male), sentirsi, parlare della propria sessualità, privilegiare l’orgasmo clitorideo, rapportarsi sempre alle donne, scoprire in tutto la violenza del maschio, del sistema. In questa gabbia le azioni, le parole, perdono il loro significato profondo, l’io si desemantizza, diventiamo tutte delle persone vuote, portatrici coatte di un linguaggio stereotipato. Ma è questo

stesso linguaggio che ci garantisce all’interno di un gruppo: stereotipizzando ogni spinta comunicativa ci aiuta a creare una grande famiglia in cui per star bene, si paga il prezzo della propria originalità. Linguaggio piatto come è piatto il mondo a porte chiuse in cui siamo. Davanti a questo mondo/linguaggio piatto ci sono bandiere con su scritte frasi affermative, grida di vittoria, oppure tristi commiserazioni, c’è uno specchio opaco, dove le nostre immagini si stringono sempre più perché è vero, siamo tante e continuiamo a parlare di solidarietà femminile senza confessarci che è solo un’astrazione. Che cosa è successo? Siamo parlate dalle nostre parole, svuotando tutto del senso profondo, della forza combattiva, ci lasciamo guidare dalle nostre immagini riflesse e perdiamo il senso di ciò che ci eravamo proposte di fare; ci neghiamo che accanto al nostro mondo/linguaggio esistono altre possibilità di mondi/linguaggi diversi, che vogliono esplodere a loro volta.
Nel nostro piccolo abbiamo Ormai creato una legge, quella che era una ribellione adesso è la norma. E ogni legge ha le sue regole. Regole appunto che bisogna andare a conoscere in profondità, buttandoci
a capofitto dentro questo mondo/linguaggio con i mezzi che siamo capaci di usare e su una materia che non sia memoria o «sentito dire», ma che invece sia immortalata: la carta stampata, gli articoli scritti, le testimonianze; quel fiume di parole che non si è perso nell’aria, ma diventa materia di analisi e di studio per fare il punto della situazione.

non siamo cattive

Strix risponde all’articolo pubblicato nello scorso numero di “Effe”

Cara fiamma, trovi più vicine alle realtà le nostre caricature della pagina dell’editoriale che tutto il resto del giornalino. Dicono molto più di noi; il resto parla della Donna, è realismo così poco vero, irritante buio viottolo femminile ripercorso ancora. Il dolore non è così monolitico, è multiforme e intrecciato, suggerisci. Accidenti, come abbiamo potuto cadere nel finalismo del femminile, identificando il nostro soffrire con la Sofferenza? Hai ragione; anche noi pensiamo che la cultura femminista ha prodotto poco teatro, poca letteratura; si è castrata in rigido, didascalico pedagogismo. E i sogni di ironia, di colore, di partecipazione? Già. Ma perché credi che le caricature siamo noi e le nostre storie no? Credi che abbiamo confezionato prodotti su Realtà Sofferte non da noi ma dalla Donna, Certo, potevamo essere più carine; anche le nostre madri ce l’hanno detto. «Che decadenza!» ha esclamato una «non farete mica altre porcherie, guarda invece quella francese lì, com’è divertente!» ha osservato un’altra mamma, quando ha saputo che preparavamo un altro numero. Ahi, Fiamma, di troppe cose dovremmo dire. «Soltanto la vita vera» ci dici «è capace di spaccare». E allora, dato che tutte le storie disegnate nel primo numero di Strix sono vere (non puoi dire che siano disegnate o proposte con realismo), ecco cosa ci proponi: beh, quella realtà lì lasciatela stare, raccontare invece del vostro vivere diverso, ironico e mordace. Questo sì che ci ricorda qualcosa! Quello che ha prodotto l’innocuo fiorellino, la ghirlanda, la cornicetta femminista (abbiamo una nostra cultura o solo facciamo folklore? È ancora il dubbio inculcato di qualcuna). Proprio questa schizofrenia nuova, il donna è bello comunque, l’io sono mia («e tiettete!» ha risposto il solito cazzetto sardonico) e la censura su tutto il resto che è stato il momento ancora privato e parcellizzato delle nostre follie, contrapposto all’incontro femminista con lancio in alto (Claire, tu sì che l’hai descritto bene) e gioia-gioia. Ma dove siete finite, care sorelle ipercritiche che ci chiedete l’ironia? Lontano dalle angoscie della Donna, possibilmente, (Dio, non fatemi leggere più libri di donne, please) salve in qualche arca di elette, nello sfaccettato mondo della struttura familiare (il «beh, intanto accetto la contraddizione della maternità»). Dove? Con il maschio dalla faccia non omologabile? E le altre, chiuse nella riscoperta del sesso tra donne, che ci rispondono dai ghetti nicchiando? perché proprio noi dobbiamo avere l’investitura dell’Ironia Risolvente il Tutto? Ma perché ce la date voi, naturalmente! Grazie, cercheremo di fare del nostro meglio.