un figlio per…
Un figlio per sentire di avere un corpo, per ritrovare uno spazio di tenerezza, di affettività pura, un figlio per rispecchiarci, per essere di nuovo piccole. Un desiderio subito negato.
La soluzione c’è.
il 2 e il 3 dicembre si è tenuta a Roma al Governo Vecchio la prima riunione nazionale sulla maternità organizzata dal gruppo per il parto dell’Erba Voglio e dal collettivo sul parto di Roma che ha curato l’edizione italiana del libro «Riprendiamoci il parto» di Raven Lang e «Prenatal Yoga e altre tecniche di preparazione al parto» che sta per uscire nelle librerie.
Il problema della maternità comincia a emergere nel movimento femminista dopo l’ultima vera manifestazione per l’aborto libero, il 3 aprile 1976. Quella del 10 giugno 1977 è solo un colpo di coda automatico di un movimento ormai dilaniato dalle polemiche sui disegni di legge presentati in Parlamento e in cui si estende un senso di estraneità e disinteresse. Si formano i primi gruppi di autocoscienza soprattutto per iniziativa delle femministe che si ritrovano ad aspettare un figlio, magari con gioia, dopo anni di teorizzazioni contrarie. C’è quindi l’esigenza di affrontare insieme ad altre donne la gravidanza e il parto e anche di difendere questa scelta di fronte a quella che era diventata una nuova etica: le femministe non fanno figli.
I numeri di Effe del gennaio e del marzo 1977 riportano le diverse posizioni rispetto a questa nuova esigenza di maternità delle compagne.
In questi due anni i piccoli gruppi hanno lavorato quasi in clandestinità e finalmente è arrivato questo primo confronto nazionale.
Sono stati due giorni pieni di tensione emotiva in cui non ci sono stati interventi inutili». Hanno portato la loro esperienza non solo le madri, ma anche le altre donne con molta voglia di capirsi e di capire.
Il primo giorno si è discusso soprattutto della gravidanza e del parto e ci sono state le testimonianze delle donne che hanno partorito. Forse del tutto casualmente si sono confrontate l’esperienza drammatica di una compagna che nelle strutture sanitarie ha avuto la figlia lesionata per l’incompetenza del medico e quella invece positiva di donne che hanno partorito in casa. Le donne ricominciano a partorire in casa; se questa è la nostra nuova strada è ancora da discutere e approfondire esaminando anche la situazione sanitaria in cui ognuna di noi vive, per esempio l’esistenza di strutture territoriali disponibili ad ogni eventuale assistenza. È innegabile comunque la spinta a non considerare più la gravidanza e il parto come malattia, ma come fatti del nostro corpo che non esigono necessariamente l’ospedalizzazione.
Il secondo giorno, all’inizio si è parlato soprattutto dei nostri figli e della loro diversità. Vorremmo che non fossero condizionati, schiacciati dalla società, ma anche che non si sentissero diversi, soffrendone. Questa società è violenta nei confronti dei bambini perché non li riconosce come persone. Noi vogliamo difenderli, ma come? Le esperienze raccontate sono state varie e contraddittorie; o creare intorno a loro un ambiente sufficientemente omogeneo che possa contrastare il peso schiacciante dell’«esterno» (nonni, scuola, chiesa, TV) oppure lasciare che affrontino la realtà così com’è esprimendo però sempre la nostra posizione oppure ancora non pensare di poter decidere tutto per loro. La preoccupazione in molte era quella di non essere ideologiche, di non far pagare ai figli le scelte che volta per volta ci sentiamo di fare, di non riproporre schemi rigidi di comportamento in nome del loro bene come i nostri genitori hanno fatto con noi. Per altre invece non offrire continuamente ai figli dei controvalori significa abbandonarli alla logica distruttiva della nostra società. Anche su questo spinosissimo problema non ci sono state giustamente risposte. Noi pensiamo però che molto spesso spostiamo sui figli problemi che invece sono nostri e che dietro alla voglia di difenderli dai falsi valori ci sia la voglia di difendere noi stesse, che dietro alla paura che si sentano diversi ci sia la paura della nostra diversità. Cerchiamo di capire qual’è il nostro rapporto con questa società. Pensiamo veramente di essere il sale della terra, le uniche depositarie della giusta via? Affermare che i bambini vanno difesi perché altrimenti sarebbero travolti da forze distruttive da cui non sanno ancora difendersi non significa espropriarli della loro esperienza? È proprio vero che Furia lascia una traccia indelebile negativa sui nostri figli? Quanto vogliamo da loro che non chiediamo a noi, oppure siamo sempre così rigide anche con noi stesse? Quante di noi non hanno mai letto un libro giallo o visto un film non impegnato? A meno che non vogliamo sostenere che noi siamo impermeabili a questi messaggi. Questa non può essere la strada per la formazione dello spirito critico perché nonostante le intenzioni in realtà restringe il campo dell’esperienza come è il maneggio per i cavalli rispetto a uno spazio aperto. Forse vogliamo figli di solo cervello perché noi siamo abituate ad avere esperienza solo con quello. Una maggiore sicurezza in noi stesse, in quello che siamo e che pensiamo, l’esistenza di spazi nostri vissuti senza troppi sensi di colpa, un rapporto con i figli meno ombelicale, considerandoli come persone capaci anche di dare oltre che di ricevere, ci renderebbe meno ansiosa e più tolleranti. Insomma, anche i bambini hanno diritto ai loro errori (ma poi lo sono davvero?) e noi il diritto di non sentirci sempre responsabili di tutta la loro vita. Certo raggiungere questo equilibrio è molto difficile perché è troppo legato alla precarietà continua della nostra identità, alle condizioni materiali sempre pressanti, al nostro rapporto con la vita e la maternità.
Infatti proprio quando si è parlato di «noi e la maternità» sono uscite le cose più interessanti.
Una donna ha detto che il desiderio di essere madre riguarda la parte oscura che è dentro di noi: un figlio come nostra unica identità sociale, come mezzo per legare l’uomo, come garanzia affettiva stabile, tutta nostra, che nessuno ci può togliere, un figlio per sentire di avere un corpo, per ritrovare uno spazio di tenerezza, di affettività pura, un figlio per rispecchiarci, per essere di nuovo piccole, un figlio per ritornare a una dimensione privata, dopo le delusioni della politica e dei rapporti fra donne.
Ma si può avere la voglia e subito negarsela, perché fare un figlio oggi facilmente significa abbandonare la propria realizzazione, perché non è giusto far nascere qualcuno in questo mondo così duro, perché è una strumentalizzazione di un altro essere umano per i propri bisogni, perché non è possibile instaurare un rapporto paritario, perché le difficoltà oggettive ci rendono più dipendenti dai nostri genitori, perché un figlio «fa» famiglia, una donna e un uomo soltanto una coppia.
Tutte queste motivazioni sono vere nella loro parzialità e molto spesso coesistono in una stessa donna. È stato importante averle espresse e messe in comune. La soluzione non c’è. Esiste solo una ricerca individuale e collettiva di chiarimento dei propri bisogni, cercando di capire quali prezzi paghiamo decidendo di avere o non avere un figlio.
Noi pensiamo che la nostra liberazione è tale solo se non subiamo più mutilazioni di nessun genere, né dell’affettività né della creatività.
Insomma fare un figlio perché ci piace e non vogliamo negarcelo, non per tornare a casa, ma perché vogliamo tutto.