morto il referendum viva il referendum

Se papa Wojtyla e Benelli ci attaccano i radicali non sono da meno. La proposta di referendum da loro presentata, che intende abrogare quasi tutti gli articoli della legge, in realtà a chi giova?

gennaio 1979

il 4 gennaio, 22 privati cittadini, tutti membri del Partito radicale, ivi compresi i quattro deputati in carica (non chiedeteci quali, dato che — con questo gioco degli avvicendamenti — il gruppo radicale alla Camera è ormai più una nebulosa che un gruppo), hanno avviato presso la Corte di Cassazione la procedura di raccolta delle 500.000 firme necessarie per indire un nuovo referendum: un referendum per l’abrogazione totale o parziale di 14 dei 22 articoli della legge 194, cioè della legge sulla tutela della maternità e l’interruzione della gravidanza. In particolare si chiede l’abrogazione di quasi tutta la legge tranne l’art. 3, che prevede la copertura finanziaria, il 9 sull’obiezione di coscienza, il 10 sull’assistenza mutualistica, il 15 sull’aggiornamento del personale sanitario, il 16, che prevede una relazione annuale del Ministro della Sanità, e infine il 17 e il 18 che prevedono pene per chi cagiona per colpa l’interruzione di gravidanza o l’interruzione di gravidanza a donna non consenziente. Della legge 194 resterebbe in pratica solo il principio che l’aborto non è reato.

Durante la conferenza stampa per presentare questa loro iniziativa non sono mancati i temi polemici nei confronti del movimento femminista. Adele Faccio ha affermato che i radicali sono stati traditi dal movimento delle donne (sic), e la Aglietta ha ribadito: chi è il movimento? Le cinquecento donne che si attribuiscono questa definizione, oppure le migliaia di donne che firmeranno la nostra richiesta di referendum? Sul numero delle femministe, militanti, la Aglietta certo ha sbagliato il calcolo. E ha sbagliato anche quello delle donne che firmeranno la richiesta di referendum, perché non ha tenuto conto del milione di firme raccolte dai clericali del «Movimento per la vita».

A noi, la legge 194 non è certo piaciuta (basti ricordare le disposizioni equivoche sull’obiezione di coscienza, e quelle che vietano alla minorenne di decidere da sola se abortire). Non siamo state tra quelle che l’hanno difesa a spada tratta pensando che fosse la panacea a tutti i mali dell’aborto clandestino. Eravamo e siamo perfettamente conscie dei suoi limiti. Ma, al punto in cui si era, una cattiva legge era meglio di nessuna legge. E gran parte del movimento, una volta che la 194 era stata approvata dal Parlamento, ha preso un atteggiamento prammatico, dandosi da fare perché venisse applicata, e mostrandone al tempo stesso tutte le incongruenze, per poter giungere e una modifica degli articoli negativi o per lo meno ambigui. E si può a buona ragione affermare che questa mobilitazione per applicare la legge non è stata inutile, che quelle poche occasioni in cui la 194 ha funzionato, è stato per la mobilitazione delle donne: dall’ospedale S. Anna di Torino a Campobasso, da Foligno a Udine, da Matera a Bari. In tutti questi casi, le femministe, a volte sole, a volte con le donne delI’UDI, hanno ottenuto ‘ che obiettori, già noti abortisti, ritirassero l’obiezione, che le procedure burocratiche venissero accelerate, che le donne avessero un trattamento umano, che i «cucchiai d’oro» venissero smascherati. Ma dell’impegno delle femministe e di tutte le donne per l’applicazione della 194 c’è ancora grande bisogno. I dati forniti dal Ministero della Sanità dimostrano chiaramente che gli aborti «legali» (27.000, nei primi quattro mesi di applicazione delle legge) non coprono che una decima parte della domanda.

La grande maggioranza delle donne continua ad abortire clandestinamente; e a morire. Ciò significa — indubbiamente — che la legge non funziona come dovrebbe. Ma non la si migliora certo abrogandola e dando spazio alla speculazione delle cliniche private come inevitabilmente risulterebbe se l’iniziativa radicale riuscisse.

Il Partito radicale, Pannella in testa (quanto si era arrabbiato quattro anni fa, quando Effe lo aveva definito la mosca cocchiera del femminismo!) questa volta si sbaglia. Con la loro iniziativa essi non «danno alle donne uno strumento per recuperare e riappropriarsi della lotta per l’aborto libero, e gratuito» — come hanno affermato nella conferenza stampa —. Le donne decidono autonomamente quando e come scendere in lotta. Sono finiti i momenti delle azioni plateali. Il femminismo non sta però subendo un processo di riflusso, come dà più parti si vorrebbe far credere, ma ripensamento e di riorganizzazione su basi diverse.

Ai radicali vorremmo ricordare che nel ’74, quando le donne sono scese con loro in piazza per difendere la legge sul divorzio, ne conoscevano benissimo i limiti, sapevano che a subirne le conseguenze peggiori per molti anni sarebbero stati i soggetti più deboli della coppia, cioè, le donne —, ma hanno difeso ugualmente la legge, sperando in, successive modifiche, che poi in minima parte si sono avute. Oggi molte di noi non firmeranno per questa richiesta di referendum, che in un momento come questo genera solo smarrimento e confusione, e inasprisce ancora di più una lotta già di per sé molto dura.